Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Sviluppo locale ed economia globale

Sviluppo locale ed economia globale

di Raffaele Ragni - 12/10/2009

 

 
Sviluppo locale ed economia globale
 


L’economia globale è un concetto vago. In teoria, allude all’utopia di unificare il mercato mondiale ed imporre dovunque lo stesso sistema economico, mentre nei fatti viene utilizzato per indicare fenomeni diversi: la diffusione planetaria di modelli di consumo omogenei, la progressiva integrazione tra economie nazionali, la libera circolazione di beni e fattori produttivi. Più che una realtà, l’economia globale è dunque un modello, un progetto. Collegata ad istanze sociali e politiche ispirate all’idea che tutto il mondo debba essere governato allo stesso modo, il modello diventa ideologia, quella che viene comunemente definita mondialismo.
Dal momento che il mondialismo è apoteosi del globale, potremmo credere che la sua antitesi è il localismo. Ciò è vero da un punto di vista culturale, ma non economico e politico. Tra i fondamenti della globalizzazione c’è il principio “think global and act global”, secondo cui le imprese devono trasferire la fabbricazione di prodotti finiti e semilavorati dove i costi sono più bassi, adeguandosi all’ambiente locale. Lo stesso dicasi per il marketing, che deve differenziare le strategie in base alle peculiarità del consumatore. Le differenze, finché esistono, vengono valorizzate. Il mondialismo, nella sua prospettiva uniformante, si legittima per la sua capacità di gestire diversità, reali o fittizie. Le identità locali non sono quindi necessariamente un ostacolo all’affermazione dell’economia globale. Ciò risulta meglio comprensibile se consideriamo la dimensione locale nel contesto della mitologia dello sviluppo, che è quintessenza della globalizzazione, giacché l’economia globale continua la mission neoimperialista di portare dovunque nel mondo la stessa idea di sviluppo.
In Italia la cultura dello sviluppo locale ha preso forma nell’ultimo ventennio del secolo XX, dapprima come concettualizzazione dell’esperienza dei distretti industriali e poi come teoria dei patti territoriali. Le sue radici risalgono tuttavia agli anni cinquanta, al paternalismo padronale di Adriano Olivetti e ad una certa progettualità contigua all’assistenzialismo democristiano, entrambi ispirati alla sociologia americana del community development. Il paternalismo padronale di Adriano Olivetti era basato sull’intreccio tra impresa, territorio e rappresentanze sociali. La fabbrica era percepita come agente di sviluppo, mentre il sindacato era riconosciuto come attore strategico nelle dinamiche produttive e nel rapporto con la comunità locale.
Al modello Olivetti si ispirarono diversi villaggi operai, autentiche città-fabbrica, che attingevano manodopera a basso costo dalle campagne padane. L’obbiettivo dichiarato era di realizzare un modello organizzativo della produzione industriale basato sul controllo sociale della forza lavoro, per uniformarne mentalità e stile di vita al ciclo economico, inibire la formazione di una coscienza di classe, attenuare gli effetti disgreganti sui valori e i ritmi della civiltà contadina. A tal fine furono necessarie nuove figure professionali, in funzione di mediatori tra un modello di sistema produttivo - integrato in forma subalterna al neoimperialismo americano - e le comunità locali, ridefinite in funzione di quel sistema.
Col sostegno finanziario di enti sovranazionali, come l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (Ocse), fiorirono scuole per la formazione di operatori di comunità, che avrebbero dovuto promuovere lo sviluppo locale, soprattutto nelle aree rurali. Al fervore progettuale subentrò presto il criterio dell’assistenza, sociale e finanziaria, per favorire l’assuefazione delle masse alle disfunzioni di un’economia sbilanciata a favore dei profitti e la stabilità della classe politica che ne beneficiava. Sorsero diverse scuole per la formazione di assistenti sociali che, da semplici operatori di patronato, divennero specialisti di una metodologia di processo, finalizzata all’integrazione nel territorio-fabbrica delle popolazioni rurali che affluivano dalle diverse regioni della penisola. Alle comunità artificiali, create in funzione delle strategie espansive della grande industria italiana, si applicarono i principi del community development americano, basato sull’esperienza di convivenza di soggetti eterogenei nei villaggi di frontiera e nelle periferie delle grandi metropoli multirazziali.
La rottura del modello di sviluppo incentrato sulla grande industria si ebbe intorno alla metà degli anni sessanta quando, col rallentamento dei flussi migratori ed il rafforzamento dei sindacati, il padronato vide assottigliarsi la riserva di manodopera a basso costo. L’aumento dei costi di produzione - derivante dalla spirale inflazionistica generata da conflitti distributivi a livello sia interno (aumento dei salari) che esterno (aumento del prezzo del petrolio) - spinse molte grandi aziende a delocalizzare gli impianti in aree interne al territorio nazionale dove il minore costo del lavoro e la presenza di solide economie esterne, in termini di infrastrutture e servizi, contribuissero a ristabilire adeguati margini di profitto. Nelle regioni già caratterizzate da un discreto dinamismo economico, con elevata mobilità sociale ed ampie fasce di lavoro a domicilio, i nuovi insediamenti produttivi contribuirono a valorizzare le potenzialità locali stimolando la nascita e lo sviluppo di nuove iniziative imprenditoriali.
Da questi localismi vitali sono nati i primi distretti industriali, la cui proliferazione ha caratterizzato il modello di sviluppo italiano degli anni settanta e ottanta. La definizione originaria di distretto industriale presupponeva il concetto di settore, inteso come comparto produttivo in cui è riscontrabile una certa omogeneità della manifattura o dove la materia prima svolge il ruolo di denominatore comune a più cicli di lavorazione. A partire dagli anni novanta, la ricerca di competitività ha spinto un numero crescente di aziende a delocalizzare gli impianti in aree esterne al territorio nazionale e a cercare subforniture in Paesi a basso costo della manodopera.
La tendenza, ancora in atto, ha portato ad una ridefinizione del distretto in termini di rete internazionale, dove al concetto di settore subentra quello di filiera, intesa come ambito sistemico in cui non c’è omogeneità tecnologica tra le diverse fasi del ciclo produttivo, e il principio unificante è dato dal prodotto finale trasformato. Da una semplice successione temporale di fasi per la realizzazione di uno stesso bene, la filiera ha finito per identificare una relazione spaziale tra imprese localizzate in Paesi diversi ma interdipendenti, o perché integrate da compartecipazioni di capitale, o perché legate da accordi di natura commerciale e produttiva (es. franchising, licensing, assembly, joint venture, contract manufacturing). In precedenza, nel passaggio dai poli industriali alle economie diffuse, lo sviluppo procedeva in base a contiguità spaziali in cui i fattori locali gemmavano iniziative economiche per condivisione di risorse situate nello stesso territorio. Oggi le cose sembrano cambiate. Pur partendo da una dimensione locale, che sembra ineludibile, le imprese sono costrette a misurarsi, non solo con mercati più ampi, ma con contesti sociali diversi e lontani, alla ricerca di complementarità che spesso stanno altrove. In tale prospettiva, si parla di reti territoriali come sistema di relazioni tra diversi livelli locali. Si depotenziano le reti comunitarie, date dalla condivisione di culture e modelli prossimi, e s’impongono reti mercantili, prodotte dalla ricerca di soluzioni globali ai problemi del conflitto competitivo. Le relazioni che prima univano soggetti radicati sullo stesso territorio, non scompaiono, ma si aprono a riferimenti sovralocali. La globalizzazione ridisegna lo spazio. Alle comunità naturali subentrano comunità artificiali, nella misura in cui producono reti lunghe in grado di interconnettere il locale con livelli spaziali superiori.
Sulle nuove frontiere del community development, in cui lo sviluppo locale tende a configurarsi come opzione strategica del mondialismo capitalista, ritorna l’idea del territorio come fabbrica, che ispirava il paternalismo padronale. Dicono gli esperti che si compete attraverso sistemi territoriali, non più soltanto tra imprese. Il territorio è l’ambiente strategico funzionale ad alimentare sia il processo produttivo che il conflitto competitivo. Viene riprogettato, in forme artificiali, per includere elementi esogeni - immigrati, capitali stranieri, cultura cosmopolita - purché funzionali alla sua valorizzazione nell’economia globale. Lavoro e vita si confondono nella misura in cui si dissolve il confine tra azienda e territorio. La fabbrica diffusa è luogo del produrre e luogo del vivere, intreccio di opportunità e nuove subalternità, dove si dissolvono le appartenenze e la comunità è percepita come assenza, crocevia tra la certezza di ciò che non siamo più e l’incertezza di ciò che saremo.
Gli equivoci dello sviluppo locale sono nel suo rapporto con la dimensione globale. Possiamo costruire uno sviluppo endogeno e sostenibile, aperto alla competizione internazionale ma basato sulla valorizzazione delle risorse di una comunità naturale, oppure cedere la nostra terra, con i suoi saperi e i suoi ecosistemi, all’economia globale lasciando al mercato il compito di ridefinire valori e forme esistenziali, inclusioni ed emarginazioni. Lungo il confine tra queste opzioni operano gli agenti di sviluppo, termine che, a partire dalla diffusione dei distretti industriali, identifica molteplici figure con compiti di animazione territoriale, in particolare: job creation, enterprise creation, consulenza alla programmazione economica, progettazione urbanistica.
Tra vecchie e nuove intermediazioni, politiche e professionali, il destino dei territori rimane proteso tra la ricerca di nuove complementarità, imposte dalla globalizzazione produttiva, e l’accrescimento delle capacità, da parte della comunità locale, di progettare e gestire autonomamente il proprio sviluppo. Il localismo ed il federalismo, che è la sua naturale proiezione politica, non sono rivoluzionari per definizione. Ma possono diventarlo, solo se collegati ad un ideale di giustizia e lotta allo sfruttamento, che rappresenta l’unica via di liberazione nazionale: il socialismo.