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L'impostura liberale

di Adriano Scianca - 13/10/2009

Fonte: ilfrancot.altervista

 

  

Il liberalismo ha, come ideologia, una sua precisa funzione nella storia occidentale: quella di sostituire il marxismo nel ruolo di paradigma dominante dopo la fine della Guerra Fredda. Perché c’è effettivamente stato un momento in cui le classi colte europee “non potevano non dirsi marxiste”, quasi che il sistema del filosofo di Treviri rappresentasse l’avanguardia dell’intero schieramento egualitario. Non è andata troppo bene. Il marxismo, infatti, si imponeva ancora in modo ideologico, era pur sempre una parte che aspirava imperfettamente ad essere il tutto. Per di più il suo inveramento storico ha alla lunga disgustato anche i più ottusi custodi dell’ideologia. E allora? Allora si sono riscoperti tutti liberali. Caduto il Muro di Berlino, si è scoperto che in pratica comunista non lo era stato nessuno, che in fondo tutti hanno sempre parteggiato per i diritti umani, che il mercato non era poi quello strumento di Satana che si pensava, che il Sol dell’Avvenire forse spuntava sulla Grande Mela e non su Leningrado. Tutti liberali e tutti americani. Il pensiero unico ha cambiato casacca. E così risiamo da capo.

Le diverse correnti

 

Ma che cos’è, il liberalismo, questo nuovo dogma ideologico di inizio millennio? Va detto innanzitutto che esistono diverse correnti all’interno della nebulosa liberale, tra cui non possiamo non citare almeno quella utilitarista (Bentham:“maggior felicità per il maggior numero di persone”), quella  anarco-capitalista (il mercato è un ordine spontaneo autoregolantesi e sul suo modello va riformulata l’intera società) e quella liberal (la società deve realizzare il giusto – non il bene – e lo Stato deve garantire che tale realizzazione sia effettiva). Quest’ultima – la versione dei Rawls, dei Dworkin, dei Larmore, tutti profondamente debitori di Kant – è quella che negli ultimi anni maggiormente si è imposta nel dibattito accademico. Le ragioni di questo successo sono ovvie: “il pensiero di Rawls (come quello di Jurgen Habermas) cade a pennello per legittimare la categoria emergente dei ‘social-liberali’: i riformisti di una sinistra in crisi che non vuole gettare via il bambino dell’eguaglianza con l’acqua del bagno rivoluzionario[i]. D’altra parte, i più pragmatici settori dell’alta finanza e della politica a quest’ultima asservita non hanno disdegnato di farsi sedurre da scuole liberali meno angeliche, come la corrente che si sviluppa da von Mises  fino a von Hayek, e poi da questi a Milton Friedmann ed ai suoi famigerati Chicago Boys, i quali a suo tempo esercitarono una notevole influenza su Reagan e sulla Tatcher (per tacere di Pinochet).

 L’individualismo liberale 

Tante famiglie di pensiero, quindi, ma una unica visione del mondo, per lo meno nell’essenziale. Per Alain de Benoist, il liberalismo è genericamente definibile come una dottrina economica che tende a fare del modello del mercato autoregolatore il paradigma di tutti i fatti sociali (il liberalismo politico non essendo che l’applicazione alla politica di tale schema), nonché come una dottrina che si fonda su una antropologia di tipo individualista[ii]. Questi due aspetti hanno un punto in comune: sono entrambi contro le identità collettive. Ideologia dell’individuo, della massa e della “società” (Gesellschaft), il liberalismo è per sua natura ostile alla persona[iii], al popolo ed alla “comunità” (Gemeinschaft). Partendo dall’individuo, il liberalismo tende a disintegrare tutti i legami sociali che vanno al di là di esso. Dotato di un primato “nel contempo descrittivo, normativo, metodologico e assiologico[iv] su ogni forma di comunità, l’individuo è visto come l’unica realtà ed il principio di ogni valutazione, una monade sufficiente a se stessa rispetto alla quale ogni collettività è derivata per semplice sommatoria (prospettiva anti-olistica: il tutto è solo la somma delle sue parti).

  Capitalismo e diritti umani 

Ora, questo atomo sociale è né più e né meno che l’homo oeconomicus, il singolo che  calcola i propri interessi grazie ad una razionalità “pura”, economicistica, staccata da ogni contesto e da ogni tradizione ed è inoltre dotato di originari diritti “inalienabili”. Si vede bene come il liberalismo abbia il capitalismo come “forma” e la religione dei diritti dell’uomo come “contenuto”. I diritti appartengono all’individuo in quanto tale, non derivano da alcuna cultura particolare né sono conferiti da alcuna autorità. L’autorità, anzi, deve solo badare a garantirli. “Essendo antecedenti a qualunque forma di vita sociale, [i diritti individuali] non sono immediatamente accompagnati da doveri, giacché i doveri implicano, per l’appunto, che esista un inizio di vita sociale[v]. Diritti senza doveri, quindi. Da qui una visione necessariamente conflittuale dei rapporti intersoggettivi: io ho il “diritto” di far valere il mio interesse rispetto agli altri, mentre nei loro confronti non sono obbligato da nessun vincolo, autorità o norma. Lo scenario che si configura è quello della legge della giungla di marca capitalistica. Non a caso il primo dei diritti inalienabili è il diritto a possedere. L’interesse materiale è il primo motivo di preoccupazione per l’individuo liberale ed è solo per meglio soddisfare questa “ricerca della felicità” che egli sceglie di associarsi in una collettività. Così Locke: “il grande e principale fine per cui gli uomini si uniscono in Stati e si assoggettano ad un governo è la salvaguardia della loro proprietà[vi].

 Il contratto originario 

Ogni forma di vita associata, quindi, è scelta razionalmente dal singolo in relazione alla propria convenienza utilitaristica. Si stringono rapporti sociali se e quando conviene. Per questo il problema dello Stato è affrontato dai liberali dal mero punto di vista dell’efficienza, a prescindere da ogni appartenenza concreta e vissuta. Il continuo ricorso, da Locke a Rawls (ma non in Hayek) alla finzione del “contratto originario” si giustifica in questa ottica: in un’ipotetica situazione originaria di eguaglianza, gli individui sceglieranno la società più giusta senza essere condizionati da “irrazionali” influssi culturali. E va da sé che i principi così determinati saranno validi universalmente, in ogni luogo ed in ogni epoca. Ecco cosa significa il fatto che per i liberali il giusto ha la preminenza sul bene: la moralità determinata con la finzione contrattualistica esprime una giustizia universale che deve essere garantita dallo Stato, mentre le particolari idee del bene rientrano nella sfera privata in cui il cittadino è libero di aderire allo stile di vita che vuole. La concezione dello Stato, quindi, ne esce impoverita: non dovendo più promuovere un progetto politico imperniato su una idea di bene comune, lo Stato diviene una macchina, un’azienda, il cui fine è puramente burocratico e amministrativo. La politica è quindi solo una tecnica di gestione mirante all’efficienza.

 Stato e mercato 

Per le correnti anarco-liberali, poi, lo Stato deve quasi essere soppiantato dal mercato. Quest’ultimo, per i vari Friedmann, von Hayek, von Mises, è il modello per eccellenza di ogni organizzazione sociale, essendo ritenuto innocente, giusto, tendente all’equilibrio spontaneo. Contrapponendosi ai modelli organizzativi di tipo gerarchico (in cui la decisione è presa ai livelli più alti in modo arbitrario – così pensano gli anarco-liberali – e comunicata via via ai livelli inferiori, imponendosi solo per autorità), il mercato sarebbe naturaliter democratico: un cliente entra in un negozio e chiede un prodotto, il negoziante lo chiede al fornitore, il fornitore alla fabbrica, e così via. Un’organizzazione di tipo mercantile appare quindi molto più giusta ed efficiente di una classicamente politica, la cui natura “decisionista” sarebbe irrazionale e foriera di catastrofi. Addirittura un Constant o un Kant erano a suo tempo convinti che il mercato, imponendosi in modo totale, avrebbe eliminato le guerre e stabilito una pace perpetua; illusioni settecentesche, si dirà. Eppure un Habermas o un Antiseri hanno avuto il coraggio di affermare simili ingenuità anche ai giorni nostri, dopo ben due secoli di aggressioni e guerre intraprese dal paese mercantile per eccellenza. Ma, si sa, una religione non teme le smentite della realtà.

 L’Io povero 

Ora, ciò che nel liberalismo appare innanzitutto come aberrante è senz’altro l’impostazione individualistica.  L’idea liberale dell’ Io è povera, irreale, destoricizzata. Il “chi sono io?”, nella concezione liberale, viene totalmente obliato e rimpiazzato da un astratto “quali fini devo scegliere?” o da un “come posso massimizzare i miei guadagni?”; ma quest’ultime domande non hanno ragione di esistere senza la prima. Innanzitutto l’idea della “scelta razionale” utilitaristicamente orientata si basa su una concezione della psiche umana semplicistica e riduzionista, in netto contrasto con i più recenti risultati delle scienze  neurocognitive[vii]. Non si capisce, inoltre, cosa io possa decidere della mia esistenza e dei fini che voglio perseguire se non sono già situato in un orizzonte di senso, in una cultura, in una tradizione. Noi nasciamo sempre in una determinata situazione, in un certo contesto, nel mezzo di una tradizione particolare con cui dovremmo sempre fare i conti, fosse anche solo per distaccarcene. Nella realtà gli individui così come li concepisce il liberalismo - senza memoria, immuni dal caso e fuori dalla storia, agenti morali che “per tutto il corso della loro vita sono esseri perfettamente razionali, che godono di piena salute e non sono toccati da alcun problema[viii] – non sono mai esistiti.

 

Il Noi viene prima dell’Io

 

Né la realtà sembra confermare le assurdità sul “contratto originario”. Fosse anche, quest’ultimo, un mero espediente metodologico, rimane comunque da spiegare come si possa formulare una teoria politica partendo da una ipotetica situazione che, anche se non si vuole realmente accaduta, contraddice comunque tutti i dati storico-antropologici in nostro possesso circa la natura dell’essere umano. Che i liberali credano o meno alla natura storica del contratto originario è secondario; il punto è che tale contratto delinea un’antropologia totalmente falsa e che quindi non può essere ammesso nemmeno per ipotesi. L’uomo è già da sempre immerso nella storicità e quindi ha già da sempre esperienza dell’altro. Il Noi è più originario dell’Io. L’uomo non ha mai “deciso” utilitaristicamente di essere l’animale politico che è, ma lo è sempre stato. È da qui che bisogna partire, dall’esser concretamente situato dell’uomo in una tradizione storica ed in una rete di rapporti intersoggettivi. Ogni altro punto di partenza è puramente onirico, irreale, utopistico.

 

Tecnocrazia

 

L’idea di Stato e di società che deriva logicamente da tale distorta prospettiva ha poi le tinte dell’incubo tecnocratico. Ridotto a garantire sicurezza dai ladri e dal fuoco, come diceva Nietzsche, lo Stato liberale non è più portatore di un’idea di vita buona o di bene comune, esso deve solo escogitare la via migliore per giungere a fini già dati per scontati. Nulla di più. È quindi ovvio che governare sia sempre più un fattore di competenza tecnica, roba da pochi “esperti”, con tanti saluti alla pretesa sovranità del popolo “ignorante”. Si fanno ancora le elezioni, ma esse sono sempre più inutili, giacché la politica diviene ormai affare esclusivo del banchiere Ciampi, dell’imprenditore Berlusconi, dell’oligarca Dini, del manager Prodi e dei loro superiori innominabili che almeno democratici non fanno nemmeno finta di esserlo. Bandita è, poi, ogni volontà di Grosse Politik: “non ci si presenta a Maratona né a Salamina con eserciti formati di consumatori” diceva già Jean Thiriart[ix]. Immaginiamo la risposta di un interlocutore liberale à la Popper: “Ma la Grande Politica genera solo disastri!”; ebbene, per quanto ci riguarda non riusciamo a pensare a disastri più grandi della rapina e dell’usura istituzionalizzati nel Nuovo Ordine liberale che depreda ed uccide gli uomini, i popoli, le anime.


[i] Charles Champetier, I comunitaristi contro il liberalismo, in Diorama n. 203, aprile 1997

[ii] Alain de Benoist, Il liberalismo contro le identità collettive, in Trasgressioni n. 28, Maggio-Agosto 1999

[iii] Per la differenza tra persona ed individuo si veda , tra gli altri, Julius Evola, Gli uomini e le rovine, Settimo Sigillo, Roma 1990

[iv] Alain de Benoist, op. cit.[v] Alain de Benoist, op. cit.

[vi] John Locke, Il secondo trattato sul governo, Rizzoli, Milano 1998

[vii] Cfr George Lakoff (Il sé neurocognitivo, in Pluriverso, vol. 1, num. 5, 1996): “Kahnemann e Tversky hanno dimostrato, in un’ampia serie di esperimenti, che in varie situazioni il pensiero basato su prototipi e frames va contro gli interessi del soggetto (come viene definito dalle teorie dell’autointeresse fondate sulla teoria della probabilità e sulla logica). Pertanto la specifica natura dei nostri sistemi concettuali elimina l’eventualità che noi possiamo agire solo in vista di massimizzare i nostri interessi”.

[viii] Alasdiar Mc Intyre, Animali razionali dipendenti. Perché gli uomini hanno bisogno della virtù, Vita & Pensiero, Milano 2001

[ix] Jean Thiriart, La Grande Nazione. 65 tesi sull’Europa, SEB, Milano 1993