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Giordania, crisi dell'oro blu

di Eugenio Roscini Vitali - 20/10/2009

Le acque del Mar Morto si stanno ritirando sempre più rapidamente: alla media di 98 centimetri l'anno nel decennio che va dal 1998 al 2007, 138 nel 2008, 113 nei primi otto mesi del 2009. La notizia, pubblicata il 3 settembre scorso dal quotidiano israeliano Haaretz, rappresenta il termometro della crisi ambientale che stiamo attraversando, un deficit idrico che interessa tutto il pianeta e che nel 2020 arriverà a colpire la metà della popolazione mondiale. Tre miliardi di persone: uomini, donne e bambini che non avranno accesso a quel bene comune e a quel patrimonio dell'Umanità che è l’acqua. Un deficit globale che investe gran parte del mondo, che in Nord Africa è già emergenza e che in Medio Oriente è ormai una realtà quotidiana; risultato di una domanda che negli ultimi 50 anni è triplicata, di una politica dell’ambiente che ha influito in modo determinante sull’aumento della temperatura terrestre, sul prosciugamento dei fiumi, sulla scomparsa dei laghi, sull’evaporazione dei bacini e su una diversa distribuzione delle piogge.

In Medio Oriente il collegamento diretto tra scarsità idrica e carenza alimentare è diventato un fatto quasi ordinario. L’esaurimento delle acque sotterranee non risparmia nessuno: nella regione pakistana del Beluchistan settentrionale il livello dell’acqua sta diminuendo ad un ritmo tale che entro il 2020 la capitale Quetta potrebbe rimanere completamente a secco. Negli ultimi decenni lungo la pianura del Punjab la profondità dei pozzi è cresciuta ad una media di 2 metri all’anno e in Iran il prosciugamento delle falde costringe intere comunità contadine ad abbandonare le campagne; nell’Arabia settentrionale l’agricoltura è ormai sopraffatta dalla sabbia e negli ultimi quindici anni la raccolta del frumento è scesa del 35%, mentre nello Yemen occidentale l’oro blu viene cercato a profondità che sfiorano i due chilometri, misura normalmente utilizzata per l’estrazione del petrolio.

In Egitto il Nilo è passato dai 32 miliardi di cubi metri d’acqua, scaricati nel Mediterraneo negli anni sessanta, agli attuali 2 miliardi: un dato che spiega il crollo della produzione agricola e l’aumento vertiginoso dell’ importazioni di cereali. In Siria ed Iraq la riduzione del flusso d’acqua del Tigri e dell’Eufrate ha già causato la scomparsa dell’80% delle aree umide che un tempo rendevano florida la “mezzaluna fertile”, mentre il lago di Tiberiade e il Mar Morto, entrambe alimentati dal  fiume Giordano, si stanno lentamente ma inesorabilmente prosciugando.

In questa nuova guerra per la sopravvivenza la Giordania, uno dei 10 paesi più poveri al mondo in quanto a risorse idriche, rappresenta forse il caso più emblematico, il precursore di quello che da qui a pochi anni potrebbe accadere in tutta la regione mediorientale. Ad Amman la scarsità dell’oro blu si sta trasformando in un vero e proprio business, la leva che in questo momento muove l’economia giordana: la fornitura governativa è praticamente settimanale e ogni giorno, presso i distributori privati, si assiste al rifornimento di dozzine di autocisterne che, dopo quattro o cinque ore di fila, trasportano l’acqua in città per la vendita al dettaglio.

La Giordania deve far fronte ad un deficit idrico che supera i 500 milioni di metri cubi all’anno e il ministro per le acque, Raed Abu Saud, si dice preoccupato, soprattutto perchè nella parte orientale del Paese, desertico per il 92% del territorio, le risorse idriche non sono alimentate: “Non abbiamo acqua di superficie, ne riserve idriche o laghi; niente di niente. Secondo gli esperti che studiano i cambiamenti climatici il futuro non sembra promettente niente di buono; anzi, in realtà la situazione è inquietante”.

Negli ultimi anni il fiume Giordano ha perso gran parte della sua portata, soprattutto per effetto dello smodato sfruttamento delle acque e a causa delle dighe costruite lungo il suo corso da Siria, Israele e Giordania. Il primo a pagare la crisi del fiume, il cui destino va di pari passo con la crescita demografica e con l’aumento dei consumi agricoli e industriali dei tre paesi, è sicuramente il Mar Morto, il bacio naturale che molti ormai danno per spacciato. Ad aggravare la situazione c’è poi il clima politico che dal 1948 imperversa nel vicino Medio Oriente.

Siria ed Israele continuano a contendersi le alture del Golan mentre Amman accusa Gerusalemme di non rispettare le clausole dell’accordo di pace sottoscritto nel 1994 a Wadi Arava. Il trattato, nel quale si fa specifico riferimento al regime di gestione comune delle acque, prevede infatti lo sviluppo di  iniziative comuni affinché vengano trovati i mezzi e le risorse per fornire alla Giordania 50 milioni di metri cubi d'acqua potabile all'anno.

Le autorità del regno Hashemita di Giordania sono certe che a questo punto, oltre agli interventi locali finalizzati al recupero dell'efficienza idrica delle rete nazionale, l’unica strada percorribile è quella di ottenere l’acqua  attraverso due grandi progetti: la realizzazione di una conduttura lunga 320 chilometri dove dovrebbe essere incanalata l’acqua estratta dai bacini sotterranei di al-Disi, le falde fossili che la Giordania condivide con l’Arabia Saudita, e lo sfruttamento del Mar Rosso, 200 milioni di metri cubi di acqua marina destinati per metà alla desalinizzazione per uso civile e per il 50% al Mar Morto.

Per quanto riguarda la prima soluzione, un progetto da 950 milioni di dollari ormai vecchi di 15 anni, Riyad  ha espresso più volte le sue preoccupazioni, sia perché al-Disi potrebbe soddisfare solo un quarto delle esigenze giordane, sia perché scavare più di 60 pozzi e pompare 100 milioni di metri cubi  all’anno significherebbe condannare una falda non rinnovabile a qualche decennio di vita:  mezzo secolo per i più ottimisti.

Al contrario, il Two Seas Canal, il progetto che vuole  trasformate le acque del Mar Rosso in acqua potabile ed energia e per il quale lo scorso giugno Israele ha lanciato uno studio di fattibilità, potrebbe risolvere definitivamente il problema idrico giordano e ridare vita al Mar Morto: un’opera finanziata da Gerusalemme, Amman e dalla Banca Mondiale che prevede la costruzione di un impianto di desalinizzazione, da costruire nei pressi delle città costiere di Eilat o Aqaba, e 180 chilometri di tubazione che trasporterebbero 200 milioni di metri cubi d’acqua all’anno, condivisi per metà da Israele, Giordania e Cisgiordania, e per metà destinati a fermare la scomparsa del Mar Morto.

Un progetto in fin dei conti realizzabile, sul quale però pesano la crisi israelo-palestinese e le perplessità del governo ebraico. Basandosi sugli studi portati avanti dall’Università Ebraica di Gerusalemme il vice primo ministro israeliano, Silvan Shalom, ritiene infatti che mettere in cantiere il Two Seas Canal potrebbe essere ancora prematuro, almeno per quanto riguarda il collegamento tra i due mari; secondo l’ex presidente dell’Associazione israeliana dell’acqua (IWA), il professor Avner Adin, i dati a disposizione non permettono di conoscere le conseguenze del trasferimento di una quantità eccezionale di acqua marina nel Mar Morto, quantità che comunque impegnerebbe decenni per riportare il mare ai livelli del 1960 e che al contrario potrebbero avere effetti devastanti sui pesci e sui coralli del Mar Rosso.

Adin ritiene inoltre che per evitare il rapido deterioransi delle condutture e i danni dovuti a possibili terremoti (per arrivare fino ad Amman il canale sarebbe costruito proprio sopra la spaccatura afro-siriana che dalla frontiera meridionale della Turchia prosegue fino al fiume Zambezi) sarebbe opportuno innalzare i costi di realizzazione, usando materiali più resistenti all’acqua marina e ai danni strutturali. Problemi quindi, per una situazione di emergenza che non può più attendere, che entro qualche anno potrebbe trasformarsi in dramma, minare la stabilità sociale ed economica dell’intera Giordania. Ma che non si fermerà ai confini, perché come la religione e le ideologie, anche il bisogno d’acqua muove milioni di persone.