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Adriano Olivetti. Architetture sociali

di Giorgio Ballario - 16/11/2009

olivetti1_fondo magazine«Una moderna fabbrica, centro di una grande organizzazione industriale, non è soltanto un luogo di lavoro, una sede di produzione, ma si esprime anche quale ambiente sociale, cioè ambiente di convivenza e di relazione. (…) Il sistema di tali servizi tende a dare ad ogni sua attività non il significato immediato di un beneficio o di un adeguamento del lavoratore alla fabbrica e al suo posto, bensì quello più completo di una integrazione capace di restituire all’uomo la sua responsabilità di scelta e di giudizio. […] Tutte le prestazioni dei servizi sociali hanno un carattere di diritto e vengono effettuate dai diversi istituti nel rispetto di quelle norme formulate con l’approvazione dei lavoratori: il diritto ai servizi sociali costituisce ormai un’effettiva caratterizzazione del contratto di lavoro. I diversi istituti e servizi investono tutti i problemi sociali, di gruppo e individuali di maggiore interesse, da quello della maternità a quello dell’assistenza sociale, da quello dei trasporti a quello degli alloggi e delle mense».

Non siamo nell’Italia del Ventennio, nell’Argentina peronista, nella Svezia del Welfare e neppure nell’odierno Venezuela di Hugo Chàvez. Anche se il linguaggio e i concetti espressi sembrano lontani anni luce, siamo nella Ivrea di Adriano Olivetti degli anni Sessanta e il brano è estratto da un documento della Direzione dei Servizi Sociali, Pubblicità e Stampa della Olivetti, datato gennaio 1963. E fra i servizi sociali che l’azienda metalmeccanica (e poi informatica) piemontese offriva ai propri dipendenti, avevano un ruolo molto importante le attività per l’infanzia, dagli asili e scuole fino alle colonie estive per i figli degli addetti.

E’ proprio a questo “ramo” aziendale che il museo civico “Pier Alessandro Giarda” di Ivrea dedica la mostra “Architetture Olivetti per l’infanzia”, aperta nei giorni scorsi e in programma fino al 22 novembre. Volti sorridenti, giochi all’aperto e file di bambini che si tengono per mano sullo sfondo dell’architettura razionale di edifici modernissimi immersi nel verde, in alta montagna o in una pineta mediterranea. Fotografie che danno un’immagine di serenità, di efficienza, di civiltà. Parole che possono apparire forti nel descrivere un soggetto tutto sommato ordinario, almeno nell’Italia degli Anni Cinquanta e Sessanta. Ma se il confronto è con l’attualità…

olivetti2_fondo magazineLa rassegna, curata da Pier Paride Vidari, descrive la vita nelle colonie estive che la famosa azienda di macchine per scrivere costruì per i figli dei dipendenti a partire dal secondo Dopoguerra, non solo in Piemonte: fra gli esempi più brillanti di “architettura per l’infanzia” figurano le residenze estive di Brusson, in Val d’Aosta; di Marina di Massa e Donoratico, in Toscana.

Ma la rassegna offre molto di più di una carrellata iconografica delle vacanze felici e spensierate di migliaia di bambini. Fa capire meglio il progetto di “azienda-madre” vagheggiato da Adriano Olivetti, che prevedeva anche l’offerta di asili e scuole, spesso inserite nell’area degli stabilimenti industriali o degli uffici. Nella mostra si va al di là del semplice valore urbanistico e architettonico delle opere: si tenta di mettere a fuoco gli elementi distintivi e comuni del modello olivettiano. Il filo rosso che ha sempre contraddistinto il progetto dell’industriale-umanista: l’inserimento in un’idea di città; il rapporto di vicinanza con gli spazi del lavoro o dell’abitazione; la relazione stretta con la natura, intesa come un ideale panorama didattico; gli spazi liberi per favorire metodi d’insegnamento avanzati; la formazione e crescita sociale dei piccoli attraverso un ambiente appositamente organizzato per loro.

L’immagine a 360 gradi di quella che fu una delle più importanti aziende italiane negli anni del boom economico assume quindi un aspetto nuovo, soprattutto per chi non l’ha potuta conoscere per ragioni anagrafiche oppure geografiche. Dalle foto, dai progetti, dagli arredi esposti alla mostra di Ivrea emerge infatti prima di tutto un modello culturale, nel quale l’attenzione all’infanzia non si limita agli aspetti educativi, ma alla realizzazione di un contesto di benessere per tutti i più piccoli, che rappresentava (e a maggior ragione dovrebbe rappresentare anche oggi) un investimento per il futuro di tutta la società.

olivetti3_fondo magazineE’ vero: l’Italia è cambiata, oggi gli enti pubblici svolgono sempre più un ruolo di assistenza, cura ed educazione dell’infanzia e alle aziende non è più richiesto di svolgere un ruolo di supplenza. Però è sufficiente sbirciare le fotografie e dare un’occhiata ai documenti aziendali dell’epoca, come quello già citato della Direzione dei Servizi Sociali, Pubblicità e Stampa della Olivetti, per capire che a quel tempo esisteva davvero un’altra idea di sviluppo, di società e di economia. Diciamo pure di civiltà.

Probabilmente decine di migliaia di giovani italiani, che oggi sono precarizzati, sottopagati, call-centerizzati e sfruttati, sgranerebbero gli occhi se guardassero queste fotografie e leggessero questi documenti aziendali. E se venissero a sapere che in Italia, non troppo tempo fa, esisteva un simile concetto di capitalismo, di azienda industriale e di lavoro dipendente. Un modello filosofico, prima ancora che sociale, non a caso concepito, nato e sviluppato un paio di decenni prima, ai tempi del cosiddetto “Male assoluto”. E chissà che faccia farebbero gli “schiavi” del Duemila se qualcuno li informasse che all’imprenditore-umanista stile Olivetti si è ormai sostituito l’imprenditore-finanziere stile Carlo Debenedetti, l’editore illuminato e progressista, tessera numero 1 del Pd. Lo stesso personaggio che quell’azienda-modello ha spinto verso il baratro e la definitiva chiusura.

 

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