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I nomadi del mare

di Davide Gianetti - 25/10/2009

 

Strano destino quello di Jean Raspail, scrittore di razza come pochi, tradotto in decine di lingue ma pressoché sconosciuto al pubblico italiano né tantomeno apprezzato dalla nostra industria editoriale. Due piccole case editrici hanno cercato, in questi anni, di rendergli giustizia: le edizioni di Ar, pubblicando la distopia sociale Il Campo dei Santi, romanzo incandescente per i temi trattati e penalizzato oltre misura dalla contingenza storica nella quale venne alla luce, e la SugarCo edizioni, che nel 1987 diede alle stampe, nella splendida traduzione di Silvia Accardi, I nomadi del mare, autentico bestseller in Francia, rimasto a lungo nei primi posti nelle classifiche delle vendite e per il quale l’autore fu insignito del prestigioso riconoscimento letterario Chateaubriand.
I nomadi del mare può essere considerato un romanzo storico. Partendo da informazioni, studi e ricostruzioni effettuati sul campo dall’amico etnologo José Emperaire, a cui il libro è dedicato fin dal titolo, mutuato integralmente da un’omonima opera scientifica dello stesso Emperaire, edita da Gallimard nel 1955 e da allora mai più ristampata, Raspail narra l’epopea degli Alacaluf o Kaweskar (“Gli uomini”, nella loro lingua madre), arcipelago di tribù nomadi, di probabile origine mongola, che dopo un viaggio durato migliaia di anni, probabilmente dal Nord America alla Terra del Fuoco, escono dalle nebbie del paleolitico e incontrano la civiltà europea. Il 1520, anno in cui le golette di Magellano attraversano lo stretto, che verrà poi ribattezzato in onore del navigatore portoghese, incontrando le rudimentali imbarcazioni di questi uomini primitivi, segna l’inizio della fine per le fragili tribù Kaweskar. Dopo essere sfuggiti alle pressioni di popoli più numerosi e meglio organizzati che premevano da nord, i Kaweskar, in questo lembo estremo ai confini del mondo, troveranno declino e morte per mano del potente e civilizzato uomo europeo. Raspail, con il piglio del romanziere e la preparazione dell’antropologo-esploratore, partecipa al dramma – insieme individuale e cosmico, umano e divino – che il fatale incontro fra una cultura preistorica, paleolitica, e la trionfante civiltà occidentale scatenerà sugli indifesi Kaweskar, cancellando nel giro di pochi decenni un’esistenza millenaria. Eppure lo scrittore francese mai si riduce a ideologo o, peggio, a pedagogo, lambiccandosi sulle teorie del “buon selvaggio”, né tantomeno indulge in grottesche pulsioni masochiste in virtù della sua appartenenza alla stirpe europea. L’ammirazione per l’incontenibile energia, per la prometeica sete di conoscenza degli esploratori rinascimentali che, nel solco di Magellano, portarono con sé i germi della distruzione, nello specifico la croce e la tecnica, è in Raspail sincera e orgogliosa, rivendicata attraverso un’assunzione di responsabilità che non è esaltazione fanatica di un suprematismo culturale, ma sobria e pudica consapevolezza di un destino ineluttabile. In questo senso è possibile definire I nomadi del mare un romanzo misericordioso, dove la pietas per gli ingenui e indifesi (letteralmente) Kaweskar si accompagna alla tragica constatazione che una civiltà, quella europea, al suo culmine intellettuale e tecnologico, non può esimersi dal percorrere fino in fondo, schiena dritta e sguardo altero, la sua tragica e fatale parabola ascendente. La misericordia di Raspail non collima nemmeno con l’untuosa condiscendenza clericale, bigotta e paternalistica, propria del cattolico militante, né coincide con un oscuro senso di colpa generato da riflessi terzomondisti. Il cattolico Raspail scrive forse uno dei romanzi più “relativisti” che si possano concepire. Seminando dubbi e demolendo certezze ideologiche imperniate da una parte sull’acritica esaltazione di una civiltà in espansione e dall’altra sul pregiudizio progressista in base al quale le culture primitive, in quanto a-storiche, non sono degne di essere preservate, Raspail dona al lettore l’antidoto a ogni intolleranza, a ogni integralismo: l’immedesimazione nell’Altro da me. Assisteremo dunque alla tenace e commovente resistenza messa in atto dai Kaweskar, che rifiuteranno il Cristo portato loro in dote dai missionari bianchi, e al loro disperato tentativo di conservare la propria identità culturale rigettando sistematicamente ogni tentativo di civilizzazione forzata, perché intuitivamente avvertita come portatrice di estinzione. Lo stile graffiante e impressionistico di Raspail ci restituisce poi indimenticabili ritratti umani, dall’arrogante ma coraggioso Magellano all’insensibile e sprezzante Darwin (di passaggio per quelle terre a bordo della Beagle), dall’infinita stupidità dei primi missionari cristiani, protestanti e cattolici, febbrili nella loro smania evangelizzatrice ma forieri di sterminata infelicità per i nativi, alla compassionevole immedesimazione di uno studioso, Monsieur Lamay, autore anni prima di sprezzanti resoconti e ora tardivo redentore di un’umanità “diversa”, giudicata sporca e miserabile e quindi offesa e violentata dall’esibizionistica schiavitù zoologica a cui spietati impresari delle varie fiere cittadine d’Europa la costringono. E sarà proprio questo antropologo, Lamay, a liberare e a prendere sotto la propria ala protettiva una giovane donna Kaweskar, una delle ultime della sua tribù, ormai devastata da alcolismo, suicidi e sterilità, riscattando l’abiezione di cui è capace una civiltà che si pretende superiore, e stabilendo, grazie alla potenza dell’amore e sulla base della comune appartenenza umana, un contatto con l’Altro, con il diverso, che secoli di opposto sviluppo storico non potranno mai conculcare.