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L'inquieta assenza di limite

di Alain de Benoist - 23/11/2009

 

Gruppo Opìfice: La crisi economica, nonostante le ottimistiche previsioni degli economisti e dei governi, sta divorando le ricchezze accumulate nei decenni precedenti. Si assiste a una polarizzazione del tessuto sociale: ricchi da una parte e poveri dall’altra. Il fenomeno più vistoso è la progressiva scomparsa del ceto medio, della piccola borghesia. Che effetti, politici e sociali, potrà avere questa situazione a lungo termine?

Alain de Benoist: Durante l’immediato dopoguerra (noto in Francia come i «Trente Glorieuses», ossia il trentennio 1945-1975), le società occidentali si sono incontestabilmente arricchite. Il capitalismo era allora nella sua fase fordista: i salari aumentavano regolarmente e questo aumento del potere d’acquisto (la domanda solvibile) permetteva di aumentare anche il consumo. Parallelamente, lo Stato assistenziale forniva prestazioni sociali rilevanti. La classe media si allargava così regolarmente a spese del proletariato e delle fasce popolari. Una delle conseguenze di questa evoluzione è stato l’abbandono di ogni proposito rivoluzionario da parte dei sindacati, che sono allora diventati tutti più o meno riformisti. In quell’epoca prevaleva la teoria del «trasferimento» di Alfred Sauvy, secondo la quale la società era paragonabile a una piramide in cui i profitti accumulati al vertice finivano con il ridiscendere, più o meno rapidamente, fino alla base, di modo che, in pratica, tutti traevano beneficio dalla crescita e dalla prosperità.
Oggi, la società non è più a forma di piramide, ma di clessidra. I profitti accumulati al vertice ridiscendono sempre meno verso il basso. Conseguenza: i ricchi sono in realtà sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri, e le classi medie subiscono di nuovo la minaccia del declassamento. Il capitalismo è uscito dalla sua fase fordista per trasformarsi in «turbo-capitalismo» post-fordista dove la sfera puramente finanziaria ha assunto un’importanza sempre più grande, al punto di non riflettere più la produzione reale. La globalizzazione ha permesso la planetarizzazione dei mercati finanziari, sottraendoli così ai poteri dei governi. La deregolamentazione, a partire dall’epoca di Margaret Thatcher e Ronald Reagan, ha ulteriormente accelerato il movimento. In seno alle imprese quotate in Borsa, il potere degli azionisti si è accresciuto. Per farla breve, la globalizzazione si è ugualmente tradotta in un’ondata senza precedenti di delocalizzazioni, che hanno avuto l’effetto di creare, in condizioni di dumping, una concorrenza sleale tra i lavoratori dei paesi occidentali e quelli dei paesi emergenti, dove l’aumento della produttività va di pari passo con salari da 40 a 80 volte meno elevati. Risultato: un calo o una stagnazione generale dei salari, dovuta, al tempo stesso, alla pressione degli azionisti e alla nuova pressione concorrenziale prodotta dalle delocalizzazioni. Sotto la minaccia della pauperizzazione, le classi popolari e quelle medie non hanno avuto allora, per mantenere il loro livello di vita, altra risorsa che indebitarsi, anche se la loro solvibilità diminuiva. In altri termini, per rilanciare il consumo, si è cercato di compensare il calo della domanda solvibile derivante dalla compressione dei salari e dalla precarietà del lavoro con l’imballamento della macchina creditizia. Al di là del solo problema dei subprimes, è questa la causa profonda della crisi finanziaria mondiale nella quale siamo immersi.
È evidentemente difficile valutare le conseguenze a lungo termine di questa situazione. La mia sensazione è che la crisi è lungi dall’essere terminata. La disoccupazione continua ad aumentare ovunque. Le banche e le società d’assicurazione minacciate di fallimento hanno ricominciato a fare utili, dopo essere state salvate dai governi. Ma nessun correttivo di fondo è stato apportato al sistema. A questo riguardo, le decisioni del G20 sono state di un totale irrealismo. Oggi, l’idea dominante è che basterebbe correggere gli «eccessi» di questi ultimi anni per rimettere in cammino la macchina in buone condizioni. Per fare un semplice paragone: ci sarebbe una mela marcia nel cesto, ma il cesto andrebbe conservato. In realtà, è il sistema stesso ad essere malato. Non si rimedierà alla crisi sopprimendo i «bonus» dei traders, e nemmeno facendo sparire i «paradisi fiscali», ma rimettendo in discussione la fuga in avanti, nell’illimitato, di un sistema che produce intrinsecamente le patologie di cui si vorrebbe purificarlo. Orbene, finora ci si è rifiutati di farlo. È dunque logico attendersi che le stesse cause producano gli stessi effetti.


Gruppo Opìfice: Il welfare state nord-europeo è in crisi profonda, forse irreversibile, il modello economico delle multinazionali americane ha campo libero ed è ormai accettato, perseguito e insegnato come l’unico valido. Quella che un tempo veniva definita la “classe degli intellettuali” si avvia a una mesta evaporazione, con conseguente assorbimento degli intellettuali nel sistema produttivo imperante. Fra ideologie fallite, rigurgiti terroristici e velleità alter-mondiste al tramonto, c’è ancora spazio per un’opposizione al sistema vigente? E se sì, quale?

Alain de Benoist: Quando un sistema è criticabile, resta per definizione sempre una possibilità di criticarlo. Detto questo, la vostra descrizione non è falsa. Tuttavia, dimenticate che il modello dominante cozza contro le sue stesse contraddizioni. Il fatto che le multinazionali, quelle americane o le altre, abbiano «campo libero» non basta a garantire che il mercato possa estendersi all’infinito. Il fatto che la grande maggioranza degli Stati e dei governi aspirino a una crescita materiale che non rallenti mai non implica che una tale crescita sia possibile. Non può esserci una crescita infinita in uno spazio finito. Quanto alle risorse naturali, oggi sappiamo che non sono né gratuite, né soprattutto inesauribili.
La grande caratteristica del sistema capitalistico è di essere condannato per natura a una perpetua fuga in avanti. La Forma-Capitale è una forma dinamica che tende all’illimitato e che considera ogni limite come un ostacolo da sopprimere. Questa illimitatezza rientra nell’ordine di ciò che Heidegger ha chiamato il Gestell, ossia l’imposizione generale del pianeta da parte delle forze della tecnica e dell’economia. Il Gestell ha in se stesso il suo più grande nemico. Ogni tendenza spinta in modo esponenziale finisce infatti con il capovolgersi bruscamente nel suo contrario. Marx, da questo punto di vista, non aveva torto quando diceva che il capitalismo avrebbe creato le condizioni della sua rovina con il suo stesso successo e non con le critiche che gli sarebbero state mosse. Il sistema del denaro perirà attraverso il denaro.


Gruppo Opìfice: Siamo stati educati a considerare il corso della storia come un percorso lineare, magari temporaneamente rallentato da tentativi reazionari senza duraturo successo, lungo il quale il progresso incede maestoso, promettendo felicità e benessere a tutti. Assistiamo invece a forme di recrudescenza religiosa che assumono i connotati del fanatismo, forme di sensibilità religiosa pre-moderne, medioevali, bizzarramente fuse con un apparato tecnico-scientifico di prim’ordine e sempre più sofisticato. Perché ciò? La Tecnica, secondo i suoi entusiasti cantori, non avrebbe dovuto fare tabula rasa dei residui superstiziosi insiti nella parte “neurologicamente arretrata” del nostro cervello?

Alain de Benoist: La concezione lineare (o vettoriale) della storia è stata formulata prima da un punto di vista teologico: in seno al mondo creato, la storia dell’umanità si svolgerebbe globalmente dal Giardino dell’Eden verso i tempi ultimi. A partire dal Rinascimento, e soprattutto dal XVIII secolo, questa visione è stata secolarizzata nella forma dello storicismo moderno sostenuto dall’ideologia del progresso: l’umanità si dirigerebbe necessariamente verso un avvenire sempre migliore e il novum costituirebbe un valore per il solo fatto della sua novità. Ma un tale schema è stato continuamente smentito dai fatti. Oggi, l’ideologia del progresso sopravvive solo attraverso l’ideale dello «sviluppo». Ai nostri contemporanei, l’avvenire ispira più inquietudine che ottimismo. 
Abbiamo avuto, peraltro, ampie possibilità di constatare che gli sviluppi materiali e tecnologici non determinavano, simultaneamente, alcuna trasformazione o miglioramento della natura umana. La tecnica cambia profondamente i nostri modi di vivere (forse più di quanto un qualunque regime politico possa riuscire a modificarli), ma non ciò che noi siamo. L’idea che il regno della tecnica – o della «scienza» -  avrebbe relegato definitivamente le credenze religiose al livello di superstizioni superate, è un’idea che fu coltivata dal positivismo scientista del XIX secolo, ma che è stata anch’essa smentita dai fatti. La tecnica non sopprime il fanatismo, ma piuttosto gli dà nuovi mezzi per esercitarsi (di qui l’alleanza tra sensibilità «arcaiche» e ricorso alle tecniche moderne cui si allude nella domanda). Il bisogno di credere in qualcosa che eccede la nostra condizione umana non si riduce né a un bisogno di «spiegare» l’ignoto, né a fantasmi rimossi male. Si pensi all’esempio degli Stati Uniti d’America, che sono al contempo il paese che ha oggi la più grande quantità di ricercatori scientifici e il più alto livello di religiosità del mondo occidentale. Altrove, le tecniche moderne coesistono benissimo con la credenza nell’astrologia e le sette stanno molto bene un po’ ovunque. La crisi delle religioni istituite ha altre ragioni – a cominciare dal generale discredito delle istituzioni e dall’individualizzazione della fede.

[Traduzione per opifice.it a cura di Giuseppe Giaccio]