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Crisi globale: il bluff della ripresa

di Luigi Tedeschi - 27/10/2009

A un anno di distanza dal fallimento della Lehman Brothers, la ripresa sembra alle porte: l’informazione mediatica diffonde infatti un ottimismo che non riesce tuttavia a celare le ombre incombenti sul prossimo futuro dell’economia mondiale. Secondo l’opinione corrente, il peggio sembra ormai passato ma la ripresa si prospetta lenta, difficile e gravida di insidie per timori diffusi di nuove speculative, prospettive di inflazione e disoccupazione in aumento.

E’ FORSE CAMBIATO QUALCOSA?
In realtà la crisi dell’autunno 2008, col fallimento di oltre 100 banche americane e il salvataggio e/o nazionalizzazione di numerosi gruppi finanziari e assicurativi in tutto l’Occidente, non sembra aver prodotto nell’economia e nella politica dei paesi più avanzati le necessarie riforme al fine di scongiurare nuove crisi e salvaguardare la collettività dalle manovre speculative della finanza globale. La crisi non sembra aver generato mutamenti sostanziali nel campo economico-finanziario. I segnali di fuoriuscita dalla crisi sono dovuti principalmente ai rialzi delle quotazioni di borsa, i cui indici sono tornati ai livelli precedenti al settembre 2008. La ripresa del comparto finanziario di borsa è diretta conseguenza degli utili trimestrali registrati dagli istituti finanziari, le cui quotazioni nel marzo 2009 avevano raggiunto il minimo storico. Tale apparente risanamento delle finanze delle banche è comunque dovuto ai piani di intervento degli stati, con erogazioni massicce di liquidità, garanzie pubbliche sulle transazioni, occultamento nei bilanci dei titoli “tossici”. Gli utili delle banche derivano dunque da investimenti effettuati con fondi acquisiti a costo zero dalle banche centrali. Negli USA si è registrato un aumento di liquidità circolante pari al 109%: il denaro fresco è stato investito in oro, titoli di Stato (a rendimento netto zero), azioni, obbligazioni, determinando quindi evidenti rialzi nei mercati finanziari. Stato e banche si trovano oggi in un rapporto di interconnessione reciproca inscindibile: lo stato ha bisogno delle banche quali intermediari nel collocamento dei titoli pubblici e le banche necessitano delle sovvenzioni che scongiurino il fallimento in tempi di crisi. L’implosione dei mercati del 2008 non ha comunque mutato, nei principi e nella prassi l’attività dei banchieri, anzi ne ha accresciuto l’arroganza e il potere di ricatto nei confronti dello stato: il sostegno pubblico è divenuto per essi, nei fatti, un diritto consolidato, dato che, in caso di assenza di aiuti finanziari, si verificherebbe il collasso dell’intero sistema. Il crollo dell’economia reale ha paradossalmente consolidato i privilegi della casta finanziaria nei confronti degli stati, che, solo nell’area euro, hanno erogato sussidi alle banche per importi pari al 31% del Pil. Le banche, invece, hanno continuato ad elargire “bonus” milionari ai loro managers, a fronte del malcontento dei popoli, che oltre a subire le conseguenze della crisi in termini di disoccupazione e di prelievo fiscale, hanno contribuito a rafforzare i privilegi della casta finanziaria. Una evidente manifestazione della accresciuta arroganza delle banche è dimostrata dal loro scarso interesse al collocamento nei mercati dei bond europei, nonostante le ripetute rimostranze di Tremonti. Le banche disattendono le direttive dei governi al fine di collocare i propri prodotti. L’unica regola universalmente accettata dalle banche è sempre la stessa: socializzare le perdite e privatizzare i profitti.

NUOVE REGOLE: QUALI E QUANDO?
All’indomani della crisi del 2008 si è avvertita da tutti l’esigenza di nuove regole che limitassero le speculazioni della finanza virtuale a danno del risparmio e della produzione. Si è preso atto di una crisi non congiunturale ma sistemica e quindi si è manifestata l’esigenza, non solo di regole che scongiurassero gli eccessi della finanza, ma che determinassero la nascita di un nuovo ordine economico che comportasse una profonda revisione dei rapporti tra gli stati e i mercati. Ma già le normative in vigore a livello internazionale si sono rivelate impotenti a disciplinare le dinamiche del mercato globale. Un valido esempio di tale stato di fatto è stato offerto dagli accordi internazionali di Basilea 2 per quanto concerne i requisiti patrimoniali delle banche nella erogazione dei prestiti: tali regole hanno condotto restrizioni generalizzate del credito nei confronti delle imprese (che ne stanno scontando i danni più rilevanti nella odierna crisi), ma non hanno impedito alle banche di innescare spirali speculative che hanno determinato l’attuale crisi finanziaria. Sembra allora impossibile imporre nuove regole, data l’impotenza delle istituzioni politiche dell’Occidente, dinanzi ad una finanza globale che è sempre pronta ad emanare diktat e veti nei confronti delle istituzioni politiche, magari camuffandoli da dogmi ideologici liberisti, per avere mano libera nelle proprie strategie speculative: produce, come sempre, economia virtuale e non certo sviluppo. L’unica misura adottata in occidente è il divieto, anche se non generalizzato, delle vendite allo scoperto, di quelle transazioni cioè che permettono all’investitore di lucrare sul ribasso dei titoli. Ma tale misura è una forma di autotutela dei grandi investitori, atta a salvaguardarli dagli effetti perniciosi della speculazione al ribasso.

L’AVVENIRE OSCURO DELL’ECONOMIA REALE
Le prospettive dell’economia reale restano tuttora oscure: l’ottimismo diffuso deriva dalla conclamata fine della recessione, nelle previsioni di crescita, seppur limitata nel corso del 2010, e dalla frenata dell’inflazione. Nella produzione si accentua però il malessere causato dalle restrizioni del credito. Queste ultime sono dettate dalle esigenze di risanamento del sistema bancario. Ma tale politica creditizia non può non generare che danni nei confronti della produzione e dell’occupazione. Questi sintomi di ripresa di crescita produttiva e dei consumi potrebbero tuttavia rivelarsi illusori. Il calo dei consumi registratosi dall’inizio del 2009 ha comportato recessione e incrementi delle scorte di prodotti invenduti. Oggi, esauritesi le scorte, sono ripartiti gli ordini nell’industria e quindi, si è verificata una limitata ripresa. Essa potrebbe però essere più apparente che reale, poiché, una volta esauritesi di nuovo le scorte, nei primi mesi del 2010 potrebbe aver luogo una nuova stagnazione produttiva, con decremento del potere d’acquisto e dei consumi della collettività. Una analoga analisi può essere svolta riguardo alla lievitazione dei valori di borsa. Il buon andamento della borsa indurrà la BCE ad alzare i tassi (misura peraltro già annunciata), la Fed ridurrà gli aiuti finanziari in termini di garanzia, interventi e sussidi a Wall Street e pertanto, si genereranno nuovi equilibri nel mercato che potrebbero condurre a nuove recessioni ed implosioni di nuove bolle speculative. E’ stata inoltre rilevata da economisti di grande prestigio, quali Joseph Stiglitz, la scarsa credibilità di indicatori economici, già considerati assoluti ed inviolabili, quali il Pil, la cui affidabilità si dimostra inadeguata nelle analisi della crisi presente e nelle conseguenti strategie di risanamento economico. Il Pil misura il valore della produttività di beni e servizi e la sua crescita viene spesso enfatizzata dai governi, senza che a tali incrementi faccia riscontro una adeguata percezione di miglioramento da parte dei cittadini, le cui esigenze sono rivolte spesso non tanto agli incrementi dei consumi, quanto a migliori condizioni di protezione sociale in tema di assistenza, sicurezza, previdenza. Negli anni precedenti, poiché si registrava una crescita economica in termini di Pil negli USA assai più marcata che in Europa, il Gotha degli economisti europei invocava l’avvento anche in Europa del capitalismo senza regole americano. Ma tale crescita si fondava su consumi drogati dall’indebitamento generalizzato della popolazione, fattore che ha condotto al collasso dell’economia statunitense, senza che i “vati” dell’economia europea recitassero alcun mea culpa. La realtà della crisi imporrebbe quindi una drastica archiviazione di indici inaffidabili nell’attuale contesto economico mondiale. Sarebbe questo uno dei primi passi da compiere, se veramente si vogliono emanare nuove regole per l’economia globalizzata.

IL BUCO NERO DELL’OCCUPAZIONE
Assai pessimistiche sono invece le previsioni in materia di occupazione. La prevista ripresa non produrrà occupazione, data la restrizione del credito, il calo degli investimenti e il diminuito potere d’acquisto dei consumatori. Secondo le stime OCSE, in Europa sono a rischio 25 milioni di posti di lavoro, il tasso medio di disoccupazione potrebbe salire al 10,2%. Nei paesi sviluppati dell’Occidente, i disoccupati nel 2010 potrebbero essere 57 milioni. Solo l’Italia potrebbe registrare nel 2010 circa un milione di disoccupati in più. La ripresa è dunque lunga e piena di insidie. Le cause di tale stato di cose sono facilmente diagnosticabili. Gli stati dell’Occidente, per scongiurare il collasso del sistema finanziario hanno vorticosamente aumentato il debito pubblico e pertanto, la ripresa produttiva verrà in larga parte assorbita dalla alta pressione fiscale e da possibili ondate inflattive. L’inflazione, peraltro, potrebbe rappresentare un rimedio perverso, che permetterebbe agli stati di annullare larga parte del buco nero finanziario creato da un debito pubblico insostenibile.
Ma soprattutto, l’economia sconta le distorsioni provocate dalla delocalizzazione industriale selvaggia verificatasi nell’ultimo decennio, che ha sottratto ai paesi sviluppati fondamentali risorse produttive e, nell’area UE, gli effetti devastanti della politica monetarista di bilancio portata avanti dalla BCE, con ingenti tagli alla spesa pubblica e restrizioni del credito. L’economia non può dunque crescere, qualora non vengano mutate le impostazioni sistemiche ispirate alla globalizzazione dei mercati degli ultimi decenni. Soprattutto è sotto accusa l’economia del debito, quella cultura d’impresa e del consumo cioè, perseguita dagli anni ’80 in poi, in cui gli investimenti delle imprese non vengono effettuati con capitale proprio ma con l’eccessivo ricorso al credito, cui fanno riscontro abnormi livelli di consumo, resi possibili dall’erogazione indiscriminata del credito al consumo. Questo capitalismo del debito, determinando l’implosione del debito e delle bolle speculative dell’autunno 2008, è giunto al capolinea. In realtà, la crescita artificiosa degli ultimi anni, frutto di una economia drogata dal debito, si è rivelata un espediente virtuale di sopravvivenza, che ha avuto la funzione solo di tenere in vita un sistema capitalista già in crisi negli anni ’70 per sua incapacità di produrre sviluppo.

LA SCOMPARSA DELLA POLITICA
La grande assente in questo scenario di crisi è la politica. Il malcontento dei popoli è dovuto ad un preciso atto d’accusa nei confronti delle classi dirigenti. All’indomani della crisi, le classi dirigenti hanno solo confermato il loro atto di fede nel liberismo e nell’economia globalizzata, nel loro deciso no ad ogni misura protezionistica. Nuove regole invocate da tutti per una nuova normativa sulla finanza internazionale non sono state emanate. I popoli intanto, ne stanno scontando però le conseguenze, in termini di pressione fiscale e disoccupazione. La sovranità dimezzata degli stati è dunque evidente. Le classi dirigenti politiche hanno dovuto sostenere il sistema finanziario già responsabile della crisi ma, pur avendo evitato la catastrofe, negli USA Obama non è finora riuscito ad imporre nuove regole a causa delle pressioni delle lobbies finanziarie e delle resistenze del Parlamento. L’impotenza della politica è evidente: basti pensare che Obama non è riuscito a varare la riforma della sanità pubblica grazie alle resistenze delle lobbies assicurative. Eppure egli ha impedito il crack del più grande gruppo assicurativo americano, l’Aig, con la sua nazionalizzazione.

VERSO NUOVE PROSPETTIVE?
Il calo della produzione e dei consumi, già ipertroficamente gonfiati dalla economia del debito, dovrebbe invece suggerire, dinanzi ad un capitalismo in declino perché non più in grado di generare sviluppo, soluzioni sistemiche ispirate alla decrescita. Ma tali soluzioni presuppongono il ripristino della sovranità degli stati e il conseguente primato della politica sull’economia. Circa le prospettive future della crisi e della ripresa ci sembra a tal proposito illuminante l’opinione di Ralf Dahrendorf espressa nella sua ultima intervista: “Alla fine tutti avremo ridotto gli standard di vita almeno il 20%. Torneremo circa ai livelli precedenti a quelli di Ronald Regan e Margaret Thatcher. Per alcuni aspetti, a un modo di vivere che somiglierà un po’ agli anni Cinquanta e Sessanta, con molta più tecnologia ma senza l’ottimismo di quei decenni”.
Le soluzioni della politica, oggi assente e/o compromessa con le lobbies finanziarie della Global Class, sono comunque evidenti, in quanto emergenti dall’analisi delle realtà sociali del nostro tempo. Gli stati, in quanto organi istituzionali sovrani, dovrebbero almeno controllare, se non devolvere a se stessi i sistema finanziario e i settori strategici dell’economia, disciplinare gli scambi in un contesto normativo di rapporti internazionali, adottare un sistema di cambi valutari concordato, togliendo al dollaro la prerogativa di valuta di riserva e soprattutto emettere direttamente la propria moneta, sottraendo alle banche centrali il potere di emissione e di controllo del credito. In questi ultimi anni si sta delineando una trasformazione sociologica di carattere epocale: nel prossimo futuro non saranno più i livelli di crescita e di consumo i parametri su cui potrà essere valutato il benessere dei popoli, ma le prestazioni dei servizi dello stato sociale, la sicurezza dell’occupazione, la tutela dell’ambiente, una più elevata qualità della vita, con maggiore partecipazione dei cittadini alle scelte politiche. La fuoriuscita da un sistema capitalista incapace di superare le crisi da esso stesso generate, sarà lunga e sofferta. Ma le crisi, pur nella gravità delle loro conseguenze, dischiudono storicamente sempre nuovi orizzonti. Occorre però far presto, perché i danni prodotti da un sistema capitalista in progressiva decadenza, potrebbero anche essere non più reversibili.