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Una vita senza entusiasmo e senza passione è una vita inutile

di Francesco Lamendola - 04/11/2009


Questa mattina presto, mentre la foschia si alzava dai fianchi delle colline e la Luna impallidiva nel cielo, un fantastico spettacolo di colori autunnali si offriva allo sguardo rapito in estatica contemplazione.
Il verde ancora quasi estivo dei boschi faceva da sfondo al giallo, all’arancio, al rosso, al bruno degli alberi lungo la strada, e ciascuno di questi colori era rappresentato da cento e cento gradazioni diverse; ogni foglia con le sue minuscole venature parlava un linguaggio diverso, sfumato, allusivo, contribuendo alla maestosa e incomparabile bellezza dell’insieme, come le singole note di una complessa e affascinante melodia.
Nell’aria ferma e senza vento, le fronde dorate della betulla intrecciavano il loro aereo tesoro con i palchi verdeggianti del possente cedro; i rami già quasi spogli del tiglio, che hanno lasciato cadere la chioma in una sola notte, sfioravano sussurrando quelli ancora frondosi del platano; le elegantissime foglioline delle acacie avvolgevano in una danza incantata il tronco vigoroso della farnia e quello contorto dell’olivo.
Di tratto in tratto, nel silenzio dell’alba, si udiva il rumore nitido e secco di una foglia che si staccava dal ramo e cadeva a terra, frusciando, con un volo beve e leggero, posandosi sopra il già denso e sontuoso tappeto multicolore ai piedi degli alberi. E, sparse qua e là tra le foglie cadute, le ghiande di quercia, con i loro cappucci simili al berretto di qualche gnomo dei boschi, si mescolavano ai ricci aperti delle castagne, che lasciavano intravedere il bruno frutto prelibato, occhieggiante al loro interno.
Le montagne, ormai rischiarate dalla luce del sole nascente, offrivano un colpo d’occhio magnifico, circonfuse di gloria nell’aria pura e tersa del giorno appena nato.

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Avere occhi e orecchi per la bellezza, vuol dire avere un cuore appassionato, che sente in profondità e che non cessa di stupirsi, d’interrogarsi, di lodare e ringraziare la meraviglia dell’Essere, cui siamo chiamati a partecipare.
«Un cuore appassionato»? Questo concetto potrebbe sembrare in contrasto con ciò che abbiamo tante volte sostenuto a proposito della passione, e specialmente della passione amorosa (cfr., in particolare, l’articolo: «L’amore passionale, un’invenzione della modernità?», sempre consultabile sul sito di Arianna Editrice). Ma non è così: la passionalità deleteria, distruttiva, è quella legata all’ignoranza che ci porta a crederci isolati dal Tutto, che ci fa apparire appetibili dei beni impermanenti, e temibili delle minacce che sono, in realtà, altrettanto illusorie. La passionalità da evitarsi, in altri termini, è quella che nasce da una errata valutazione del reale, da una forma di attaccamento morboso alle cose: che si tratti di odio o amore, di paura o desiderio, questo è secondario.
La passionalità generosa e colma di gratitudine per il dono dell’essere; la passionalità di chi desidera mettersi in gioco e affermare valori, anche andando contro corrente e pagandone lo scotto; la passionalità di chi non gioca al risparmio con le emozioni e i sentimenti, ma risponde affermativamente alla chiamata, consegnandosi con fiducia al mistero dell’armonia cosmica: ebbene, questa non è una forma di illusione o di attaccamento inconsapevole alla natura effimera delle cose, bensì la manifestazione della nostra più profonda umanità, che non è fatta solo - con buona pace di tanti filosofi - del Logos strumentale e calcolante, ma della totalità della nostra anima, della nostra mente e del nostro cuore.
Un intellettuale decisamente scomodo, Beppe Niccolai, soleva dire che «il nemico è la palude»; e sono famose le parole con le quali il gran padre Dante stigmatizza l’accidia di coloro che non si sono mai appassionati nei confronti di nulla, né hanno mai rischiato di persona: «questi sciagurati, che mai non fur vivi».
Dire di un essere umano che non è mai stato vivo, equivale ad affermare che egli è simile a un morto vivente, a un cadavere che possiede solo l’apparenza della vita. È un giudizio molto forte, il più duro che si possa emettere nei confronti di una persona: e, tuttavia, è un giudizio sostanzialmente giusto. Chi non si è mai appassionato a nulla, non merita la qualifica di uomo, nel pieno significato del termine; in fondo, di lui si potrebbe dire che egli è vivo per caso, e senza rendersene conto.
Non si tratta, qui, di fare l’elogio degli «heroici furori», di cui parlava il filosofo Giordano Bruno, né l’apologia dello «Sturm und Drang» e di tutto il ciarpame di un certo Romanticismo esaltato, sospiroso e narcisista, bensì di riconoscere che l’ammirazione per lo splendore dell’esistente non deve trasformarsi in una sorta di sonnifero o di cauterizzazione della nostra parte più profonda, che sente con il cuore oltre che non il pensiero razionale; ma, al contrario, che essa si manifesta in un anelito verso la vita, verso la bellezza, verso la verità, la bontà e la giustizia, e, quindi, in una santa forma di inquietudine, preludio e condizione per il superamento del piano più superficiale dell’esistenza (cfr. specialmente il nostro articolo: «Elogio dell’inquietudine», anch’esso consultabile sito di Arianna Editrice).
Vi sono, insomma, due forme di inquietudine. L'una nasce dall'illusione, dall'attaccamento, dalla dipendenza nei confronti degli enti; l'altra, al contrario, da una piena consapevolezza del carattere irriducibile del nostro essere più profondo alla misura del Logos razionale, e, quindi, della vaga ma radicata aspirazione ad una vita più piena, dalla nostalgia per una dimora più consona alle esigenze essenziali della nostra autentica natura.
Una tradizione compassata e alquanto retorica della storia del pensiero vorrebbe che il saggio sia una persona impassibile, che non si altera mai, che non si fa coinvolgere, che mantiene sempre una padronanza assoluta delle proprie reazioni emotive.
Si cita Kant, il quale usciva a passeggio con una tale regolarità, e percorreva sempre l'identico itinerario, al punto che gli abitanti di Königsberg solevano regolare gli orologi di casa quando lo scorgevano dalle finestre.
Si cita anche Plutarco il quale, fatto mettere alla ruota uno schiavo reo di qualche mancanza, davanti alle suppliche di costui di non andare in collera, gli rispondeva: «Che cosa ti fa pensare che io sia in collera?»; e, poi, rivolto al carnefice munito della verga: «Prosegui il tuo lavoro, tu, mentre io e costui seguitiamo a discorrere».
Ebbene, diciamolo: un tale personaggio, se pure esistesse, non sarebbe affatto un saggio, ma un deficiente cronico o un'anima arida.
Gli ammiratori di Kant si dimenticano sempre di dire che il loro impassibile maestro seppe consigliare così bene una ragazza, che si era rivolta a lui per consiglio su una questione di carattere intimo, che quella finì per suicidarsi, gettandosi nel fiume.
Chiunque legga la risposta del filosofo a quella poveretta, intrisa di astratto moralismo e di pietistico paternalismo, può rendersi conto che egli non possedeva affatto quella ricchezza d'animo e quella conoscenza del cuore umano che consentono di comprendere un'anima smarrita e di darle qualche buon consiglio.
Quanto a Plutarco, l'aneddoto - se pure è vero - si commenta da sé: perché è sin troppo facile discorrere con sublime distacco, quando ci si trova dalla parte giusta di uno strumento di tortura, mentre il nostro interlocutore ha la sventura di essere dalla parte sbagliata.
Forse, i giudici spietati della Santa Inquisizione, abituati a interrogare le loro vittime senza udirne i disperati lamenti, avevano preso a modello il «nobile» stoicismo di Plutarco.

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Le nubi si sono abbassate e tutto il cielo si è chiuso.
Soltanto poche ore prima si poteva abbracciare con un solo colpo d'occhio l'intera vallata, il campanile del paese, le colline boscose e le montagne azzurre; adesso l'orizzonte si è ristretto e una pioggerella fine, insistente, monotona, cade con tristezza, come se non avesse mai fatto altro, come se fosse novembre da sempre.
Questa veste lucente, che indossano gli alberi dopo tanti giorni di sole e di bel tempo; questo strato di foglie morte che cresce di spessore, soffice come un tappeto, mano a mano che i rami si spogliano e assumono il loro scabro aspetto invernale, sono anch'essi manifestazioni di bellezza e di poesia, sono anch'essi un volto dell'essere.
Che l'anima si appassioni alle meraviglie del mondo; che provi stupore e gratitudine per l'infinita ricchezza e varietà degli enti; che si senta attratta dai colori, dai profumi, dai sapori, dalle armonie; che abbia fame e sete di amore, di gioia e di vita; che si ritragga con un moto di naturale sgomento di fronte alla vecchiaia, alla malattia e alla morte: tutto questo rientra nell'ordine delle cose; e, se così non fosse, vorrebbe dire che non abbiamo bisogno di un'anima, ma che un midollo spinale sarebbe più che sufficiente per espletare le funzioni vegetative.
L'entusiasmo e la passione, quest'ultima nel senso di profonda umanità, e non di gioco con la droga delle emozioni, sono elementi essenziali della nostra natura, e non dobbiamo né vergognarcene, né, tanto meno, sforzarci di reprimerli, come se non avessero in noi pieno diritto di cittadinanza. Possedere un cuore di carne, che sente, e non un cuore di ferro, è - come dice il profeta Ezechiele - un dono e un privilegio, una grazia che dobbiamo imparare a chiedere.
Anzi, semmai dovremmo rammaricarci di non avere un cuore abbastanza sensibile, un'anima sufficientemente grande per accogliere tutta la gamma delle emozioni e dei sentimenti, perfino dei turbamenti, che la vita è suscettibile di destare in noi. Tutti presi dalla preoccupazione di proteggerci, di tutelarci, finiamo per confondere la saggezza con l'apatia, e la serenità di spirito con l'ignavia di chi non è mai stato realmente vivo.
Mentre svolgo queste riflessioni, l'oscurità è scesa di soppiatto e ha invaso il mondo, scacciando silenziosamente gli ultimi riflessi di luce.
Il globo di vetro in cima al lampione diffonde sul viale, al di sotto delle sagome scure e ormai quasi indistinguibili dei platani, un incerto alone di luce rossastra, mentre le gocce di pioggia gli si materializzano intorno, pochi centimetri al di sopra, per precipitare nel vuoto, pochi centimetri più in basso.
Per un fenomeno di illusione ottica, si direbbe che la rete sottile dell'acqua piovana compaia e scompaia solo intorno alla sfera arancione del lampione, come per magia, materializzandosi dal nulla e subito facendosi inghiottire dal nulla.
L'essere umano non ancora risvegliato somiglia un po' a quel lampione.
Vede le cose solamente quando gli arrivano addosso (sempre che le veda), ma non le riconosce; e le perde di vista non appena si allontanano dal suo campo percettivo.
Inoltre, vede le cose come attraverso una nebbia, come da dietro una fioca luminescenza, che ne fa sparire i veri colori e ne snatura il reale aspetto, offrendo un'immagine deformata della realtà.
Abbiamo bisogno di risvegliarci, dunque, per entrare effettivamente in contatto con le cose, con il mondo e con noi stessi; per liberarci dalla nebbia che ci avvolge e per liberarci dalla falsa prospettiva che distorce alla nostra vista lo spettacolo della realtà.
La realtà, è l'Essere.
Per arrivare almeno ad intuirne tutta la straordinaria ricchezza, dovremmo risvegliarci dal pesante sonno di morte che ci tiene sigillata la vista interiore, ed accettare la nostra piccolezza e fragilità, ma anche l'immensa nostalgia di assoluto che ci pervade, come il soffio del mare.
Dovremmo riscoprire la passione e l'entusiasmo: le sole vie d'accesso al mistero e allo splendore dell'Essere.
Perché una vita senza entusiasmo e senza passione, è una vita inutile.