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Il Verbo appeso, divagazioni pseudognostiche sul crocifisso

di Claudio Ughetto - 09/11/2009

 
 
 

Sebbene spinoziano, non sono mai riuscito a capire perché scegliere l’ateismo dovrebbe rendere più felici che rimanere religiosi. Le argomentazioni degli ateisti, di fronte al caos e al molteplice, alla bellezza dell’esistenza e alle possibilità del “relativismo”, tant’inviso dai cattolici come da alcuni atei[1], mi appaiono spesso riduttive, quasi la coda di quelle ideologie novecentesche che da destra e sinistra hanno preteso di migliorare il mondo imponendo un unico credo. È stato così anche per il cristianesimo quando ha scelto la mondanità per introdursi nelle coscienze a scapito della libertà di accogliere Cristo individualmente. Gli atei odierni non ricorrono alla violenza per inculcare la loro ricetta di felicità, e non m’infastidirebbero affatto se si limitassero a rivendicare il loro diritto d’essere atei. In una società laica e relativista, ognuno sia libero d’inventarsi una scusa per sopportare l’incomprensibile. È invece l’ennesima variante dell’ateismo come ricetta definitiva al male di vivere, in previsione dell’uomo nuovo e liberato, a lasciarmi perplesso.
Sulla questione del crocifisso, che la Corte Europea di Strasburgo invita autorevolmente a togliere dai luoghi pubblici, stento a comprendere entrambi i fronti in combutta. Parlo d’entrambi i fronti, anche se in realtà si sono pronunciati in parecchi (compresi atei devoti, politici opportunisti e filosofi confusi ma ostentanti certezze), poiché a spiccare nello sterile dibattito sono stati proprio gli atei e gli esponenti della Curia. Sentendoli ho avuto l’impressione che il maggior escluso dalle loro argomentazioni fosse proprio Dio, colui che ufficialmente vogliono esaltare o negare. Il che non stupisce, se pensiamo che Dio è stato dichiarato morto da Nietzsche più di un secolo fa. Sentire i vescovi costretti a difendere l’Onnipotente con gli argomenti dei loro avversari, i diritti umani e l’offesa alla sensibilità personale, fa impressione. Come il richiamarsi alla cultura nazionale o europea, quasi che il cattolicesimo non sia ritenuto universale di per sé, anche perché imposto mondialmente nei secoli, e con metodi non sempre democratici. Specularmente si sono visti gli atei universalizzare la loro avversione personale verso il “cadavere appeso”  richiamandosi (forse più coerentemente) alla laicità dello stato e ad un pluralismo religioso di cui tuttavia non sembrano capire un granché. Mi è tornata in mente una bella discussione tra Pier Vittorio Tondelli e Carlo Coccioli, nella quale l’autore di Davide ad un certo punto sbottava dicendo: “La vera distinzione, la discriminante, è quella che separa gli uomini religiosi da quelli che non lo sono. Fra noi, possiamo pure scomunicarci, sbranarci, dichiarare guerre sante, ma siamo sempre all’interno della religiosità e ci possiamo capire”[2]. L’attuale dibattito, invece, non esce dai canoni mondani, da una parte come dall’altra. Dio diventa un feticcio tra i feticci della cultura predominante: se togliamo il crocifisso chi si offenderà di più, i cattolici o i nazionalisti, gli europeisti o coloro che vi vedono il simbolo dell’umana sofferenza? Dando naturalmente per scontato che Gesù in croce è da considerarsi il simbolo del cristianesimo tutto, e che semmai ad offendersi (oltre agli atei e i laicisti) debbano essere i mussulmani, gli ebrei, i buddisti e tutti coloro che non considerano il salvatore fondamentale per la salvezza individuale.  
È davvero così? Davvero l’immagine di Gesù in croce, già rivendicata come positivamente “scandalosa” da Paolo, è da ritenersi essenza stessa del cristianesimo? In realtà i cattolici dovrebbero parlare per sé, e i vescovi dovrebbero avere l’onestà di non nascondere ai loro fedeli (troppo universalizzati) le contraddittorie origini della loro fede e le diatribe interne che l’hanno caratterizzata fino al rinascimento. Sul crocifisso si è versato sangue a fiumi, e non solo per imporlo agli ignari del verbo cristiano. I Buoni uomini, ad esempio, che nel medioevo erano cristiani a modo loro, rifiutavano l’adorazione della croce perché la ritenevano uno strumento di tortura e un inganno satanico[3], e perché erano convinti che per conoscere il “vero Dio” la parola di Cristo fosse più importante del modo in cui è morto. Non fecero una bella fine: furono sterminati dai vescovi in nome di Cristo, e di loro non ci rimane granché. Tuttora i Testimoni di Geova, anch’essi cristiani a modo loro (sebbene si ritengano, un po’ pretestuosamente, gli unici veri cristiani) sostengono non solo che la croce è un simbolo malefico, ma addirittura che Gesù fu torturato su un semplice palo senz’assi trasversali[4].
Chi ha ragione: i detentori della Dottrina che difendono la croce con sopra un Cristo morto, convinti che basti farne un’appartenenza culturale dimenticandosi del trascendente, o i settari che ai limiti del fanatismo sono convinti che il Verbo non si possa inchiodare? Carlo Coccioli avrebbe le idee chiare: diatribe tra uomini religiosi, con la differenza però che in questo caso la Chiesa si trova in difesa. Per dirla con Cioran, l’aggressività è un aspetto comune agli uomini e agli déi nuovi[5]. Non importa se gli aggressori odierni non hanno alcun dio da opporre.
Se gli atei m’infastidiscono, d’altra parte i vescovi non mi entusiasmano. Sono cresciuto negli ideali illuministi, non importa se li metto spesso in discussione: se qualcuno decidesse di togliere i crocifissi dalle scuole cattoliche, credo che sarei il primo a difendere il diritto d’esporlo in quei luoghi. Per il resto, in uno stato laico e pluralista, c’è posto per tutti. Sarebbe forse meglio continuare a garantire alle ormai molteplici comunità italiane, non solo religiose, spazi e luoghi per crescere nella loro cultura e nella cura dell’Anima. Più di altre, le persone religiose dovrebbero ringraziare l’opportunità che il tanto vituperato relativismo offre loro: convivere nel reciproco rispetto all’interno d’alcune semplici regole di cittadinanza. È davvero colpa della nostra epoca, o di chissà chi, se Halloween vince sulle tradizioni cristiane? O semplicemente sono gli uomini religiosi ad essersi dimenticati del Trascendente, appiattendosi su un tradizionalismo di routine, ammiccante alla cultura del consumo e del denaro, che non convince più nessuno? È  colpa di Halloween se Cristo è morto e se ne sta appeso in croce nelle scuole, invece di scendere in aula a incantare i ragazzi con parole che lette sul Vangelo riescono ancora a scuoterci singolarmente? Oppure le nostre zucche si sono davvero svuotate al punto che Dio non siamo più neppure più in grado d’immaginarcelo?

NOTE
[1] Sulla comune avversione degli atei e dei cattolici verso il “relativismo” rimando alla mia recensione del Trattato di ateologia di Michael Onfray, su Diorama Letterario n. 276 – Marzo –Aprile 2006 (anche su opifice .it).
[2] Pier Vittorio Tondelli, Un week-end postmoderno, ora Opere, Bompiani 2001.
[3]  Per Buoni uomini intendo come i Catari chiamavano se stessi. Catari era usato dai loro persecutori in senso spregiativo, continuare a chiamarli così è come chiamare Eskimese un Inuit. Per essi Gesù è morto in croce solo per finta, senza veramente soffrire la Passione, poiché il suo compito è quello di riavvicinare gli uomini al Padre Celeste che nulla ha a che vedere con il creatore di questo mondo. Satana, quindi, sarebbe da intendersi come il demiurgo stesso, creatore della materia che c’imprigiona. Conseguentemente, Satana è associabile al Dio dell’Antico Testamento. Non è un caso che questa dottrina abbia affascinato anche Simone Weil.
[4]  Nell’appendice di Traduzione del Nuovo mondo delle Sacre Scritture (versione della Bibbia dei Testimoni di Geova), alla voce Palo di tortura leggiamo: “Non c’è nessuna prova che (…) la parola greca “stauròs” significasse una croce come quella che i pagani usavano come simbolo religioso già molti secoli avanti Cristo. Nel greco classico la parola “stauròs” significava semplicemente un palo verticale, come quelli usati per le fondamenta. Il verbo stauròo significava recintare con pali, o fare una palizzata”. Naturalmente riporto questa nota a mo’ d’esempio, senz’alcuna pretesa di sostenerne la tesi.                                                                                                            
[5]  E. M. Cioran, Il funesto demiurgo, Adelphi 1986.