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(Af)Fondo Monetario Internazionale: in crisi l'egemonia USA sul FMI

di Romolo Gobbi - 13/10/2009

  Autore: RomoloGobbi | Data: 11/10/2009 21.08.38
Durante la riunione del G20 a Pittsburgh era stata decisa una riforma delle quote di partecipazione al Fondo Monetario Internazionale: "a favore di Pechino, della Corea del Sud e della Turchia, grazie ad una riduzione delle attuali quote di Belgio, Olanda, Gran Bretagna, Arabia Saudita, Iran, Russia e Argentina".
Come si vede, nessuna riduzione della quota partecipativa degli USA, che attualmente ammonta a circa il 17%. Quando fu istituito il Fondo Monetario Internazionale, nel 1944 a Bretton Wood, la quota partecipativa degli Stati Uniti era superiore al 20% e consentiva loro "di vincolare ogni decisione del consiglio dei governatori, dal momento che queste devono essere prese con una maggioranza dell' 80%". Nel 1976 gli USA detenevano una quota pari al 22,93% del totale dei depositi nel Conto Generale e mantenevano ancora il diritto di veto sulle decisioni del FMI.
A Istanbul sono state mobilitate risorse supplementari per far fronte alla crisi mondiale: "Lo sforzo maggiore è ovviamente venuto da Stati Uniti e Giappone, che hanno stanziato 100 miliardi di dollari ciascuno nell'ambito del FMI (anche per non perdere il proprio peso percentuale nella composizione del sistema di voto all'interno del Fondo e, di conseguenza, nel relativo diritto di veto, è stato maliziosamente osservato per gli USA)". Non ci vuole una particolare "malizia" per capire che gli USA non mollano sulle decisioni importanti a livello globale, nonostante le dichiarazioni di Obama di voler rinunciare alle politiche unilaterali portate avanti dai suoi predecessori.
In passato il FMI era intervenuto imponendo ai paesi in crisi le direttive imperanti dell'economia americana, basata: "sulla riduzione delle spese dello Stato, una politica monetaria deflazionista e l'apertura dei mercati locali agli investimenti esteri. Tali scelte politiche venivano di fatto imposte ai paesi in crisi, ma non rispondevano alle esigenze delle singole economie e si rivelarono inefficaci o addirittura di ostacolo per il superamento della crisi". Attualmente la crisi ha colpito il 40% dei paesi in via di sviluppo: "37 dei 53 paesi africani e 17 dei 52 asiatici hanno conosciuto netti aumenti dei livelli di povertà". Se a questi paesi verranno applicate le direttive tradizionali degli Stati Uniti, queste economie verranno ulteriormente impoverite.
L'egemonia USA sulle decisioni globali si manifesta anche nella non applicazione al proprio interno delle regole che si impongono agli altri: "Ovvero, dopo aver salvato Wall Street e rilanciato l'economia a colpi di spesa in deficit, la Casa Bianca dovrà prima o poi aumentare le tasse o tagliare le spese". Però Barak Obama non sta applicando queste misure, per cui il dollaro continua a svalutarsi a scapito delle monete che si rafforzano: "L'euro forte, così come il dollaro canadese forte, aggiunge un ostacolo alla già stentata ripresa economica". Le manovre inflative del dollaro non danneggiano soltanto le monete forti, anche la Cina è colpita dalla riduzione di valore del dollaro, non solo perché i crediti in dollari valgono meno, ma anche perché le merci americane diventano più concorrenziali.
L'impoverimento del dollaro, nonostante "la consueta litania del dollaro forte"reecitata dal segretario al Tesoro USA, Tim Geithner, ha fatto lievitare il prezzo dell'oro e di altre materie prime. Tutte queste conseguenze negative della politica monetaria americana rilanciano l'idea di "sostituire il biglietto verde nelle contrattazioni sul petrolio (...), si tratterebbe di costruire un paniere di riferimento che cambi i valori di oro, yuan cinese, yen giapponese, euro e una moneta unica, che verrebbe creata dal Consiglio di Cooperazione del Golfo".
Se Obama cambierà la propria politica economica, il prossimo anno vincerà anche il premio Nobel per l'economia, ... oppure glielo daranno ugualmente.