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Attenzione, nel 2010 ci sarà più crisi di adesso

di Mauro Bottarelli - 25/10/2009

  

Le accuse che mi vengono mosse più di frequente sono quelle di essere pessimista e cinico. In tempi come questo, le accetto di buon grado entrambe. Per questo, dopo aver messo in guardia ieri dal fatto che l’Abi - con la sua scelta di moratoria per un anno sui mutui casa per i soggetti più bisognosi - non sta facendo un atto per cui meritare un inchino ma soltanto il suo dovere, oggi vi metto una pulce nell’orecchio in più.

I mutui che potranno beneficiare della sospensione sono infatti circa 110mila per un controvalore totale di circa otto miliardi di euro: guarda caso la stessa cifra messa a disposizione delle banche dalla Cassa Depositi e Prestiti per riattivare il credito alle imprese. Solo una coincidenza numerica e temporale, ne siamo certi. Ma siamo altrettanto certi che se tra qualche settimana faremo un sondaggio tra le Pmi italiane la situazione riguardante il “credit crunch” non sarà cambiata. Anzi.

D’altronde, di «grave erosione del credito» parlava anche il “beige book” presentato mercoledì sera negli Stati Uniti, paese che vede le banche sempre più in crisi e i dati macro sempre meno sintonizzati sulla vulgata della ripresa ormai in atto. Ultimo al riguardo quello dell’aumento settimanale più consistente del previsto per le nuove richieste di sussidi di disoccupazione negli Usa, a riflesso di una perdurante situazione difficile per il mercato del lavoro.

Secondo i dati del dipartimento del Lavoro, nella passata settimana le nuove richieste sono cresciute di 11mila unità, a 531mila totali, laddove in media gli analisti si attendevano un incremento contenuto a 4mila unità. Migliora solo lievemente invece la media delle nuove richieste di sussidi per la media delle quattro settimane precedenti, a quota 532.250 contro 533mila della settimana precedente, si tratta del valor più contenuto da metà gennaio.

E a conferma di un trend negativo che l’amministrazione Obama non sembra in grado di gestire c’è anche l’annuncio sempre di ieri fatto da Moody’s, secondo cui o gli Usa si impegneranno seriamente a tagliare il deficit o entro tre anni rischieranno di perdere il rating AAA: d’altronde le cifre parlano chiaro, 1417 miliardi di dollari sono un buco di quelli difficili da riempire usando soltanto la vanga della politica economica ordinaria. Mentre quella emergenziale del creare moneta dal nulla non fa che espanderlo a dismisura.

Inoltre Lincoln Ellis, managing director del Linn Group, ieri ha gelato gli entusiasmi degli investitori dicendo a chiare lettere che il crollo del VIX, il segnalatore della volatilità dei mercati, verso quota 20 «è un pessimo segnale per i mercati, un segnale di compiacenza verso un tipo di rally che è completamente disallineato non solo con i fondamentali, ma anche con le reali condizioni in cui si opera».


Ma a spaventare maggiormente è giunta la lucida disamina di Nicu Harajchi, amministratore delegato di N1 Management, secondo cui «la recessione si trasformerà in breve tempo in una profondissima depressione». Questo perché «Wall Street sta facendo soldi, ma Main Street no e anzi fatica ogni giorno di più per tirare avanti. I trilioni di dollari stanziati dal G20 non sono praticamente arrivati all’economia reale, al sostegno dei consumi, all’aiuto alle famiglie e alle imprese che non siano banche o giganti dell’auto.

I consumatori stanno perdendo il lavoro, non riescono a pagare il mutuo, vanno in default sulla carta di credito e questa situazione sta perdurando e non sembra destinata a migliorare. I soldi stanziati dal G20 si sono trasformati unicamente in espansione monetaria ma prima o poi - e parliamo del 2010-2011 - quei soldi verranno richiesti indietro dalle banche centrali e allora ci troveremo di fronte a una contrazione monetaria: l’anno prossimo, paradossalmente, sarà quindi molto peggiore di quello in corso e il dato allarmante che ce lo fa capire è il continuo aumento della disoccupazione». Insomma, finché si guarderà con fiducia ai mercati e non si guarderanno gli indicatori reali si starà solo creando la condizione per una crisi peggiore e più profonda.

Ma gli Usa non sono gli unici. Ieri, infatti, si è registrato un andamento debole e deludente dei consumi anche in Gran Bretagna per quanto riguarda lo scorso settembre. Per il secondo mese consecutivo, infatti, le vendite del commercio al dettaglio non hanno mostrato variazioni rispetto ai trenta giorni precedenti, secondo i dati diffusi dall'ufficio di statistica Gb mentre su base annua le vendite risultano migliorate del 2,4%.

«Nonostante le rate dei mutui in calo, bollette meno care e un generale attenuarsi dell'inflazione che rafforzano il potere di acquisto di molte famiglie, i consumatori continuano a fronteggiare ostacoli che limitano le loro spese», osservava preoccupato Howard Archer, capo economista per Global Insight. E la debolezza dei consumi rischia a sua volta di indebolire la generale crescita economica britannica, già zavorrata ormai da mesi.

È questa la grande sfida che abbiamo davanti: trasportare le attenzioni fino a ora prestate ai mercati e al sistema bancario all’economia reale, tamponare l’emorragia di posti di lavoro, costringere le banche a riaprire realmente i cordoni del credito anche ponendo condizioni punitive in caso contrario, studiare una exit strategy dal quantitative easing che sta intossicando come una droga il sistema e, se proprio il populismo deve trionfare, mettere mano alla vera speculazione, quella già denunciata ieri: fare hedging, ovvero porsi in posizione difensiva sulle correzioni cicliche, comprando futures sul petrolio è follia allo stato puro.

Blocchiamo i paradisi over-the-counter prima che sia troppo tardi, visto che ieri dopo il picco notturno in Asia sopra gli ottanta dollari al barile, il prezzo del greggio è tornato a scendere in virtù delle prese di beneficio. Il petrolio serve alla produzione, non alla speculazione: trattare commodities strategiche come se fossero scommesse su un cross monetario nel forex non è accettabile in questo momento.

Al di là dell’etica, pensiamo al portafogli: grazie alla speculazione pure in una settimana il pieno in Italia costa 3 euro di più. E 3 euro, in questo periodo, non sono soldi facile ma monete con cui fare di conto. Ancora una volta giova ricordare che la realtà di Wall Street non è la realtà dell’uomo della strada o dell’impresa che gli permette di lavorare.