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Amy Sontag, altre note sulla psicoanalisi

di Emilio Michele Fairendelli - 22/10/2009

Amy Sontag

(New York, 1960 – Concord, 2004)

psicoterapeuta

amy-sontag

a Carlo Michelstaedter

Da questa veranda e dalla mia vecchiaia guardo i grappoli di fiori rossi sul parapetto, il giardino che le piccole farfalle di qui attraversano in volo come disegnando nell’aria, il cielo tenue, l’oceano quasi immobile al largo di Concord.

Anche nella natura vi è il tempo degli uragani e del caos, ma poi tutto sa tornare tranquillo, esalando la vita e il mistero in una quiete suprema, senza domande, dove il senso di ogni cosa è contenuto anche se inaccessibile.

Non è così per l’uomo.

Non cessa mai, una volta aperta nei cuori dai pugnali o dalla semplice sostanza dei giorni, la sua disperazione, e così il suo interrogarsi, il suo chiedere guardando in alto, verso la stella del nord, invocando segni che non giungono.

Mio marito faceva il mio stesso lavoro, l’analista. Non ci siamo mai separati, vive la sua vecchiaia lontano da me, in una casa di famiglia nel Vermont.

Non abbiamo avuto figli, ma quante volte ho pensato, io che non sono stata madre, di esserlo stato per loro, i miei pazienti.

Ricordo tutti, anche coloro che mi hanno lasciato dopo il primo incontro, dopo poco tempo; come figli non nati conservo per loro un amore, una dolcezza ancora più grandi.

Dove sarà ora quel giovane uomo che nei colloqui preliminari mi raccontava la sua vita con gesti delle mani di tale bellezza da valere per me più di ogni parola?

Avrà trovato la sua cifra, la sua algebra?

Cosa sarà stata la sua vita senza di me?

I miei pazienti.

Li accompagnavo nelle loro età: i primi incontri viso a viso, nel gioco degli occhi, come una madre  con il figlio neonato, i mesi del lungo racconto della loro vita, poi un un lavoro solitario, sul lettino, fissando avanti a sé.

Lì iniziava un cammino di dolore in cui io li assistevo e proteggevo  aprendo tuttavia ferite dove stavano schegge di vetro dalle forme orrende, stelle distorte che estraevo lacerando le vene ed i tessuti in cui erano immerse per illuminarle aldifuori del corpo, come prima giustizia.

Infine, quando tutto era sufficientemente illuminato – e ci volevano anni – l’inconscio lasciava emergere le sue immagini, i suoi simboli di liberazione, spesso in sogni straordinari, a volte nella realtà tramite incontri che diventavano punti di svolta: una persona, un libro, un paesaggio, un dipinto.

Allora iniziava una vita nuova.

Le ferite, chiuse, asciutte, non perdevano nulla della loro violenza, restava il loro sortilegio ma apparivano come dovevano, segni di una scrittura che componeva il vero nome di un uomo, l’unico che, pronunciato, potesse essere davvero suo.

Qualcosa accadeva: un padre veniva riaccolto in sé dal figlio, una morte abbracciata, la malattia compresa, l’esistenza, l’unica che ci è data, accettata senza rabbia.

Un uomo camminava  nei giorni, più libero, dopo il dissolvimento di ciò che opprimeva, turbava, si opponeva al proprio sé.

Domani sarebbero avvenute altre cadute, altri crolli, ma isole di luce serena si andavano scorgendo tra le nuvole e a chi era guarito stava, come adulti a cui le madri consegnino nelle mani la vita, confermare questo destino.

Così il mio lavoro terminava, gli uomini si riappropriavano almeno in parte del loro esistere.

Quanto all’angoscia ultima, essenziale, quella che ha a che fare con il vero Padre, Dio, chi avrebbe potuto affrontarla?

L’uomo usciva a notte alta nel campo,  per alzare il viso e gridare verso il cielo. Il Padre, innominabile, inconoscibile, del cui amore per noi nulla sappiamo, non rispondeva.

Là il nostro operare esauriva ogni possibilità, mostrava il suo limite.

Nulla poteva lenire quella disperazione.

Spesso un senso di straniamento dalla realtà, di non accettazione del mondo materiale, di puro stupore per l’esistere stesso – senza che il tema del male o della morte dovessero necessariamente emergere – di incapacità di accettare la pluralità del mondo e  le sue forme, la forza di gravità, lo stesso tempo cronologico, si accompagnava a stati di profonda stanchezza nervosa, di inquietudine.

In tutto questo si trovava sempre anche un’ansia, un eccesso di ricerca religiosa.

Molte volte l’origine stava in traumi subiti nell’infanzia, in conflitti, oramai non più recuperabili, non più pienamente interpretabili, con una delle figure genitoriali, quadri che il lavoro analitico faceva riemergere e poneva in luce.

Osservando tutto questo, stabilendo precise distanze, il rapporto della persona con il mondo materiale si poteva orientare diversamente, nell’accettazione.

Ma quando,  agito con efficacia su ogni nodo, un’angoscia puramente metafisica permaneva, consapevole, variabile nei colori ma non nella sostanza,  nutrita costantemente di riflessioni e di racconto da chi la impugnava ora come uno strumento, opponendosi alle indicazioni normalizzatrici del sistema analitico e mostrando con chiarezza di non essere solo il prodotto di uno squilibrio, il mio lavoro esauriva le sue possibilità.

Se il dialogo proseguiva era solo uscendo dal territorio dell’analisi, non  diventavo che la controparte  di  un confronto intellettuale.

A volte mi pareva di soccombere, di essere io a condividere, ad apprendere, a  conoscere punti sconosciuti da cui guardare il mondo.

Si intuiva che altro, ben altro,  avrebbe dovuto essere posto in luce, che questa angoscia essenziale, in un modo non enunciabile, come un’ equazione ancora da risolvere, stava dietro le altre, quelle che conoscevamo e potevamo trattare, conferendo loro potere e permanenza.

Mi appariva il futuro stesso della mia vocazione: divenire in qualche modo Maestri e solo così poter guidare l’uomo nel confronto con l’ultimo nemico della mente e dei cuori, il più potente.

Come saldare spirito e mondo, accettare questa frattura, ciò che è dietro le parole di Genesi, la catastrofe creatasi all’inizio del tempo quando qualcosa slittò verso la vita e poi verso la coscienza?

Raggiungere, forse, un luogo da cui vedere l’uno in ogni cosa, il cammino del mondo come un cammino scelto dall’anima prima e aldisospra di tutto.

Riuscire a vedere lo spirito come ciò in cui la materia può fiorire ed il lavoro delle ere, del mondo e degli uomini, come un lavoro  di restituzione, di resa in luce.

Come diranno tutto questo, i sogni?

Come potranno dichiarare che la materia non è che spirito in divenire ed ogni divisione illusoria?

Una notte  D. sognò l’immagine della donna che amava.

Un’ immagine molto bella, che nella realtà lui mi aveva mostrato: lei guardava alla sua sinistra, dolcemente verso tutto, dal lato del suo cuore ma nulla escludendo.

Il viso leggermente inclinato, gli occhi chiari, l’anello azzurro dell’iride colmo di nubi e di lampi intorno al pozzo della pupilla dove qualcosa che proveniva direttamente dall’Anima affiorava.

L’immagine riempie l’intero campo visivo del sogno ed è contemplata in silenzio.

Poi una voce calma e potente ripete: “Guarda il bianco degli occhi. Anche il bianco degli occhi. Così importante il bianco dei suoi occhi. Il bianco degli occhi”.