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Le più antiche cronache dell'Amazzonia, del navigatore fiorentino Amerigo Vespucci

di Yuri Leveratto - 22/11/2009

Fonte: yurileveratto

Per alcuni storici il genovese Cristoforo Colombo non fu altro che uno scaltro avventuriero capace di convincere i regnanti di Spagna a finanziare le sue imprese nel nome della Fede in Cristo, quando in realtà era spinto da brame di ricchezza e potere. Per altri, fu l’iniziatore del vile commercio d’indigeni, che furono inviati in catene in Spagna e venduti come schiavi. In ogni caso l’Ammiraglio del Mare Oceano ebbe il merito di aprire per primo la nuova rotta oceanica, ma non comprese totalmente l’importanza delle sue scoperte. Fu sempre guidato da superstizioni e pervaso da credenze bibliche, dimostrandosi così un uomo del Medioevo, o forse l’ultimo uomo del Medioevo.
Il navigatore fiorentino Amerigo Vespucci invece, non era spinto dalla smania di trovare una rotta per le Indie né dalla foga di appropriarsi d’oro e pietre preziose, né dall’idea di essere portatore di Fede e divulgatore della religione cristiana. La sua mente era libera.
Nei suoi viaggi acquisì informazioni preziose che, sommate alle sue conoscenze geografiche, lo convinsero di essere al cospetto di un nuovo continente. Per queste ragioni, e per la sua apertura mentale, il fiorentino Vespucci può essere considerato il primo uomo dell’era moderna.
Durante il suo primo viaggio (maggio 1497-ottobre 1498), il navigatore toscano descrisse le attuali coste venezuelane e la penisola della Guajira, facente parte oggi della Colombia. Si addentrò all’interno di una laguna e notò alcune casupole presso la costa. Ecco la sua descrizione tratta dalla Lettera di Amerigo Vespucci sulle isole nuovamente trovate in quattro dei suoi viaggi (1504). 

E seguendo da lì sempre la costa, con varie e diverse navigazioni e trattando in tutto questo tempo con molti e diversi popoli di quelle terre, infine, dopo alcuni giorni, giungemmo ad un certo porto nel quale Dio volle liberarci di grandi pericoli. Entrammo in una baia e scoprimmo un villaggio a modo di città, collocato sopra le acque come Venezia, nel quale vi erano venti grandi case, non distanti tra loro, costruite e fondate sopra robusti pali. Davanti agli usci di codeste case vi erano come dei ponti levatoi, per i quali si passava da una all’altra, come se fossero tutte unite.

Il nome “Venezia” fu usato successivamente, nel vezzeggiativo “Venezuela”, per denominare l’enorme territorio che stava al di là di quella laguna.
Verso la fine del 1498, quando il fiorentino rientrò a Siviglia, città dove risiedeva da ormai 7 anni, pensò subito di partecipare ad un’altra spedizione. La smania di conoscere il mondo, e di verificare se le nuove terre scoperte facessero parte dell’Asia o fossero realmente un nuovo continente, non gli dava pace. Vespucci era un uomo di scienza, e prima di trarre delle conclusioni affrettate voleva riconsiderare nuovamente le osservazioni che fece durante il primo viaggio. Aveva descritto i nativi, che secondo lui non erano come gli asiatici, descritti da Marco Polo nel Milione, e aveva notato una fauna e flora alquanto diversa da quella riferita dal celebre veneziano. Forse le terre scoperte erano un Nuovo Mondo, distinto dall’Asia, ma ancora non ne era sicuro.
Quando seppe che il castigliano Alonso de Ojeda stava per organizzare un viaggio per le Indie (così venivano chiamate allora le terre scoperte da Cristoforo Colombo), e che soprattutto il cantabrico Juan de la Cosa sarebbe stato il comandante in seconda dell’impresa, si interessò nel partecipare alla spedizione.
Siccome in quel periodo Amerigo Vespucci era agente dei Medici nella città di Siviglia e aveva contatti con persone autorevoli come Giannotto Berardi è possibile che l’influente comunità fiorentina si sia occupata di armare almeno due delle tre navi.
Partirono il 18 maggio 1499 dal porto di Santa Catarina, vicino a Cadice. Dopo aver toccato le isole Canarie fecero rotta a sud-ovest, non verso La Española, ma in direzione della terraferma.
Ojeda era convinto che il favoloso regno del Catai fosse più a sud di quel che pensasse Colombo, e credeva di riuscire a trovarlo prima dell’ammiraglio genovese. Nei suoi discorsi imbevuti di brama di potere e cieca avidità pensava di potersi impossessare facilmente di quei regni asiatici e riuscire dove l’Ammiraglio aveva fallito. Il fiorentino e il cantabrico lo ascoltavano perplessi, in quanto la loro visione del mondo, più moderna e attenta alla geografia, metteva in luce molte più difficoltà per raggiungere le Indie.
Avvistarono terra dopo 24 giorni di mare e approdarono nelle attuali coste della Guayana, nelle vicinanze del Rio Damerara. Navigarono poi verso nord, fino al golfo di Paria, dove visitarono alcuni villaggi tribali. Vespucci si rese presto conto di chi fosse Ojeda. Lo spagnolo pretendeva i monili d’oro dei nativi e non esitava a usare la forza per appropriarsene. Anche Juan de la Cosa non gradiva il comportamento così spavaldo e avido del comandante castigliano.
Vespucci decise di separarsi dalla nave di Ojeda e di proseguire verso sud-est. Esistono varie interpretazioni di questa decisione. Alcuni dicono che fu causata da disaccordi con il castigliano; secondo altri, essendo il toscano già esperto della costa a ovest del golfo di Paria, che aveva visitato nel primo viaggio, decise di esplorare quella a est, per lui sconosciuta. Nel suo viaggio verso sud-est, costeggiando l’attuale Guayana e il Brasile, individuò per primo l’estuario del Rio delle Amazzoni e fu colpito dal colore dell’acqua marrone e dal suo sapore dolce anche in mare fino a decine di chilometri al largo.
Nelle sue Lettere, il fiorentino descrisse la scoperta di due grandi fiumi che corrispondono probabilmente alle due bocche principali del Rio delle Amazzoni:

Credo che questi due fiumi siano la causa dell’acqua dolce nel mare. Accordammo entrare in uno di essi e navigarvi attraverso fino ad incontrare l’occasione di visitare quelle terre e poblazioni di gente; preparate le nostre barche ed approvvigionamenti per quattro giorni con venti uomini ben armati ci mettemmo nel fiume e navigammo a forza di remi per due giorni risalendo la corrente circa diciotto leghe, avvistando molte terre. Navigando così per il fiume, vedemmo segnali certissimi che l’interno di quelle terre era abitato. Poi decidemmo di tornare alle caravelle che avevamo lasciato in un luogo non sicuro e così facemmo.

Quindi continuò verso sud giungendo fino al Cabo di San Agustin. Durante la navigazione di rientro, con rotta nord-ovest, Vespucci scorse una insenatura, un porto naturale, all’entrata della quale vi era un’isola. Secondo alcuni ricercatori si trovava al largo della baia dove oggi sorge l’odierna San Luis de Maranhao. Dopo essere stati circondati dalle canoe d’indigeni aggressivi ci fu una scaramuccia e due nativi vennero presi prigionieri. Quindi gli europei approdarono e sbarcarono presso una spiaggia dove vi erano numerosi autoctoni. Ecco il racconto del fiorentino tratto dalle sue Lettere:

Liberammo quindi uno dei due prigionieri e tentammo di dare loro segni d’amicizia. Gli regalammo varie campanelle, collanine e specchi, e manifestammo loro il desiderio che lor tutti abbandonassero la paura, in quanto volevamo essere amici loro; in effetti alcuni di loro s’inoltrarono nella selva e quindi tornarono dopo alcuni minuti, portando con loro tantissime persone, circa 400 tra uomini e donne.
Questa gente s’approssimò a noi senz’armi e, una volta stabilito rispetto e stima reciproca, liberammo l’altro prigioniero e riconsegnammo la loro canoa. Questa canoa era fabbricata magistralmente e scavata in un solo tronco d’albero: era lunga circa 26 passi e larga due braccia. Dopo averla collocata in un luogo sicuro del fiume, scapparono tutti, dimostrando di non voler avere più rapporti con noi, strana azione che ci fece conoscere la loro mala fede e il loro carattere. Qualche istante prima avevamo notato che alcuni di loro indossavano vari orecchini e collanine d’oro.

Successivamente la nave comandata da Amerigo Vespucci si diresse verso nord navigando per circa 80 leghe (400 chilometri), e giunse presso alcune insenature che probabilmente corrispondono alle coste antecedenti al Parà, una delle due disimboccature principali del Rio delle Amazzoni. Ecco il racconto direttamente dalle Lettere del fiorentino:

Lasciando quelle coste e navigando verso nord-ovest trovammo un’insenatura sicura per le navi, ed entrandovi potemmo scorgere una gran moltitudine di gente, con la quale provammo ad instaurare un rapporto d’amicizia. Più tardi potemmo visitare alcuni dei loro villaggi, dove fummo ricevuti con la massima cortesia. Scambiammo ben 500 perle per un solo campanellino, però poi le consegnammo un po’ d’oro per compensare il baratto. In questo paese bevono vino ottenuto da frutta e cereali, tipo il sidro o la birra chiara o scura. Il più buono è quello che fanno con le mele, e con altra strana frutta succosa e rigogliosa, che abbiamo mangiato in abbondanza, essendo giunti nella stagione opportuna. Quest’isola abbonda delle cose necessarie per la vita e la gente che la abita è educata e gentile, oltre ad essere pacifica, qualità rara tra i nativi di dette coste. Ci fermammo 17 giorni in quel porto, e ogni giorno ricevemmo vari gruppi di nativi che si meravigliarono molto dei nostri volti e della nostra pelle bianca, dei vestiti e soprattutto, della grandezza delle nostre navi. Ci riferirono che verso occidente vi era una nazione nemica, dove si producevano numerosissime perle, e ci dissero che quelle che avevano le avevano tolte ai loro nemici durante la guerra. Inoltre ci spiegarono come si originano le perle e ci rendemmo conto che ci stavano dicendo il vero…

Da questi racconti si evince che i navigatori europei vennero in contatto a volte con indigeni bellicosi e violenti, forse di origine Caribe, altre volte (approssimandosi all’estuario del Rio delle Amazzoni), conobbero etnie amichevoli e curiose (probabilmente Arawak).
In seguito, Vespucci e i suoi uomini, proseguendo verso nord-ovest, s’imbatterono in un popolo aggressivo e violento che oppose resistenza al loro sbarco. Si decise di continuare verso nord-ovest. Dopo aver navigato circa 15 leghe, si avvistò un’isola enorme e si decise di approdare per rendersi conto se fosse abitata. Per alcuni storici e cartografi si tratta dell’isola di Marajò, la grande isola fluvio-marina che si trova proprio al centro dell’immenso estuario del Rio delle Amazzoni. Ecco nuovamente il racconto del fiorentino:

Avvicinandosi a detta isola con grande celerità, incontrammo gente bestiale e ignorante, però allo stesso tempo era la più pacifica e benigna di tutte le genti fino ad allora trovate; ed ecco i loro usi e costumi: il loro volto e corpo sono animaleschi. Tutti hanno la bocca piena d’una strana erba verde che ruminano, come fossero animali, cosicché difficilmente possono articolar verbo. Avevano anche alcuni recipienti tipo zucche legati al collo, alcuni di essi pieni di detta erba, altri pieni di una farina bianca simile a gesso, e con un bastoncino che insalivavano, si portavano alla bocca detta farina di gesso per poi masticarla insieme all’erba verde. Questa operazione veniva ripetuta frequentemente e lentamente. Questa gente si dimostrò così familiare che era come se li avessimo conosciuti da tempo. Camminando con loro nella spiaggia ci intrattenemmo con loro in amabili conversazioni. Quando desiderammo bere acqua fresca, ci fecero capire a segni che nell’isola mancava l’acqua fresca e ci offrirono l’erba e la farina che ruminavano di continuo; da ciò capimmo che usavano quella pianta proprio per non sentire la sete…Sono grandi pescatori e hanno grand’abbondanza di pesci. Ci regalarono molte tartarughe e altri tipi di pesce fresco e saporito.

Analizzando questo racconto si deduce che i nativi dell’isola Marajò (forse i discendenti dell’antico popolo dei Marajoara?), facevano largo uso della coca, che mischiavano con una polvere ricca di calcio, proprio esattamente come fanno oggi i Kogui della Sierra Nevada di Santa Marta, o gli Ashaninka dell’Ucayali.
Il navigatore toscano tornò poi verso nord, dove riconobbe le foci di un grande fiume, l’odierno Orinoco, toccò Trinidad e fece tappa nell’isola di La Española.
Contemporaneamente Alonso de Ojeda e Juan de la Cosa avevano percorso la costa nord del Venezuela, individuando l’isola di Trinidad e quella dei Giganti, così chiamata per aver osservato uomini di grande statura, che corrisponde forse all’attuale Curacao. Poi viaggiarono fino al Capo de la Vela e procedettero verso La Española. Quando vi arrivarono, con poco oro e alcuni schiavi ribelli e pericolosi, furono accolti con ostilità dai coloni dell’isola, tutti seguaci di Colombo, perché avevano viaggiato senza la sua approvazione. Il viaggio di ritorno in Spagna fu effettuato nel giugno del 1500.
Queste cronache hanno un’importanza enorme, non solo perché provano che Amerigo Vespucci fu il primo europeo che conobbe l’estuario del più grande fiume del pianeta, qualche mese prima della “scoperta” ufficiale attribuita erroneamente a Vicente Yáñez Pinzón, ma soprattutto per le sue preziose descrizioni, che fanno luce su popoli fino ad allora completamente sconosciuti, probabilmente di etnie Caribe e Arawak.
Il navigatore toscano, fece altri due viaggi nel Nuovo Mondo, esplorando le coste meridionali dell’attuale Brasile e Argentina, fin quasi al famoso stretto, che fu scoperto da Magellano 18 anni dopo.
Fu il primo uomo che si rese conto di aver viaggiato al cospetto di un nuovo continente, distinto dall’Asia, come credette Cristoforo Colombo fino alla fine dei suoi giorni.
Qui di seguito si cita un passaggio dell’opera di Vespucci Mundus Novus, nella quale lui stesso riconosce di aver scoperto e descritto un nuovo continente:

Arrivai alla terra degli Antipodi, e riconobbi di essere al cospetto della quarta parte della Terra. Scoprii il continente abitato da una moltitudine di popoli e animali, più della nostra Europa, dell’Asia o della stessa Africa.

Fu il cosmografo tedesco Martin Waldseemuller a divulgare per primo le notizie del fiorentino nella Cosmographie Introductio, pubblicata nel 1507, in Lorena.
In seguito a quest’opera le nuove terre scoperte s’iniziarono a chiamare “Americus”, o “America”, in onore delle osservazioni fatte da Vespucci. Inizialmente con il termine “America” ci si riferì solo ai territori situati al sud dell’istmo di Panama, ma negli anni successivi lo si utilizzò anche per il nord del continente.
Nel 1508 Vespucci fu nominato da re Ferdinando Piloto Mayor de Castilla, titolo che lo riconosceva come il navigatore più esperto del regno di Spagna. Gli fu affidato il compito di selezionare e istruire i futuri piloti e cartografi, insegnando loro l’uso dell’astrolabio e la conoscenza dei venti.