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Il distretto della schiavitù nel cuore della Toscana

di Ernesto Ferrante - 02/11/2009

 

 

Quella che stiamo per raccontare è una storia di diffusa e strutturata illegalità ambientata non in un piccolo ed arretrato paesello del meridione ma a Prato, la seconda città della Toscana, la terza del centro Italia, sede sin dal XIII secolo del più importante distretto Industriale tessile dello stivale. Protagonisti di questa brutta storia sono degli imprenditori, anche se sarebbe più opportuno usare altri termini, provenienti dalla Cina, che sotto lo sguardo indifferente delle autorità locali e nazionali, hanno dato vita ad una città nella città nella quale vivono, ridotti in schiavitù, quasi cinquantamila cinesi che lavorano per pochi soldi e con orari massacranti nelle le fabbriche che sorgono in quest'area.


 

L'enclave cinese è un crogiolo di capannoni industriali, circa cinquemilaeseicento, all'interno dei quali lavorano, a ciclo continuo, migliaia di macchine destinate alla produzione di prodotti del "pronto moda". L'importanza strategica di questo laogai industriale è notevole, perchè fornisce abiti a committenti italiani ed europei, grandi marche comprese. La mole degli utili ricavati è enorme. Il distretto giallo è solo uno tanti esempi della capacità degli schiavisti-capitalisti con gli occhi a mandorla di sfruttare i meccanismi affamatori dell'economia globalizzata per impiantare le loro cellule produttive nel cuore dell'Italia e dell'Occidente industrializzato, riducendo drasticamente il costo dei trasporti ed entrando dalla porta principale nelle piazze più redditizie. Se a ciò aggiungiamo che in paesi come il nostro i controlli sono a dir poco carenti, si comprende bene come operazioni del genere divengano un gioco da ragazzi per questi sfruttatori di risorse umane. Il carcinoma che sta lacerando il tessuto industriale della cittadina toscana, a causa delle dimensioni raggiunte, è quasi impossibile da estirpare, anche perché per ispezionare i 5600 capannoni alla media di due-tre ispezioni alla settimana ci vorrebbero anni ed anni. Apporre i sigilli ai capannoni ispezionati con relativo sequestro delle macchine utensili, inoltre, serve davvero a poco, dal momento che le multe sono ridicole (dieci euro a macchina utensile e quattrocento per tutto il punto di produzione) e soprattutto perché i vasi comunicanti dell'organismo produttivo cinese consentono di spostare in poche ore l'attività da un posto all'altro. E leggi sulla sicurezza e le relative norme in materia d'immigrazione? Hanno l'efficacia di una pistola ad acqua ed un raggio d'azione ridottissimo, perché colpiscono unicamente i lavoratori cinesi di Prato, già sfruttati e ridotti in schiavitù, e non intaccano minimamente il giro d'affari della cupola capitalista ed affamatrice che spesso gode anche della copertura e della complicità degli imprenditori e dei politici di casa nostra, spesso suoi soci in affari. Rimanendo a Prato, per esempio, si scopre che una nota azienda di abbigliamento, la Sasch, di proprietà di Roberto Cenni, sindaco di Prato, produrrà interamente in Cina, anche se, secondo quanto riferito dalla stessa azienda, già da tempo in Italia veniva realizzato solo lo 0,7% della produzione, pari a circa 100mila abiti confezionati nel reparto di Modelleria e dai lavoratori della Mi.Mill. Adesso anche questa quota residuale di capi sarà prodotta in Cina. I vertici dell'azienda si sono giustificati spiegando che si tratta di “normale razionalizzazione del processo produttivo necessaria a tenere il passo con colossi come Zara e H&M”. Pur senza voler costruire teoremi, è evidente che laddove si incontrano degli interessi, sfruttando delle falle nel sistema, diventa difficile chiedere l'applicazione di regole rigide. L' immigrazione cinese in Italia non è come tutte le altre. E' una colonizzazione progressiva del commercio e dell' industria operata con grossi capitali in grado di fare investimenti ingenti e a lungo termine e con una liquidità tale da permettere ai produttori cinesi di sopportare senza troppa fatica anche tempi duri come quelli attuali. Invece di applicare le norme in materia di immigrazione clandestina, si dovrebbero revocare le licenze e le iscrizioni alle Camere di Commercio di tutte queste "ditte" fuorilegge e confiscare i capannoni, restituendo la libertà e la dignità agli operai schiavizzati.