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Ritorno ad Haifa

di Michele Orsini - 27/10/2009

Fonte: cpeurasia

 

La recensione del film, tratto dall'omonimo romanzo di Kanafani, che mostra la tragedia di una tipica famiglia palestinese vittima della violenza sionista durante la "Nakba" del 1948.


La sera di lunedì 12 ottobre 2009 il Cinema Ariston di Trieste ha ospitato la proiezione, per la prima volta in Italia, dell'opera cinematografica "Ritorno ad Haifa" (regia di Kassem Hawal, Palestina/Libano,1981).

La visione, in lingua originale corredata da sottotitoli italiani, è stata resa possibile dall'ottimo lavoro compiuto dal Collettivo comunista Tazebao, organizzatore della serata.
Il film è tratto dall'omonimo romanzo di Ghassan Kanafani, nato nel 1936 ad Akka, città costiera della Palestina: scrittore, poeta, intellettuale e dirigente del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina (FPLP), assassinato dal Mossad nel 1972 a Beirut con una bomba piazzata sotto la macchina con cui stava accompagnando all'università la nipote Lamis.
Kanafani seppe descrivere la vita dei profughi e l'esilio come nessun altro scrittore palestinese. Molte delle sue storie brevi trattano del destino individuale del profugo schiacciato tra due tragiche realtà: l'occupazione e l'esilio.
"Ritorno ad Haifa" costituisce per lo spettatore occidentale, se non un documento in senso stretto (essendo, per quanto verosimile, frutto di finzione narrativa), perlomeno una testimonianza chiara e drammatica della Nakba (la "tragedia", la "catastrofe" del 1948). Non a caso nel mondo occidentale questa pellicola, datata 1981, non è mai arrivata attraverso canali ufficiali.
Sfruttando il punto di vista "corale" di una famiglia palestinese (due coniugi e la madre di lui), viene mostrato allo spettatore cosa è accaduto nei giorni dell'occupazione tra esecuzioni, espropri e deportazioni di massa. Simbolico a tal proposito il destino del figlio neonato dei due coniugi protagonisti, che moriranno circa a metà film lasciando il testimone alla nonna: affidato alla coppia ebreo-polacca che occupa la casa dei defunti genitori, viene privato delle sue origini, ritrovadosi affibbiato il persino il nome giudaico di Moshe in sostituzione del suo. Per essere ammesso nel nuovo mondo impostogli, non può avere legami con le proprie origini che, verosimilmente, non avrà modo di conoscere (anche se lo sviluppo della storia aprirà uno spiraglio in tal senso). La storia, per esigenze narrative, segue poi le vicissitudini della nonna che cercherà di riappropriarsi del nipote, unico familiare rimastole. Ma la rilevanza del film non sta in questo sviluppo tutto sommato spettacolare come quello che potrebbe avere qulasiasi altra pellicola, quanto nella parte centrale, quella in cui viene narrata l'occupazione.
La durezza delle scene, corroborata da una colonna sonora dai toni cupi ed angoscianti, rende bene l'idea di un'operazione militare che non lascia spazio ad alcun rispetto per la dignità umana. Impossibile non immedesimarsi nei protagonisti in fuga fra i vicoli di una città trasformata in un labirinto mortale. Fotografia e regia sono crude e realistiche, quasi documentaristiche nel loro realismo che non lascia spazio ad abbellimenti artistici di sorta. Pochissimi campi aperti, il cielo non si vede quasi mai. Protagonisti sono persone ridotte a corpi in fuga disordinata lungo vicoli contorti, come topi terrorizzati. Se è vero che si può parlare di un finale quasi lieto nella conclusione della storia è altrettanto vero che l'obiettivo del film non è raccontare una vittoria inventata nella cui narrazione troviamo ancora gli elementi sonori e visivi claustrofobici di cui si è poc'anzi parlato, ma una tragedia reale su cui si fonda il dramma a tutt'oggi irrisolto.
Non stupisce, insomma, che un simile documento sia stato oscurato dai circuiti cinematografici occidentali, circolando solo nei Paesi arabi.