È il tempo della «sindrome delle foglie morte». «Non sopporto tutto ciò che in questo periodo finisce: le foglie che cadono, il sole che se ne va presto, il culto dei morti», racconta al terapeuta chi ne soffre. «Ogni fine mi fa paura».
Eppure, lo spegnersi delle cose in autunno, dalle foglie che cadono alla fine di molti amori nati nel pieno dell’estate, è anche un’opportunità. Senza il declino nell’autunno-inverno non sarebbe possibile lo sviluppo della primavera e dell’estate.
La psiche umana però vorrebbe a volte una crescita ininterrotta, un sole che non tramonta mai, e allora si ribella. Depressione, e crisi di panico, sono forme tipiche di questa ribellione.

Del resto, essa non è neppure un’esclusiva della modernità in cui viviamo: anche i Maya (ad esempio) temevano che il sole si spegnesse, e moltiplicavano riti sacrificali, perché ciò non accadesse. Anche quella dei Maya, come la nostra (dicono molti dei suoi studiosi), era una società iperattiva, che temeva i cambiamenti indotti dai tempi morti e dal successivo rinnovamento. E per evitarlo non esitava a sacrificare la persona simbolo del rinnovamento: il Bambino, di cui noi ricordiamo la nascita appunto al culmine del sonno della natura, nel solstizio invernale, a Natale.
Le civiltà molto attive, come la nostra (e i Maya) faticano ad accettare l’ombra, il ritrarsi delle forze vitali, l’allungarsi della notte e del sonno. Questo atteggiamento però nega i tempi della natura e quindi pone l’uomo in una posizione («maniacale» secondo l’osservazione psichiatrica) di diniego della realtà, quindi pericolosa per l’equilibrio.
La scansione delle stagioni è una proposta che il mondo naturale (cui apparteniamo) ci fa, suggerendoci di imparare ad alternare due diversi stili psicologici a seconda del tempo: quello solare ed estroverso della primavera-estate, e quello umbratile ed introverso che inizia in autunno e tocca il suo apice in inverno. È soltanto accogliendo questo consiglio, implicito nel clima, nella luce, negli stati d’animo delle varie stagioni, che noi possiamo accordare il nostro umore e la nostra creatività con quello della natura circostante, rendendoci quindi tutto più facile e meno faticoso.
Le foglie che si staccano dagli alberi ci chiedono dunque di non resistere a ciò che in questa stagione vuole staccarsi da noi, lasciandolo invece andare, come fa il serpente con la sua vecchia pelle, che lascia sulla pietra.
Vecchie abitudini, passioni ormai spente, entusiasmi tramontati: invece di deprimerci per la loro fine, profittiamo dell’allungarsi delle tenebre per lasciare che tutto ciò che non è più vitale scivoli nella notte, e dormirci sopra, rigenerandoci. Le crisi d’ansia e di panico, così come le depressioni, nascono dal tentativo opposto: quello di non abbandonare mai nulla, nel tentativo onnipotente di assicurarci una vita fatta soltanto di accumulo, evitando qualsiasi perdita. Una situazione del genere sarebbe terribile, e produrrebbe malesseri opposti; del resto ben visibili nelle terapie di quelle persone che per ragioni diverse, non riescono mai a liberarsi di niente, e soffocano in esistenze affollate ed eccessive.
La natura tuttavia, nella sua misteriosa e profonda saggezza, ispirata ad un infallibile istinto di crescita e sopravvivenza, ha provveduto, con i tempi ed i climi delle stagioni, ad evitare questo rischio. Così nelle piante la linfa si ritira, le foglie cadono fertilizzando il terreno, ed a primavera i rami sono pronti a nuove gemme e nuovi sviluppi. Impariamo ad imitarla, invece di ribellarci con ansie, panico e depressioni.