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Gustavo Adolfo Rol

di Emilio Michele Fairendelli - 29/10/2009

Nel sogno ero un bambino di pochi anni, con mia madre, nel grande atrio del Museo Egizio.
gustavo-rol-vita-immaginiQualcosa era caduto a terra e la mamma si era chinata per raccoglierlo.
Nel rialzarsi il suo sguardo aveva colto un punto lontano, sul lucido pavimento di marmo di quello spazio così grande, nel sogno, da parere convesso e lo fissava in una meraviglia al limite del timore.
Io mi ero avvicinato a lei, che continuava a guardare con una intensità che non le avevo mai visto sul viso e avevo preso la sua mano.
Sapevo, entrambi sapevamo che in quel punto stava una porta, la soglia oltre la quale si cadeva in un mondo sconosciuto, in una dimensione diversa.
Molte persone muovevano nell’atrio, in ogni direzione, lo calpestavano.
Lentamente lasciai cadere la mia mano da quella della mamma e camminai verso quel Centro, che mi chiamava.
Quando vi giunsi unii i piedi e fu come se una Luce entrasse nel mio corpo, da ogni lato.
I palmi delle mie piccole mani si erano aperti in avanti, le braccia ruotando un poco lungo i fianchi, e fiotti di luce dorata li colpivano.
Sapevo che non era la luce più alta ma come suoi filamenti dispersi, una corrente, una forza che mi riempiva.
Mi svegliai.
Da quel giorno – avevo venticinque anni – tutto cambiò.
Incominciai a vedere il seme ed il numero delle carte coperte, lessi ad Elna la lettera di amore che lei mi aveva scritto nel momento in cui me la consegnava in una busta chiusa e profumata di glicine, leggevo, in strada, sui tram, i nomi e il destino delle persone dalla loro aura, quell’alone luminoso che circondava il loro viso e il loro petto: tu, Giovanni, che saresti vissuto così tanto, tu Isabella e il destino di tua figlia, là quel bambino che non sarebbe diventato adulto, scorrevo le pagine del libro che quel giovane sulla panchina avrebbe scritto tra dieci anni.
Vedevo ciò che lega le cose e come esse non siano che uno per la coscienza più alta: il colore verde e la quinta nota musicale, l’argento e il suono di quella parola sacra.
Da tempo dipingevo acquarelli.
Nella notte la materia dei quadri viveva e mutava: un albero, a lato della via di campagna che due uomini percorrevano, era fiorito, un punto nel verde si era acceso di rose rosse, nel dipinto che avevo donato ad una amica le nuvole nel cielo erano ogni mattina diverse, a volte sottili strisce serene, a volte cumuli grigi e misteriosi.
La materia poteva non solo venire compresa e penetrata, ma anche trasformata.

Quando la signora Guasta, una sera di esperimenti nel salone di casa mia scelse quella carta e la lasciò coperta sul tavolo ne lessi il seme e il numero.
Le dissi di controllarla e di portarla al petto, perché ne avrei cambiato il colore; le raccomandai solo di non guardare nuovamente la carta sino al mio comando.
Lei obbedì, ma non del tutto.
Quando girò la carta, che da rossa era diventata nera, Eva era pallida come una morta.io-sono-la-grondaia
Mi confidò di avere sbirciato un poco, nella penombra, dopo il mio ordine. La superficie della carta le era apparsa come grondante, come se il rosso di cuori fosse materia liquida; aveva provato un senso di nausea e vertigine e per molto tempo non era più venuta a casa mia.
Lasciata la Banca dove lavoravo, vivendo dei beni di mio padre, la vita trascorreva quietamente: l’amore per Elna, i cari amici, le serate di martedì e venerdì, gli esperimenti.
Quanto tempo.
Ora guardo indietro, alla mia vita, e mi chiedo il senso di un dono così grande e bizzarro.
Perchè mi fu concesso?
Quale legge dominavo senza conoscerla?
Quella cosa miracolosa fu confinata nel mio soggiorno di legno scuro, in giochi sorridenti e come di bambini.
Non vissi diversamente.
Forse, penso in serate solitarie che hanno fine quando, ancora seduto, faccio rintoccare la piccola campanella di bronzo sul tavolo a lato della porta, forse io, Gustavo Adolfo Rol, sono stato necessario per preparare una via.
Forse verrà un altro, dopo di me, i poteri infine trasformeranno davvero, potranno essere restituiti, qualcosa accadrà.