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Se i bambini diventano clienti

di Daniel Pennac - 19/10/2009


Il delicato mestiere di insegnare e di apprendere in una società di bambini-clienti: mentre in Francia infuria la polemica sulla crisi della scuola ex orgoglio e pilastro della République, il romanziere Daniel Pennac, ex professore e autore dell’indimenticabile Diario di scuola, racconta le nuove perigliose vie della trasmissione dei saperi.

Insegnare e imparare: la chiave di una società è sempre lì.
«In una società di consumo è nello stesso momento più facile e più difficile il rapporto tra le due cose. Più facile perché le conoscenze sono più numerose e di accesso più semplice che nella libreria del mio villaggio di quando ero bambino. Più difficile perché la qualità di quest’offerta non è garantita, su Internet si trova tutto e il suo contrario, e poi perché i bimbi di oggi sono clienti di una società consumistica (che non era il caso durante la mia infanzia: avevamo gli stessi abiti dei fratelli, le letture, pranzi e attività erano comuni in famiglia, mentre oggi i bambini sono clienti in modo totale), perché la società li strumentalizza come clienti. Tra l’altro, tutti i bimbi del mondo sono strumentalizzati dal mondo adulto. Da noi ci sono i bambini clienti, nel Terzo mondo ci sono i bambini produttori, quelli soldati o quelli che si prostituiscono nei paesi di turismo sessuale. I bimbi-clienti vanno a scuola, quelli produttori invece no. Questa strumentalizzazione dell’infanzia dà ai piccoli una maturità dei desideri di consumo che crea un problema: perché molto spesso gli adulti scambiano questa maturità commerciale per la maturità vera. Ma è solo una capacità. Saper riparare un computer, ad esempio».

E a scuola ?
«Rende la vita dei professori più complicata perché i bambini si presentano a scuola come clienti, esattamente come nel resto della società consumistica. Ma il sapere che dobbiamo diffondere non è affatto una merce. La società che ha strumentalizzato i bambini fin da bebé parla loro sul piano del desiderio. Poco tempo fa sono andato a casa di persone che avevano un bebé con la tv in camera. Sollecitato fin dalla nascita (o quasi) dal punto di vista del suo desiderio di consumo. Di conseguenza, molto rapidamente, considera i suoi desideri come bisogni fondamentali. Rimangono però desideri superficiali, ma non è in grado di capirne la superficialità perché sente questi messaggi da sempre. In molte famiglie, il regalo materiale è diventato l’espressione del sentimento. Mia madre, per dirmi che mi amava, non mi regalava niente. Lo diceva raramente, tra l’altro. Noi professori, in realtà, non parliamo a un desiderio. Il desiderio di imparare è una leggenda. Un bambino non ha spontaneamente il desiderio di imparare. Invece si tratta di un bisogno fondamentale, quello di sapere scrivere, contare, ragionare, riflettere. Questi bisogni fondamentali si confrontano con i desideri superflui di consumo. Il che complica parecchio la vita dei professori e degli allievi».

Il segreto del «mestiere», il talento nel trasmettere dove è?
«Difficile rispondere. Usando una metafora cristiana, direi che sta nel mistero dell’incarnazione. Bisogna incarnare le idee, la matematica nella presenza stessa del professore. E riuscire a fare in modo che gli allievi non siano soltanto in classe fisicamente ma che ne siano “abitati”, che entrino in un presente d’incarnazione. Io ero un allievo pessimo ma sono stato salvato proprio da professori che avevano questo dono. Il mio professore di matematica stava qua con noi e noi stavamo assolutamente qua assieme a lui. Questa presenza non si riduce a una specie di carisma ma si compone di elementi diversi: passione per la materia insegnata, passione per la gente e passione della trasmissione, come minimo. Un elemento solo non basta. Devono essere assieme».

In Francia si è proposto di pagare gli allievi perché frequentino con profitto…
«Si parlerà di questo per tre settimane. Ultima innovazione, poi si passerà ad altro. Sono choccato dal fatto che si tratta in realtà di una funzione familiare affidata allo Stato. Normalmente è la famiglia che ricompensa i buoni risultati. Ora è lo Stato che sostituisce la famiglia. Sorprendente. In fondo, un gradino in più sulla scaletta della clientelizzazione dei bambini».

C’è una nostalgia di disciplina a scuola: ma il ’68 non ha lasciato eredità?
«Il ‘68 ha cambiato molto nelle rappresentazioni del reale ma pochissimo nei comportamenti profondi. Ora le cose vengono dette, apologia del discorso. Ma nei fatti, concretamente, poche cose sono cambiate».

Anche essere genitori è un mestiere difficile.
«È difficile essere adulto in un mondo dove ci sono giovani, com’è difficile essere anziano in un mondo pieno di cinquantenni. Ma la difficoltà specifica della nostra società si trova nella confusione tra bisogni e desideri. Ormai la società consumistica offre prodotti particolari e diversi per bambini e adulti negli stessi campi (cibo, vestiti, musica). Questo determina nel bimbo confusione tra sentimento e regalo (il fatto di comprare). I genitori di oggi, clientelizzati anche loro, non hanno più tanto da trasmettere come i nostri. Noi abbiamo ricevuto un’eredità intellettuale, culturale, spirituale, politica. Oggi si passa attraverso un consumo di beni che spossessa gli adulti della loro funzione insegnante».

Lei ha preso posizione nel 2004 a favore di Battisti e degli italiani ricercati per gli anni di piombo. Ha cambiato opinione?
«Quella di Battisti è una vicenda estremamente dolorosa a cui mi sono accostato con il principio della amnistia. E mi sono accorto che questo concetto di amnistia era francese e non italiano, dico storicamente. La Francia si è centralizzata molto presto, dal XVI secolo c’è un regno che inghiotte le province e integra attraverso i funzionari. E questa cultura la République l’ha ripresa: amnistia dopo la guerra del 1940 per i collaborazionisti, poi l’Oas (l’organizzazione dei terroristi francesi in Algeria, ndr) e l’amnistia appena 6 anni dopo i processi, amnistia rapida per quelli che si sono battuti in Nuova Caledonia. L’amnistia rimonta alla notte dei tempi, è diventata un valore in sé. Mi sono espresso in nome di questi valori, non in nome della colpevolezza o meno di Battisti. Quando la vicenda è riapparsa mi sono accorto, parlando con gli amici italiani, che l’amnistia era un fatto culturale che gli italiani non condividevano perché l’Italia non è uno Stato centralizzatore. Ma non dobbiamo dare lezioni a nessuno».