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McDonald’s vs Mac Bun

di Giorgio Ballario - 19/10/2009

hamburgher_rivoli_macbun04_fondo-magazineArroganti. Arroganti e aggressivi. Arroganti, aggressivi e anche ottusi. Perché vanificano, con un gesto arrogante, aggressivo e ottuso, milioni di euro d’investimenti pubblicitari per farsi un’immagine positiva. Le minacce del colosso americano McDonald’s, re mondiale del fast-food, a una microscopica agri-hamburgeria di Rivoli, in provincia di Torino, avrebbero anche un risvolto comico se non ci fossero di mezzo avvocati e carte bollate.

La vicenda è abbastanza nota perché, dopo essere uscita sulle pagine locali de La Stampa, è stata ripresa da blog e siti internet di mezza Italia. Agli intraprendenti Gaetano Scaglia e Francesco Bianco, imprenditori e allevatori del Torinese, è venuto in mente di mettere in pratica quel che da tempo predicano tanti teorici del mangiar sano e dei principi ecologici applicati alla filiera agroalimentare: aprire un fast-food a “chilometri zero”. Cioè con prodotti certificati e di qualità provenienti dal territorio. Quindi polpette di carne proveniente dall’allevamento della stessa famiglia Scaglia, vino del Monferrato, birra artigianale della Val Susa, patate locali fritte in olio di semi prodotto nel Cuneese, pane di un piccolo forno della zona.

Per dare un tocco simpatico allo slow-fast-food, Scaglia e Bianco hanno deciso di chiamarlo “Mac Bun”, che se da un lato fa indubbiamente venire in mente il gruppo multinazionale del “mangiare veloce”, dall’altro rimanda esplicitamente alla lingua piemontese (mac bun=solo buono). Ancora una volta local contro global, insomma. Ma gli avvocati della McDonald’s a quanto pare non conoscono il piemontese. E non hanno nemmeno il gusto dell’ironia. Pochi giorni dopo aver depositato il marchio alla Camera di Commercio, i due imprenditori di Rivoli si sono visti arrivare una diffida dai legali del Re del panino.

Quel “Mac”, secondo loro, richiama un po’ troppo il nome dell’enorme catena di fast-food, che campeggia da New York a Buenos Aires, da Pechino a Johannesburg. Proibito quindi usarlo nell’insegna del piccolo locale di Rivoli, pena una causa milionaria nella quale è facile prevedere chi la spunterebbe. Arroganti, aggressivi e pure preventivi, come hanno imparato ad esserlo gli americani anche in questioni più importanti e tragiche di una polpetta. Ma sempre ottusi.

Perché i due piccoli imprenditori, sia pure un po’ spaventati, non si sono dati per vinti. Hanno affidato a un avvocato il compito di tutelarli in sede legale e hanno aperto ugualmente il locale, infischiandosene delle minacce del signor McDonald’s. Anche se a scanso di equivoci, per ora hanno esposto un’insegna autocensurata: M** Bun.

Insomma, un po’ la ripetizione in salsa padana della storia - vera - del piccolo fornaio di Altamura che anni fa sconfisse il McDonald’s che aveva aperto davanti a lui, battagliando con cheeseburger e Big Mac a suon di pizzette e focacce con le olive pugliesi. Una vicenda sfociata persino in un film con Michele Placido.

E’ un po’ presto per capire se anche Mac Bun sconfiggerà il Moloch d’oltreoceano, ma per ora ha già vinto la battaglia mediatica. Più o meno tutti - dalla Coldiretti a Carlin Petrini di Slow Food, dai politici locali agli chef stellati - si sono schierati dalla parte del fast-food local e ai soci di Mac Bun già arrivate un paio di proposte per l’apertura in franchising di altre agri-hamburgerie, oltre a un invito a partecipare al Forum internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione di Cernobbio. E sabato scorso fuori dal locale di Rivoli c’era la coda, con gente disposta ad aspettare anche un’ora pur di assaggiare i panini con polpette a “km zero”.

Il Re del Fast Food per il momento tace. Forse in cuor suo rimpiange di aver provato a schiacciare quel fastidioso microbo, che in definitiva non gli avrebbe arrecato nessun danno economico. E che invece gli sta provocando parecchi grattacapi sotto il profilo dell’immagine. E magari maledice quella città - Torino - che già un paio d’anni fa gli aveva fatto uno sgambetto mediatico.

McDonald’s aveva licenziato una cameriera colpevole di aver regalato una bibita e un cartoccio di patatine a un bambino che elemosinava sotto i portici. Prezzo alla cassa: 4 euro. “All’azienda non ho rubato nulla”, si era difesa la donna messa alla porta, “Faceva parte del pranzo che mi spettava”. Niente da fare. Licenziata in tronco per giusta causa. Anche in quel caso c’era stato qualcuno - un avvocato - che ci aveva messo un pizzico di coraggio. E una dose di sana follia per affrontare il colosso a mani nude. In primo grado il giudice aveva dato torto alla lavoratrice, ma poi la notizia uscì sulla prima pagina di un giornale. L’appello venne fissato in pochi mesi e la corte di secondo grado ribaltò la sentenza, costringendo Golia a riassumere Davide. Una bella lezione di vita. Ma i colossi dell’economia non imparano mai: restano arroganti, aggressivi e ottusi.

 

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