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Se la verità è una relazione della mente con la realtà, allora che cos'è la realtà?

di Francesco Lamendola - 19/10/2009


Che cos'è la verità?
Platone, nel «Cratilo» (385, b), afferma: «Vero è il discorso che dice le cose come sono, falso quello che le dice come non sono». Già: ma come sono, le cose?
Aristotele, da parte sua, nella «Metafisica» (IV, 7, 1011 b 26 sgg.) sostiene: «negare quello che è e affermare quello che non è, è il falso, mentre affermare quello che è e negare quello che non è, è il vero». Ma, di nuovo: chi stabilisce quello che è e quello che non è?
Sant'Agostino («Solil. », II, 5) definisce il vero «ciò che è così, come appare». Ma, ai sensi - per esempio -, appare che il Sole si muova e la Terra stia ferma: mentre sappiamo che ciò è falso.
Infine San Tommaso, nella «Summa Theologiae» (I q., 16 a 2) definisce la verità come «l'adeguazione dell'intelletto e della cosa». Tale definizione, divenuta classica, classica si basa sull'idea che la verità sia un accordo fra il giudizio della mente e la realtà.
Questa definizione, tuttavia - con tutto rispetto per il tomismo, che è una filosofia seria; molto più seria d tante pseudo-filosofie moderne, destinate a lasciare il tempo che trovano -, ci sembra che presenti almeno due punti deboli.
Il primo è dovuto al fatto che essa sembra implicare che la verità sia essenzialmente, se non pure esclusivamente, un fatto razionale, dimostrabile con le sole categorie della logica e della matematica; mentre tutti sappiamo che vi sono delle verità che noi conosciamo intuitivamente, per via extra razionale, e tuttavia assolutamente certe e incontrovertibili.
Il filosofo Gabriel Marcel, in proposito, ha condotto una critica molto pertinente a questa concezione ristretta della verità, come ha osservato Enrico Piscione (in: «Antropologia e apologetica in Gabriel Marcel», Reggio Emilia, Città Armoniosa, 1980, pp. 27-30):

«Il principio di immanenza (come ci ricorda Marcel nel saggio "Valore e immortalità di Homo viator") veniva presentato come una legge irrefutabile dello spirito, e perciò della realtà.
Alla stessa stregua principio della oggettività gnoseologica, dopo le ricerche dei pensatori della scuola di Marburgo, sembrava ormai un fatto assodato: la verità è solo ciò che è riducibile alla coerenza  del sapere matematico, e il pensiero, quando si esercita nella sua pienezza  (si sosteneva da parte di questi neokantiani) ha il diritto e il dovere  di astrarsi dalla concretezza della condizione umana  e dalle dimensioni che le sono proprie, e che sono irriducibili ad ogni astratto sapere.
Contro questo soffocante e cupo razionalismo (alle cui spalle stavano Cartesio e Kant) Marcel, già fra gli anni 1906-08, si sentiva di lottare tenacemente, probabilmente incoraggiato dal tentativo anti-intellettualistico di Henri Bergson, che proprio in quegli anni andava elaborando la sua filosofia  dell'ÉLAN VITAL e dell'INTUITION. […]
La funesta dualità, in cui cade una gnoseologia così concepita, consiste, da un lato, nella svalutazione che questa opera  di tutto ciò che non è riducibile al sapere matematico e, dall'altro, nell'abbandonare alla psicologia e alla sociologia gli elementi residuali dell'uomo, che paiono al filosofo idealista  essere refrattari alle norme costitutive di ogni verità L'epistemologia razionalista sostituisce (l'abbiamo già detto) alla verità nel senso forte del termine, il criterio del valido.
Così Marcel si esprime nel suo primo manifesto metodologico, "Esistenza e oggettività" (1927): "Il cogito ci introduce in un sistema di affermazioni di cui garantisce la validità; esso si tiene nella soglia del valido, e soltanto identificando il valido e il reale,. Si può parlare, come si è fatto spesso senza prudenza, di un'immanenza del reale rispetto all'atto di pensare".[…]
[Per Marcel] lo spirito di verità è l'atto mediante il quale  si mette fine a quell'eterna e superba illusione umana che è l'autocompiacimento. "In relazione a questa illusione - scrive Marcel, con toni che non possono ricordarci le famose parole del capitolo XXIX del "De Vera Religione" di Agostino, "lo spirito di verità si presenta come trascendente, e tuttavia, sembra che la sua funzione consista  nel restituirmi a me stesso; alla sua luce scopro che, adulandomi, io tradivo me stesso".
Marcel, insomma, riprende, con palpitante partecipazione personale, due grandi scoperte  agostiniane: innanzitutto quella che lo Sciacca, felicemente, chiama L'INTERIORITÀ OGGETTIVA, ovvero il principio secondo cui "veritas habitat in interiore homine"; in secondo luogo la riaffermazione, fondamentale per un'autentica filosofia cristiana, che non è possibile essere nella verità, cioè amare Dio, se non si è capaci di superare il proprio egocentrismo, "usque ad contemptum sui".»

Ed è così che il filosofo francese giunge a definire il concetto della verità come pace vivente, che prende dimora nel cuore dell'uomo (cfr. il nostro precedente articolo: «La verità cui tendiamo non è un dato razionale, ma una "pace vivente" ove l'anima si ritrova» (consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice, dalla data del 04/05/2009),
Il secondo punto debole della definizione della verità come accordo fra la mente e la realtà, è che esso sembra dare per scontato che la mente possa cogliere la «realtà» (sempre per via logico-razionale) ed esprimere un giudizio veridico su di essa: ma ciò è, appunto, quello che andrebbe prima dimostrato.
In altre parole, qui, o siamo in presenza di un gioco di parole («la verità è la percezione veritiera della realtà, che la mente può cogliere in quanto tale, ossia in quanto veritiera»), oppure non è altro che una empirica constatazione a posteriori, di tipo meramente tautologico («osservato che una cosa è vera, perché in accordo con ciò che colgo come la realtà, io affermo che essa è vera»).
Ma con quale criterio io posso decidere cosa sia la realtà?
Mentre sto sognando, ad esempio, le cose e le situazioni in cui mi trovo immerso sono, per me, la realtà: e chi mi garantisce che sia o non sia così?
È noto l'apologo del filosofo taoista Chuang Tzu: un giorno un uomo sognava di essere una farfalla che volava su un prato fiorito; il sogno era così realistico che, al risveglio, egli si chiese se era un uomo che aveva sognato di essere una farfalla, oppure se era una farfalla che, ora, stava sognando di essere diventata un uomo.
Evidentemente, non basta affermare che la realtà è l'esperienza dei sensi, supportata dalla ragione; perché i sensi possono ingannarci, e la ragione esprime giudizi che risultano validi solo all'interno del proprio sistema di riferimento. Ad esempio, la ragione può dirmi che una determinata cosa è vera, ma ciò non basta ad assicurarmi che quella cosa sia anche reale.
Non bisognerebbe sopravvalutare né la potenza del pensiero logico-razionale, né la sua capacità di cogliere la realtà come essa è, oggettivamente e veridicamente.
Per quanto riguarda il primo aspetto, si pensi al concetto di infinito e a quello del rapporto logico esistente fra la parte e il tutto. Secondo la logica, la parte è minore del tutto; tuttavia, se pensiamo alla serie dei numeri dispari, ci troviamo in serio imbarazzo ad estendere il principio testé formulato: perché la serie dei numeri pari, ad esempio, è, evidentemente, una parte dell'insieme di tutti i numeri naturali, però non si può affermare che essa sia minore di quella, perché, essendo infinita, non è minore di niente.
Per quanto riguarda il secondo aspetto, se per «realtà» intendiamo la cosa in sé, il «noumeno» kantiano, allora dobbiamo riconoscere che noi non possediamo gli strumenti per coglierla in quanto tale, ma solamente così come ci appare: all'interno della nostra mente, non fuori di essa. Come diceva Berkeley, «esse est percipi», essere è l'essere percepito.

La questione della verità è stata così posta da Peter Dempsey, già membro dell'Associazione Psicologica Americana, nel suo libro «Psicologia per tutti» (titolo originale: «Psychology for all», The Mercier Press, Cork, Eire; traduzione italiana di E. Roncoroni, Roma, Edizioni Paoline, 1985, pp. 130-132):

Pensate per un momento alle attività dell'intelletto. Con esso io posso apprendere forme che noni si materializzerebbero mai, numeri irrazionali, per esempio, o altre entità che non nessun mezzo potrebbero essere ridotti al processo mentale. Posso pensare a un'idea astratta non limitata né dallo spazio né dal tempo, non definita in quantità, immateriale, indipendente dalle circostanze particolari sebbene realizzabile, o, per così dire, incarnata in loro. Non ho mai visto né vedrò mai la giustizia con gli occhi del corpo, ma la visione della mia mente può essere così chiara e bella che posso sacrificarle la vita affinché venga una forza  nella mente degli uomini. Con la mia intelligenza, che opera sui dati forniti dalla sensazione e dalla immaginazione, poso cogliere le idee universali. La sensazione e l'immagine non mi daranno mai qualcosa al di là del contorno fenomenico di una cosa particolare. Ma la bianca fiamma dell'intellezione può scartare gli elementi individuali e impossessarsi della segreta natura, della nascosta forma essenziale comune a tutti gli individui della stessa specie. Questo concetto o idea è qualcosa di più, qualcosa di fondamentalmente superiore alla forma fenomenica (Gestalt); non è un prodotto del cervello che è condizione e non causa del pensiero. È essenzialmente diverso da una sensazione o da un'immagine, libero da ogni particolare carattere determinante., applicabile agli individui in ogni tempo e in ogni luogo, indipendente dal tempo e dallo spazio. "La mente - dice Chesterton - è come uno specchio". È come uno specchio perché è in realtà una cosa che riflette. È come uno specchio perché in lei sola tutte le altre forme possono essere viste come ombre splendenti in una visione. .L'intelligenza, ed essa sola, può discernere la natura, la forma essenziale delle cose, di tutte le cose, sempreché la sua capacità sia sufficiente. L'intelletto strappa al mondo il suo significato e, quanto più saggi si diviene, tanto più completa e unitaria sarà questa conoscenza. Come la mente si sviluppa, spiegazioni sempre più fondamentali incominciano ad apparirle e armonie sempre più alte le si fanno udire. "Allora - per citare M. C. D'Arcy - parole come bellezza e verità, che dapprima erano astrazioni senza interesse, si rivestono di luce ed illuminano i grandi altipiani del mondo". Diversamente da ogni senso, l'intelletto è capace di una conoscenza sempre è più universale, e quanto più grande è la sua conoscenza e più intensa la sua attività, tanto più profonda è la gioia di un uomo. I sensi sono presto appagati, ma non c'è fine al rapimento dell'intelligenza nel possesso della verità.
La verità è una relazione della mente con la realtà, una corrispondenza fra il giudizio della mente e ciò che è. Se, per esempio, io affermo che il tutto è più grande della parte, asserisco una relazione di corrispondenza fra l'operazione della mia mente e la realtà. Nello stesso istante dell'affermazione vedo con gli occhi della mente che quanto ho detto deve essere così e non può essere altrimenti. So che ciò che asserisco è vero, deve essere vero, non può essere che vero: aprendo e consento alla verità necessaria. C'è, indipendente da me, una  realtà che costringe il mio intelletto ad assentire.  Non è materiale, non definita in quantità, sebbene io parli di interi e di metà; è una realtà immateriale, e questa verità, questo ente invisibile, questa cosa spirituale, è il cibo del mio intelletto. Sono entrato in un regno in cui la materia e il senso non hanno parte alcuna: il regno della mente, delle realtà spirituali..
Questa mia mente è, per così dire, luminosa:; può vedere e considerare se stessa. L'anima può giudicare, discriminare, lodare e biasimare. Posso scostarmi da me stesso e tornare a me con un atto che sdegna la distanza. Sono il mio proprio sorvegliante, custode e giudice.. Nei più riposti luoghi della terra, un uomo, anche se solo,  può, perché uomo, arrossire di vergogna. Questo perché può rendersi conto della colpevole sproporzione fra i suoi atti umani e i suoi ideali spirituali.
Ora se è vero che come ogni cosa è così agisce, deve anche essere vero che le attività rivelano la natura del principio che è alla loro origine. Ma le attività razionali sono ESSENZIALMENTE indipendenti dalla materia, dalla condizione del corpo e dalla immaginazione, superiori al tempo e allo spazio. Dunque l'anima, che di tali attività è il principio, sopravvive alla dissoluzione del corpo.»

Si sarò notato che la posizione del cattolico Dempsey è essenzialmente tomista, poiché anche per lui «la verità è una relazione della mente con la realtà, una corrispondenza fra il giudizio della mente e ciò che è.»
Tuttavia, a parte le obiezioni di ordine logico, cui abbiamo già accennato in precedenza (ad esempio, il classico esempio della relazione logico-matematica fra la parte ed il tutto), rimane il fatto che egli si muove in una prospettiva psicologista, ossia interna alla mente del soggetto giudicante. E, in una tale prospettiva - come nel sogno di Chuang Tzu - è impossibile esprimere un giudizio motivato sulla verità delle cose, perché il giudizio stesso è valido solo all'interno di quel certo sistema di riferimento: il quale, per quel che ne sappiamo, potrebbe anche essere illusorio o ingannevole.
D'altra parte, abbiamo più sopra affermato che la mente non può penetrare la cosa in sé; e, dunque, che aveva ragione Berkeley a ridurre l'essere alla percezione di esso. Parrebbe, quindi, che non esistano strumenti razionali per superare un tale solipsismo.
Come si esce da questo apparente vicolo cieco?
A nostro avviso, solo ammettendo che la verità sia un modo dell'essere che trascende i singoli enti, e dunque le singole menti; e che essa possieda la virtù di illuminare, per via extra razionale o sopra razionale, questi ultimi, circa il giudizio che si formano intorno alla supposta realtà - che, in se stessa, è sempre sfuggente e inafferrabile.
In altre parole: la mente - o l'intelletto di San Tommaso -, non può uscire da se stessa, se per «mente» e «intelletto» vogliamo intendere l'insieme delle nostre facoltà razionali; e la «realtà», qualunque cosa essa sia (e ci proponiamo di tornare altra volta su una questione così decisiva), se giace al di fuori di essa, si trova anche al di là delle nostre possibilità di comprensione; se, invece, è all'interno, resta da spiegare come essa si generi da se medesima.
E allora?
Queste difficoltà vengono superate, se si ammette che la realtà non può essere descritta in termini di «dentro» o «fuori» rispetto alla mente; e che la mente stessa non deve essere concepita come separata e indipendente dall'unica Mente universale, la Mente, per così dire, dell'Essere, principio fondamentale e necessario dell'intera realtà.
Il concetto dell'Essere è troppo grande per poterlo ridurre alle nostre grossolane categorie di spazio, tempo e quantità: tutta la costruzione logica e razionale, della quale andiamo tanto orgogliosi (troppo, forse, specialmente da Cartesio in poi!), è uno strumento semplicemente inadeguato per rapportarsi ad un mistero così immenso.
I mistici, tuttavia - sia quelli d'Oriente, che di Occidente - sanno, da sempre, che esistono altre vie di accesso al mistero della realtà, e che esso passa non attraverso il potenziamento delle facoltà razionali della mente, ma, ben al contrario, attraverso lo svuotamento di quest'ultima ed il suo superamento, mediante quel «vuoto» o quel «nulla» che danno accesso alla realtà intima dell'Essere.
Si tratta di abbandonarsi; di rinunciare al paracadute del Logos strumentale e calcolante, che ci dà quell'illusorio senso di sicurezza, e di gettarsi nel vuoto con fiducia, certi che solo così troveremo quello che andiamo cercando con tanto desiderio: la certezza della verità.
Ecco, allora, che la verità cessa di presentarsi a noi come l'accordo della mente con il reale, per assumere piuttosto il profilo di ciò che sta oltre i ristretti orizzonti della mente finita: un libero cielo sconfinato, ove tutte le menti sono in relazione reciproca con tutto quello che è, che è stato e che sarà, con tutto quello che potrebbe essere ora, con tutto quello che avrebbe potuto essere in passato o che potrà essere in futuro: in breve, dove il tempo e lo spazio cessano di costituire una frontiera, e persino l'essere e il non essere ci si riveleranno come le due facce di un'unica medaglia: la Realtà, appunto, nella sua vivida e luminosa essenza, non manifestata e non condizionata da alcun elemento materiale.
Come dice la sapienza antichissima dell'India: «tat tvam Asi», «tu sei Quello».