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Gli imperi cadono all' improvviso

di Paolo Mieli - 19/10/2009

Due tesi: la storia non è un susseguirsi di fatti che giustificano la fine. Spesso i contemporanei sono inconsapevoli del crollo imminente Sorprese Il crollo non è mai annunciato: il collasso zarista del 1917 «è giunto come un ladro nella notte» scrisse il corrispondente del «Manchester Guardian», Morgan Philips Price. Così a Berlino nessuno si aspettava gli ammutinamenti che avrebbero piegato Guglielmo II Pericolo Nella Francia dei primi mesi del 1940, alla vigilia dell' invasione hitleriana, i soldati schierati sul Reno trascorrono le giornate a fare il bagno nel fiume, mentre a poche centinaia di metri vanno e vengono indisturbati i convogli ferroviari del nemico

 

A fine ottobre del 2000 si è svolto a Napoli un importante convegno nel quale si è dibattuto di come gli Stati che preesistevano alla nascita di quello italiano andarono in frantumi intorno alla metà dell' Ottocento. Gli atti di quel convegno sono poi stati raccolti in un libro Quando crolla lo Stato. Studi sull' Italia preunitaria (Liguori editore) curato da Paolo Macry. Il volume contiene saggi di grande livello come quello di Marco Meriggi su Venezia tra il 1848 e il 1849, l' analisi davvero eccellente di Daniela Luigia Caglioti sulla comunità protestante a Napoli dopo il 1860 e quella di Enrico Francia sulla Toscana nel Quarantotto. Nell' introduzione - dal titolo «Appunti per una fenomenologia del crollo» - Macry si soffermava su un dettaglio: al momento del dissolvimento del Regno delle Due Sicilie, il 25 giugno del 1860, Francesco II ebbe l' idea di promuovere una riforma costituzionale che però non gli fece guadagnare nessun nuovo alleato, né sul piano interno né su quello internazionale. Ma quella riforma lo mise in urto con l' arcivescovo di Napoli, il quale immediatamente gli manifestò per iscritto tutto il suo disappunto. Del resto lo aveva detto Tocqueville: «L' esperienza insegna che il momento più pericoloso per un cattivo governo è in genere quando inizia a riformarsi». E a proposito di riforme tardive che hanno effetti controproducenti Macry aveva richiamato poi uno studio di Charles Maier sulla crisi della Germania comunista, mettendo in rilievo alcune analogie tra la dissoluzione della Ddr nel 1989 e quella del regno borbonico nel 1860. È evidente che già allora Macry aveva notato alcuni tratti che ricorrono in questo genere di crisi e, studiata a fondo la questione, si accinge ora a dare alle stampe (per i tipi del Mulino) un brillante e interessantissimo libro, Gli ultimi giorni, che si occupa appunto - come recita il sottotitolo - di Stati che crollano nell' Europa del Novecento. Tre sono i casi principali presi in esame: la Russia di Nicola II, l' Austria-Ungheria di Carlo d' Asburgo e la Germania di Guglielmo II. Tre Stati che vengono travolti dalla Prima guerra mondiale e che, secondo la maggior parte degli storici, erano da tempo predestinati a quell' infausto esito. Di qui, dove il discorso potrebbe considerarsi chiuso, Macry invece lo fa partire, spiegando come, a suo avviso, l' esito di quelle tre vicende non fosse affatto scontato e mettendo in risalto quanto in quelle storie abbiano contato le personalità degli attori, ma soprattutto la fortuna, le circostanze imprevedibili, il caso. Non avrebbe senso analizzare gli «ultimi giorni», scrive, se si ritenesse che siano «il punto terminale di una traiettoria storica in qualche modo annunciata». E aggiunge: «L' ipotesi sottesa a questo libro è che il crollo politico e istituzionale, per quanto sia imparentato con tendenze e strutture, costituisce una pièce di avvenimenti, della quale non si conosce in anticipo la conclusione». Obiettivo polemico di Macry sono gli storici che analizzano tendenze pluridecennali o secolari, il lento farsi e disfarsi delle strutture economiche, le scansioni epocali della geopolitica nella loro «presunta consequenzialità» e appaiono con ciò sempre «sull' orlo del determinismo». Il loro modello interpretativo «rischia di essere una sorta di piano inclinato, il quale prende le mosse da lontano, talvolta da molto lontano, e spinge in una direzione certa tutto quel che rotola su di esso». La fine della corsa «diventa comprensibile e addirittura prevedibile perché la sua direzione si costruisce decenni e magari secoli addietro». Un metodo pericoloso. Del resto Marc Bloch aveva segnalato come costruire una catena di cause ed effetti e poi inchiodare i fenomeni storici al loro passato più o meno remoto fa correre il rischio di confondere «una filiazione con una spiegazione». Ma veniamo ai fatti. Tanto per cominciare non è vero che i tre Paesi di cui sopra fossero sull' orlo del collasso. Tra il 1867 e il 1914 il sistema asburgico non corse rischi paragonabili a quelli vissuti nel biennio 1848-49 e perfino durante gli anni del conflitto appariva tutt' altro che votato alla dissoluzione. «Sarebbe importante», ha scritto Alan Sked (Grandezza e caduta dell' impero asburgico 1815-1918, Laterza), «non presumere che poiché la monarchia asburgica non sopravvisse alla Prima guerra mondiale essa era comunque destinata a non sopravvivere». Quanto alla Russia, contrariamente a quel che si è sempre detto, non è l' impero ad essere travolto nel 1917 ma lo Stato: lo zarismo non viene meno nel 1905, quando erano state le aree baltiche, polacche ucraine a promuovere il conflitto, ma nel 1917 a Pietrogrado, mentre le periferie in quella seconda occasione si limitano a recepire gli avvenimenti della metropoli (tra l' altro nel 1914 Nicola II è a capo di un impero molto potente, dal momento che può contare sul più grande esercito del mondo, un «rullo compressore» di circa cinque milioni di uomini). Inoltre la caduta non è mai annunciata. Nella Vienna che sta per assistere al crollo dell' impero asburgico, la scrittrice Berta Szeps annota sul suo diario (3 ottobre 1918): «L' attenzione generale sembra appuntarsi su chi sarà il nuovo direttore del Burgertheatre». Il collasso zarista del ' 17 «è giunto come un ladro nella notte» (così il corrispondente del «Manchester Guardian» Morgan Philips Price). E l' ambasciatore britannico deciderà proprio alla vigilia dell' insurrezione russa di allontanarsi da Pietrogrado per una vacanza in Finlandia (dalla quale dovrà precipitosamente rientrare, tre giorni dopo nella «domenica dei massacri»). In Germania nel 1918 nessuno si aspetta gli ammutinamenti che piegheranno Guglielmo II. Hugo Haase, un leader del Partito socialista indipendente che pure annovera molti simpatizzanti tra i marinai, confessa alla moglie di essere stato preso completamente di sorpresa dalla ribellione della flotta di Kiel; il segretario dello stesso partito, Wilhelm Dittmann, ammetterà che tutti si attendevano un' iniziativa da parte degli operai, non certo dei marinai. A Pietrogrado, nella notte del 24 ottobre 1917, ovvero alla vigilia della presa del Palazzo d' Inverno, il ricercato Lenin sta andando a un incontro con i compagni di partito: ha il volto coperto da bende per non farsi riconoscere e, quando viene fermato da una pattuglia a cavallo e richiesto dei documenti, riesce a farla franca fingendosi ubriaco. «Fosse stato arrestato, il colpo di Stato bolscevico avrebbe potuto benissimo non verificarsi mai, perché egli fu la forza direttiva principale dietro di esso e la sola persona con un piano d' azione», ha scritto Richard Pipes. L' ipotesi è che la rivoluzione non sia la causa ma la conseguenza del crollo; tant' è che, osservando con attenzione l' accaduto, ci si accorge di come «sul piano della nuda cronologia abbia luogo né prima né durante, ma soltanto dopo il collasso delle istituzioni, occupando il vuoto creato dal ritirarsi dello Stato». Tutto avviene all' improvviso, dicevamo. Ma nei mesi precedenti al crollo si assiste ad un venir meno della consapevolezza di ciò che sta accadendo. Nella Francia dei primi mesi del 1940, scrive Macry, alla vigilia dell' invasione hitleriana, i soldati schierati sul Reno trascorrono le giornate a fare il bagno nel fiume, mentre a poche centinaia di metri vanno e vengono, indisturbati, i convogli ferroviari del nemico. La loro dieta è buona, il consumo di carne è quattro volte quello degli inglesi, sette volte quello dei tedeschi che di lì a qualche settimana li travolgeranno. La razione di vino è abbondante, mezzo litro al giorno, e viene ulteriormente aumentata fino a tre quarti, sicché un vero fiume di alcol, qualcosa come due milioni e mezzo di litri, si indirizza ogni giorno verso le linee. E visto che il problema di questa guerra non guerreggiata sta diventando la noia, i comandi decidono di distribuire palloni da calcio, organizzano la piantagione di roseti lungo la Maginot, arricchiscono il cartellone degli spettacoli teatrali. Nel momento della verità, poi, tutto sembra incepparsi, i processi decisionali si fanno arbitrari e caotici. In Austria tra la fine del 1916 e l' 11 novembre del 1918 si succedono ben cinque primi ministri e nelle ultime settimane ben tre ministri degli Esteri. In Russia negli anni della guerra si succederanno quattro primi ministri, cinque titolari del ministero degli Interni, tre agli Esteri, tre alla Difesa e saranno sostituiti ottantotto tra governatori e vicegovernatori. In Germania quando si tratta di scegliere il successore del cancelliere Bethmann, ci si perde tra i veti incrociati in un ginepraio di piccoli e grandi personaggi finché la scelta non cade sul più incolore: Georg Michaelis. Il Kaiser dà il suo benestare confessando di non conoscerlo affatto, lo ha visto una sola volta: «È piccolo, un nano», si limita a dire Guglielmo II dell' uomo che dovrà guidare la nazione tedesca nella fase più delicata della Prima guerra mondiale. In quello stesso momento - la fase finale della guerra - l' Austria è preda di una sorta di follia iperburocratica. I tribunali s' ingolfano in una ragnatela di procedimenti per microviolazioni reali o presunte, finendo per disquisire se, ad esempio, una certa Barbara Krzal possa legittimamente mettere in commercio il proprio pane a prezzi più alti della norma, avendolo prima tagliato a fette e imburrato. Agricoltori e dettaglianti finiranno in prigione per aver venduto carne d' oca a quattro corone invece delle prescritte tre e ottanta, per aver aggiunto acqua al latte, per averlo scremato o semplicemente per non aver dato il resto al cliente. In Germania vengono promulgati decine di migliaia di regolamenti. Nel 1917 saranno definiti per legge oltre ottocento succedanei del würstel e più di tremilacinquecento bevande non alcoliche. E la burocratizzazione produce inefficienza o peggio: sempre nel 1917 tonnellate di cibo requisito marciranno nella stazione metropolitana di Aleksanderplatz a due passi dal mercato principale di Berlino (vuoto), di fronte a cittadini inferociti e guardati a vista dai poliziotti. L' ostinazione burocratica produce una sorta di impazzimento. Nel 1989, al momento di un altro crollo, quello del comunismo raccontato in modo molto efficace da Robert Darnton nel Diario berlinese (Einaudi), diviene celebre il caso della giudice Dietz che a Berlino Est per settimane si ostina a stabilire l' ammontare di una multa per mancanza di biglietto a norma di leggi di uno Stato che non c' è più, la Repubblica democratica tedesca, facendo riferimento a una moneta che nel frattempo è cambiata. Sulla scia di alcuni importanti studiosi della politica (Theda Skocpol, Reinhard Bendix) Macry trova numerose conferme alla notazione che i regimi repressivi, quando avvertono di essere sull' orlo dell' abisso, concedono spazi fatali all' iniziativa delle forze antagonistiche nel momento in cui, rinunciando all' opzione della violenza, mostrano all' opinione pubblica di non essere più disposti a difendere il proprio potere. Quel che distingue il febbraio del 1917 da altre agitazioni avvenute in passato nelle città russe, come lo sciopero generale del luglio 1914, sta fondamentalmente nel comportamento dei soldati, nel precoce abbandono del campo da parte degli ufficiali, insomma nella qualità della risposta che ai disordini danno le istituzioni. In altre parole la fine del monopolio statale della forza crea le condizioni materiali e morali per l' emergere spontaneo di un' altra forza, quella (altrimenti inconcepibile) della piazza, scoperchiando tensioni sociali e individuali usualmente controllate. Nessuno sa più come districarsi nel mondo nuovo. A Pietrogrado, il giorno successivo all' abdicazione dello zar, nell' Istituto Imperatrice Caterina che cura l' educazione delle ragazze nobili, le allieve vengono radunate come ogni giorno per la preghiera del mattino. Preghiera che, però, non contiene più il tradizionale omaggio allo zar e alla sua famiglia. «Preghiamo per il Governo Provvisorio», recita la nuova formula, ma la ragazza incaricata di leggerla s' impappina, balbetta e alla fine scoppia in lacrime. Una folla agitata, per mettersi al passo con i tempi, divelle tutte le aquile a due teste, simbolo dell' impero di Nicola II: finiscono per farne le spese anche aquile estranee alla tradizione zarista come quelle che campeggiano sugli stemmi degli Stati Uniti d' America. All' indomani del febbraio, i soldati russi rinunciano alle decorazioni zariste e in molti le offrono al Soviet di Pietrogrado perché le fonda e usi l' argento ricavato per la causa rivoluzionaria. Chi ha un nome «imbarazzante» perché richiama il passato regime (Nemec, Nicola, Rasputin) fa domanda per cambiarlo. E naturalmente i Romanov. Un tale Ivan Romanov chiede all' apposita commissione istituita dalla Duma di diventare Ivan Repubblicano. C' è stata, osserva Macry, in buona parte degli studi sul Novecento una qualche resistenza ad analizzare gli eventi che determinarono la dissoluzione di Stati e imperi. Una sorta di reticenza. «Quasi che», per dirla con Michael Geyer, «uno spirito hegeliano della storia spingesse incessantemente gli avvenimenti in avanti, aiutando la storiografia (nel caso a cui è dedicato questo brano, quella tedesca) a passare oltre i mesi della sconfitta». Questo libro vuole essere ed è un contributo accurato e mai presuntuoso per chi è intenzionato ad abbattere il muro della reticenza.