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Ludovico Ariosto: l’”italo Omero” della poesia cavalleresca

di Fabrizio Legger - 22/11/2009


Ludovico Ariosto (1474-1533), definito da Vittorio Alfieri, in un celebre sonetto delle sue Rime, come l’italo Omero, è indubbiamente uno tra i più geniali e più fantasiosi poeti della letteratura italiana.
Il suo poema cavalleresco Orlando Furioso è un’opera davvero mirabile, prodigiosa, che si snoda attraverso un coacervo innumerevole di episodi, personaggi, novelle ed eroi, in un vero e proprio groviglio inestricabile di duelli, apparizioni, amori, magie, battaglie, fughe, incantesimi, viaggi e pazzie che solo l’abilità geniale dell’Ariosto riusciva a districare, quasi che il sommo poeta emiliano fosse una sorta di invisibile burattinaio che muoveva a proprio piacere gl’intricati fili del suo tumultuoso groviglio di personaggi impegnati nelle più svariate avventure.
Leggendo e rileggendo il Furioso, balzano subito all’occhio due qualità preminenti di questo grande vate padano: la fantasia e l’ingegno. La fantasia l’Ariosto l’ebbe fertilissima, ridondante, capace di fargli intravvedere nel balenìo di un attimo mille scene diverse, mille personaggi in lotta tra loro, mille diversi scenari ora idilliaci e ora incantati, mille orribili mostri e mille audaci cavalieri dalle bizzarre e stravaganti armature luccicanti sotto i raggi del sole.
E la fantasia, in Ariosto, è creatività pura, pura facoltà immaginativa che lo conduce a perdersi in mille luoghi diversi, dalla Francia all’Egitto, dalla Spagna alla Scozia, dall’Ungheria a Gibilterra, dalla Cambogia all’Arabia, seguendo le vicende burrascose dei suoi favolosi personaggi sempre in lotta, sempre in viaggio, sempre in fuga, sempre in movimento…
Ma l’Ariosto è anche poeta di grande ingegno, sublime inventore di trame e novelle, arzigogolato creatore di colpi di scena, e di ingegno ne occorre veramente tanto per scrivere un poema come il Furioso, dove l’azione non ruota solamente attorno ad un unico personaggio (come asseriva invece un altro letterato della Ferrara cinquecentesca, il Giraldi Cinzio, il quale scrisse il suo poema mitologico, dal titolo Ercole, proprio facendo il contrario di quanto aveva fatto l’Ariosto e incentrandolo tutto sul personaggio principale).
Nel Furioso, ogni personaggio finisce sotto i riflettori accesi dal poeta sul gran scenario delle avventure dei paladini, sia esso Orlando, Rinaldo, Astolfo, Ruggero, oppure un personaggio minore, come Sansonetto, Pinabello, Marfisa. Gradasso, Melissa, Fiordiligi o Logistilla. E ognuno di essi contribuisce in maniera egregia allo sviluppo delle innumerevoli storie che fanno da corollario indispensabile alla storia principale, che è quella della pazzia d’Orlando, innamorato respinto “che per amor venne in furore e matto”.
L’abilità prodigiosa dell’Ariosto, il suo brillante ingegno di poeta narrativo, sta proprio in questa sua capacità di tirare abilmente le fila di tanti personaggi e di tante intricate vicende, riuscendo ad equilibrare il tutto con tanto buon senso e con una grandissima capacità di concedere il giusto spazio ora a questo, ora a quel personaggio, senza tralasciarne nessuno e senza dare più importanza all’uno rispetto all’altro, come giustamente conviene al perfetto e armonioso equilibrio del poema.
Nell’economia del grande poema ariostesco, tutti i personaggi sono importanti ed ognuno di essi ricopre un proprio ruolo ben preciso. Gli episodi si susseguono con estrema scioltezza via via che un personaggio esce di scena (momentaneamente) per lasciare posto ad un altro.
Più si procede con la lettura e più ci si accorge che appena si fa conoscenza con un nuovo personaggio, subito lo si perde, inghiottito nel mare magnum della vastissima storia, per poi ritrovarlo tre o quattro canti più avanti, magari in compagnia di quell’altro personaggio che ci ricordiamo di avere incontrato nei cinque o sei canti precedenti. E così via, con una girandola infinita di inseguimenti, rincorse, duelli, incanti, fughe, battaglie, colpi di scena e precipitose fughe che fanno dell’Orlando Furioso un poema in perpetuo movimento, mai statico, dominato dalle frenesia della velocità, tanto che piacque moltissimo (e proprio per tale motivo) anche ad un modernista anticlassicista come Filippo Tommaso Marinetti, creatore del Futurismo, che elogiò il poema ariostesco nel corso di una celebre conferenza.
E se persino il sulfureo Marinetti, detto la “caffeina d’Europa”, trovò avvincente, dinamico e quasi “prefuturista” il poema dell’Ariosto, avendo per tale opera sincere parole di elogio, beh, allora ciò significa che il Furioso è davvero un capolavoro eccezionale, prodigioso, che ben merita di stare al primo posto tra la moltitudine arcinoiosa dei troppi poemi cavallereschi della nostra letteratura nazionale!
Infatti, non a caso, molti critici hanno rilevato proprio nella inesauribile energia creatrice che sembra trasudare da ogni ottava del poema, il pregio maggiore della poesia ariostesca: una stupefacente e mirabile “energia attiva” che gli dà slancio, che lo sprona e che lo sostiene dall’inizio alla fine, mostrando così tutta la prodigiosa efficacia della vera e grande ispirazione poetica.
Tutto ciò che l’Ariosto scrive è profondamente radicato nel suo cuore e la sua energia creativa sgorga come una sorgente inesauribile dalle profondità del suo spirito che, sebbene mostri talora ironia e disincanto, è completamente partecipe alle vicende dei suoi personaggi, è tutto preso dalla creazione letteraria che gli si sviluppa, passo dopo passo, tra le mani.
Si sente che l’”italo Omero” vive con i suoi personaggi, cavalca al loro fianco, partecipa idealmente e sentimentalmente alle loro strabilianti avventure. Ma è una vita tutta interiore, vissuta nelle profondità dello spirito, senza mia eccedere nelle manie o nelle eccentricità proprie, per esempio, di un poeta come il Tasso.
L’Ariosto, anche se narra di imprese cavalleresche contro mostri e giganti, anche se descrive battaglie tra eserciti sterminati, anche se viaggia, con la fantasia, dall’Africa all’Asia e dalla Terra alla Luna, è pur sempre un poeta morigerato ed equilibrato, con i piedi ben piantati per terra, molto attento alla realtà e calato profondamente nella quotidianità del vivere.
La poesia non suscita in lui smanie e frenesie, incubi e deliri, manie di grandezza e manie di persecuzione, estraniamento dalla realtà e insofferenza per il quotidiano, come avviene invece con il Tasso: la poesia è per l’Ariosto fonte di supremo equilibrio, da vivere con pacata ironia, dando alla fantasia solo lo spazio che le compete e non permettendole di dominare freneticamente l’esistenza sacrificandole la quiete familiare e gl’intimi affetti. Ciò lo si evince anche dalle caratteristiche stesse dei personaggi ariosteschi e tassiani: i primi corrono per il mondo in un crescendo di avventure e di storie avvincenti, ma non hanno nulla della tragicità e della disperazione che incombe sugli eroi tassiani, vere e proprie proiezioni dell’anima tormentata e delirante del poeta della Gerusalemme. Sul poema dell’Ariosto aleggiano una serenità e una giocondità che nel poema tassiano sono semplicemente inesistenti: la Liberata riflette perfettamente il caos, la cupezza e la smania che dominarono la vita interiore del Tasso, mentre il Furioso esprime tutto il pacato equilibrio interiore e l’intima serenità che furono proprie dell’uomo-Ariosto.
A ben guardare, la vera materia umana e poetica sulla quale lavora l’Ariosto non è tanto quella cavalleresca medievale, sostanzialmente incapace di fare presa nella coscienza dell’uomo del Rinascimento, ma, piuttosto, quella moderna concezione della vita e dell’uomo che si ritrova in ogni canto del poema. Sembra quasi che l’”italo Omero” voglia esplorare un mondo nuovo, alzare le vele e salpare verso lidi ignoti, per nulla timoroso del soprannaturale e dei limiti imposti all’uomo dalla Natura e, al contrario, totalmente fiducioso nelle forze e nelle capacità creative dell’essere umano. Una concezione, questa, che sta alla base di tutta la filosofia esistenziale dell’Ariosto, il quale fu in tutto e per tutto un uomo del primo Cinquecento, pieno di fiducia nei confronti dell’uomo e della Natura, capace di navigare con una sensibilità nuova il vasto oceano della Poesia mostrandosi in ciò assai simile al grande Cristoforo Colombo, navigante intrepido verso mari sconosciuti e scopritore di nuovi mondi.
L’Ariosto canta le gesta degli antichi paladini di Francia, con uno spirito decisamente nuovo, caratterizzato da una saggezza e da un atteggiamento bonario ed ilare che lo rende totalmente aperto verso il mondo che gli si para dinanzi con tutte le sue incognite, pronto a nuove esperienze, ma, al tempo stesso, assai attento alla realtà del quotidiano, alla concretezza, all’importanza delle piccole cose, a quel sano realismo che mitiga i voli più pericolosi della fantasia e che fa evitare al poeta di precipitare dalle altezze della Poesia giù negli abissi oscuri della Pazzia (come invece accade al Tasso, per il quale la poesia fu delirio e follia e lo pose in urto con la soffocante e bigotta società del suo tempo).
Interpretazione, questa, anche espressa da Lanfranco Caretti, celebre critico e studioso dell’Ariosto, il quale, in una sua Prefazione ad una edizione del Furioso, così scrive: “E se tutto questo è avvenuto senza visibile spargimento di sangue, ma al contrario nella forma più semplice e naturale, il grande merito è da ricercare in quella condizione di straordinaria saggezza che l’Ariosto aveva saputo attingere attraverso un’attiva esperienza della vita. Quella saggezza consisteva in un’apertura serena e cordiale verso il mondo, fondata sulla conoscenza dell’uomo, della sua varia e anche contraddittoria natura, e sull’accettazione della realtà in tutti i suoi aspetti”.
Da qui, una differenza fondamentale tra l’”italo Omero” e l’’”usignolo ebbro furente”, come D’Annunzio ebbe a definire il Tasso, e cioè, che messi a confronto con i loro rispettivi capolavori, l’Ariosto risulta assai più uomo di mondo del Tasso, il quale, invece, non riesce a discollarsi dai panni di dotto cortigiano.
L’Orlando Furioso, lo si evince chiaramente, è opera di un poeta sereno e pacato, dotato di un grande equilibrio interiore, arguto e bonario, che guarda alla vita con ironia, che non fa mai il passo più lungo della gamba, che persegue gli ideali dell’otium letterario e della quiete domestica con intima pervicacia, senza combattere contro invincibili mulini a vento e facendo della poesia il suo tesoro più segreto e prezioso. E i suoi personaggi, per riflesso, risentono pienamente di questa sua visione placida e serena dell’esistenza: essi vivono, agiscono e muoiono illuminati da un orizzonte sereno, sfolgorante di luce vivida e gioiosa, corroborati da un’intima armonia che è poi armonia delle creature con il mondo intero.
Nulla di tutto questo, invece, si ritrova nel poema tassiano, dove tutti i personaggi, ad eccezione del pio Buglione, sembrano preda di una frenesia nevrotica, tutti irrequieti e scontenti, sospinti da passioni violente che creano nelle loro esistenze tetre ed oscure disarmonie. Dinanzi ai loro occhi ci sono soltanto tenebre cupe e oscurità incombenti, la gioia è un miraggio lontano, l’amore una chimera irraggiungibile, il fato ineluttabile e spietato è una minaccia continua, mentre i “gran giochi del caso e della sorte” dispensano a piene mani dolori, sventure e tristezze. La Liberata è un poema senza gioia, mentre il Furioso è un poema decisamente gioioso, dominato da una vivace sensualità e da una serena armonia che cattura il lettore e che riesce ad infondergli una deliziosa letizia intima e segreta.
Infatti, non a caso, l’unità dell’Orlando Furioso è dovuta all’opera di equilibrata armonizzazione che il poeta ha saputo compiere per riuscire a far convivere, in una costruzione davvero mirabile, tutte le tematiche contrapposte e contrastanti che si intersecano e che si frammischiano nei quarantasei lunghi canti di cui è composto il poema. Il tutto fatto con quel distacco, con quella serenità, con quell’equilibrio che fa sì che il poeta, districatosi dalla vita frenetica degli impulsi e delle passioni, possa contemplarli placidamente nelle loro contraddizioni e nelle loro alterazioni, muovendo abilmente le fila delle loro storie e delle loro vicende (anche prodigiose, bizzarre, strabilianti e incredibili) che egli si diletta di raccontare. Proprio come afferma anche il già citato Lanfranco Caretti, ove dice: “Così si spiega perché nel Furioso le situazioni non siano mai esasperate né troppo a lungo protratte, sopra una sola nota, perché manchino i conflitti cruenti, le dissonanze aspre, il gusto insistito dell’orrido e del deforme. Anche i momenti drammatici e i casi strazianti sono sempre mantenuti nell’ordine della compostezza e dell’equilibrio, dell’esecuzione accurata, della misura e del decoro espressivo”.
Forse (a parte il poema tassiano) mai come nel capolavoro ariostesco, un’opera letteraria si è rivelata così intimo specchio dell’indole, del carattere e della sensibilità del suo autore. Nel Furioso troviamo tutto l’Ariosto, con la sua saggia concezione della vita, il suo pacato equilibrio, la sua sorniona bonarietà, il suo spirito ironico: eppure, con queste peculiarità così “realistiche”, l’”italo Omero” ha realizzato un prodigioso poema fantastico, una capolavoro di poesia dove lo stupefacente, il sensazionale, lo strabiliante fanno capolino da ogni parte, in ogni verso, in ogni canto, in ogni episodio di questo vero e proprio inno alla fantasia, dove compaiono personaggi bizzarri ed incredibili come Orrilo, Alcina e Logistilla, mostri come la terribile Orca, animali dotati di poteri prodigiosi come il cavallo Rabicano, oppure imprese che paiono al di sopra di tutte le forze umane, come il vertiginoso viaggio di Astolfo sulla Luna in groppa al fantastico Ippogrifo.
L’Orlando Furioso è un poema dalla struttura eccezionalmente aperta: sembra che l’opera si dilati a dismisura sotto i tocchi magici della inarrestabile fantasia dell’Ariosto, dando così vita ad un’opera pervasa da una grandissima energia creatrice, dinamica, in continuo movimento, in continua evoluzione, che spazia attraverso tutti i luoghi del globo terracqueo, dalla Francia all’Africa, dalla Persia all’Indocina, trasformando i paesi toccati dalla inesauribile fantasia ariostesca in temporanei “centri” della incredibile vicenda di Orlano pazzo d’amore e di tutti i personaggi che gli fanno contorno.
Infatti, non a caso, uno degli aspetti più avvincenti e più affascinanti del poema è dato proprio da questa varietà di luoghi, da questo mutare continuo di orizzonti e di prospettive, da questo tema del viaggio che ricorre in quasi tutti i canti e che vede coinvolti, oltre al paladino Astolfo (che del poema è il viaggiatore per eccellenza), anche lo stesso Orlando, Rinaldo, Angelica, e i molti antagonisti dei paladini di Francia, giunti tutti da terre lontane (Rodomonte, Gradasso, Mandricardo).
Un viaggio senza fine per un libro senza fine: infatti, letto e riletto il Furioso, sembra proprio di trovarsi di fronte ad un libro privo di conclusione, una sorta di libro perpetuo, in quanto le vicende avventurose dei paladini di Re Carlo e dei loro avversari saraceni e asiatici possono continuare ben oltre il duello finale tra Ruggiero e Rodomonte e le nozze (che sanno davvero di posticcio e stucchevole lieto fine) tra Ruggiero e Bradamante.
La strabiliante avventura, il viaggio irto di pericoli, l’odissea attraverso i territori inesplorati dell’Africa e dell’Asia, il correre senza tregua per terra, per cielo e per mare, sembrano non finire mai, non esaurirsi mai, con una sorta di prolungamento ideale e fantasioso al di là delle pagine scritte, al di là dello spazio ristretto dell’ottava, al di là del pur ampia lunghezza del singolo canto…
Con il Furioso, l’”italo Omero” ha saputo creare un’opera che rispecchia, in fondo, il fluire ininterrotto dell’esistenza umana, la sua continua mutevolezza, quel senso di incalcolabile e di inesauribile che si riscontra nel movimento continuo delle incessanti vicende umane. In sostanza, un poema dinamico, vorticoso, movimentato, in continua evoluzione, dal che si evince perché piacque molto anche da uno spietato affossatore e stroncatore di classici quale fu, appunto, Filippo Tommaso Marinetti, il gran Padre del Futurismo italiano.
L’Orlando Furioso incarna ed esprime pienamente lo spirito rinascimentale nella sua gioiosa maturità, spirito che, come è noto, si evince da moltissimi elementi, tra cui la fiducia incondizionata nelle forze dell’uomo, la piena e inebriante affermazione della vita dei sensi, la totale rivalutazione della ragione umana e della suprema libertà dell’uomo e dell’individuo, la riduzione della magia e dell’astrologia a mero ordine interno della Natura, l’eliminazione di ogni terrore metafisico e di ogni angoscia soprannaturale di medievale memoria, l’armonia sentita come profonda legge che regola la vita dell’intero universo, l’amore inteso e vissuto come principio di conservazione dell’intera esistenza umana.
Tutto questo fa del poema ariostesco il “poema” per eccellenza del Rinascimento non solo italiano, ma, addirittura, europeo, tanto è vero che fu più volte imitato da altri anche sommi poeti (un esempio per tutti: lo spagnolo Lope de Vega con il suo alquanto scialbo La bellezza di Angelica) ma che, ad essere davvero sinceri, nessuno di essi riuscì neppure lontanamente ad eguagliare. E infatti, non a caso, il Furioso è assurto ad emblema di quel primo Rinascimento solare, gioioso, sensuale, godereccio, libertario, spontaneo, ottimista e fiducioso, che non sarà più tale nella seconda parte del secolo, lacerata e traumatizzata dalla Riforma protestante, da eventi agghiaccianti come il Sacco di Roma, dal clima di fosca oppressione e di soffocante timore degli anni bui della Controriforma.
Quindi, nel definire l’Ariosto come l’”italo Omero”, il grande Vittorio Alfieri, seppe vedere a fondo nella complessità dell’uomo Ariosto e della sua inesauribile ispirazione, che diede vita al più celebre e al più sublime poema del Rinascimento europeo, tanto che il lirico omaggio tributatogli nel celebre sonetto LX delle sue Rime (ispiratogli in occasione di una visita alla tomba ariostea, a Ferrara) è davvero più che appropriato:

                                   Oh gloriosa invero ombra felice,
                                   che giaci infra sì nobile corteggio
                                   nella beata tua terra nutrice!
                                   Qual già fosse il tuo nome, omai nol chieggio:
                                   Fama con tromba d’oro a tutti il dice:
                                   L’italo Omero entro quest’urna ha seggio!