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Potenzialità e debolezze dell’ideologia federalista

di Raffaele Ragni - 23/11/2009

 

 
Potenzialità e debolezze dell’ideologia federalista
 



Nella storia italiana sono esistiti federalisti di ogni estrazione politica: liberali e socialisti, repubblicani e monarchici, cattolici e laici, comunisti e razzisti, progressisti e tradizionalisti. Ciò dimostra la duttilità ma, al tempo stesso, la debolezza del federalismo come ideologia. I giuristi, per quanto vogliano discuterne, non arriveranno a differenziare compiutamente federalismo e regionalismo. Usando tali termini quasi come sinonimi, si alimenta l’idea che la devolution - cioè il trasferimento di competenze dallo Stato agli enti locali - conduca al federalismo, mentre è vero l’esatto contrario: essa rafforza il regionalismo. Un processo federale vero presuppone l’esistenza di Stati indipendenti che trasferiscono al governo federale parte delle loro potestà sovrane, comprese le risorse finanziarie per esercitarle. Se il processo inverso viene chiamato federalismo, si rimane nell’equivoco, almeno sul piano giuridico. Vero è che le regioni italiane non potrebbero trasferire ad un altro ente poteri che non hanno, e che possono esercitare competenze autonome solo se queste vengono loro trasferite dallo Stato, come è progressivamente avvenuto in Italia dal secondo dopoguerra. Ciò significa che, in fondo, la devoluzione è l’unica via italiana al federalismo, non perché sia la stessa cosa, ma perché ne crea le premesse.
A questo punto sorge il problema della sostanza rivoluzionaria del federalismo, problema che si pone sotto un duplice aspetto: il contenuto di per sé rivoluzionario dell’idea federale e la funzionalità dello Stato federale per un programma rivoluzionario. Chi crede nel federalismo, come processo ancor prima che come assetto istituzionale, lo considera l’unica vera forma di democrazia perché, dando potere decisionale ed autonomia finanziaria ai governi di comunità territorialmente circoscritte, rende i cittadini più partecipi alle decisioni politiche e quindi più responsabili. Chi crede all’identità dei popoli come valore da preservare, ne condivide la cultura differenzialista in antitesi al globalismo massificante.
Chi auspica la convivenza pacifica tra religioni ed etnie diverse, lo apprezza come metodo negoziale per la soluzione dei conflitti. Democratici, tradizionalisti, pacifisti, ciascuno ha le sue ragioni per diventare federalista. Il problema si pone per coloro che, nell’impegno politico, considerano prioritaria la lotta allo sfruttamento. In sintesi bisogna chiedersi quale modello produttivo assicuri alle piccole patrie, sviluppo endogeno e giustizia sociale, nel rispetto della tradizione e dell’ambiente. Cominciamo col dire che non esiste una teoria economica del federalismo.
La ripartizione collaborativa del potere tra ente sovrano ed enti autonomi si adatta a sistemi produttivi diversi. Basta un solo esempio: gli Stati Uniti sono uno Stato federale, come lo era l’Unione Sovietica. Daniel Elazar sottolinea genericamente l’importanza del federalismo nella diffusione dello sviluppo economico, con particolare riferimento alle aree industrialmente arretrate. Laddove esiste un assetto federale, le risorse finanziarie, prodotte ed erogate a qualsiasi titolo, sono inevitabilmente distribuite in vari centri e non affluiscono ad una sola area metropolitana.
Come minimo, la capitale di ciascuno Stato federato può rivendicare una parte delle risorse nazionali, con la conseguenza che più aree produttive hanno la possibilità di trarre benefici dagli sforzi per promuovere lo sviluppo e si creano le basi per una crescita equilibrata. Un altro vantaggio, riconducibile al cosiddetto federalismo fiscale, deriva dall’avere una struttura statale più flessibile e meno costosa, che garantirebbe un’accelerazione immediata in termini di sviluppo, a condizione che gli enti locali abbiano piena autonomia finanziaria di entrata e di spesa. L’esempio più significativo è quello della povera Andalusia, che ha avuto una crescita superiore alla ricca Catalogna quando la Spagna ha adottato un sistema federalista. A parte la valutazione generalmente positiva dell’impatto sull’economia locale del federalismo, inteso come assetto istituzionale, non possiamo dire che l’idea federale sia considerata in funzione della giustizia sociale, se non nella prospettiva riformista delineata da Pierre-Joseph Proudhon intorno alla metà del XIX secolo.
Egli parla del principio federativo come sintesi di autorità e libertà. In un sistema federale, lo Stato federale è il promotore, non l’esecutore dei servizi d’interesse collettivo. Le sue attribuzioni sono ridotte al ruolo di iniziativa generale, nonché di mutua garanzia e sorveglianza. Può dare il primo impulso, ma l’azione, nella sua pienezza e continuità, spetta agli Stati federati. Il sistema federale, secondo Proudhon, è la salvezza del popolo, per due ragioni. Limitando le attribuzioni del potere centrale, ne argina l’invadenza. Ampliando l’autonomia delle comunità locali, ciascuno si sente più partecipe della vita pubblica e meno incline a idolatrare i capi. Ma la struttura istituzionale non è che un aspetto del federalismo, che va concepito in maniera integrale, anche nelle sue implicazioni economiche e sociali. Il principio federativo - inteso come mutualità, cooperativismo, partecipazione dei lavoratori agli utili dell’azienda - deve essere applicato alla produzione, agricola e industriale, e al settore dei servizi. Non solo alla gestione di infrastrutture (strade, canali, infrastrutture), ma anche alle attività terziarie di pubblico interesse (credito, assicurazioni, istruzione). Tale programma politico Proudhon lo definisce federalismo progressivo. Gli intellettuali che si sono ispirati al suo pensiero, preferiscono parlare di federalismo integrale, per intendere l’applicazione dell’idea federale a tutti gli aspetti della politica, oppure federalismo sociale, per evidenziare l’importanza attribuita dal socialista Proudhon alla riforma economica, rispetto ad altri intellettuali, in genere liberali, che limitano il federalismo ai suoi aspetti istituzionali. Nel pensiero giuridico il concetto di federalismo sociale - talvolta definito cooperativo o solidale - compare nelle cosiddette teorie dinamiche del federalismo, che studiano il processo federale più che gli assetti federali. Esse partono dalla crisi del concetto tradizionale di sovranità, i cui contenuti tendono ad essere ripartiti a tre livelli (istituzioni sopranazionali, Stato, regioni), per analizzare l’applicazione del principio di sussidiarietà, secondo cui, nelle materie di legislazione concorrente, ha priorità d’intervento l’ente territoriale più vicino ai cittadini, ferma restando l’altrui competenza qualora risulti più efficace ed efficiente. In tal senso, il federalismo sociale sembra perdere il contenuto progressista di Proudhon e limitarsi al problema di identificare quali materie, nell’ambito della sicurezza sociale, spettino a ciascun livello di esercizio della potestà normativa. Al tempo stesso, dall’esperienza di alcuni Paesi europei e africani, segmentati al loro interno dall’esistenza di varie comunità - etniche, linguistiche, religiose - nasce il tentativo di applicare l’idea federale alla società multirazziale. Tale regime viene definito democrazia consociativa. E’ una forma di autonomia per segmenti, in quanto le diverse componenti sociali, generalmente rappresentate in parlamento da partiti etnici e/o confessionali, si impegnano a governare congiuntamente il Paese stabilendo, in base a norme costituzionali o per prassi, alcune precise garanzie a vantaggio delle parti. Ad esempio: grandi coalizioni di governo, processi decisionali delegati ai vari segmenti sociali, veto di minoranza, criterio della proporzionalità sia nella rappresentanza politica che nelle nomine amministrative e nell’assegnazione di fondi pubblici. In teoria questo modello è profondamente diverso dal federalismo, che è autonomia per territori, non per segmenti sociali sganciati da un preciso riferimento territoriale. Le comunità federate, in un vero Stato federale, sono definite sulla base di sostanziali elementi di omogeneità etnica e culturale, sempre radicati in una storica bioregione d’appartenenza. Data la genericità del concetto di federalismo sociale e il suo utilizzo come sinonimo di federalismo solidale, espressione ancora più generica, non deve meravigliare se l’idea federale, idonea a tutelare le identità senza spezzare il vincolo tra sangue e suolo, finisca per ispirare anche modelli sociali che al contrario si basano, non tanto sulla distruzione delle identità etniche, quanto sulla disintegrazione del legame tra un popolo e la sua terra, unita al potenziamento delle suggestioni ideologiche che favoriscono l’adesione a valori cosmopoliti. Concludendo, tutti potremmo definirci federalisti e chiamare federalismo qualunque formula, istituzionale o sociale, che consente ad un organismo qualsiasi di presentarsi unitario preservando la diversità dei suoi componenti. Ciò significa che l’idea federale non è concettualmente autosufficiente, e tantomeno può definirsi rivoluzionaria.
Nell’uso corrente, necessita sempre di un attributo, per chiarirne il significato o circoscriverne l’applicazione, come nel caso del federalismo amministra-tivo, che identifica il decentramento attuato dalle leggi Bassanini, e federalismo fiscale che indica il progressivo ampliamento dell’autonomia finanziaria delle regioni e degli enti locali. Per quanto duttile possa rivelarsi l’idea federale, l’abuso del termine federalismo e l’abitudine a declinarlo settorialmente, finisce per svuotarlo, più che qualificarlo. Ma a volte un aggettivo non basta, come nel caso di federalismo sociale o solidale, che può alludere ad un ideale di giustizia - come il socialismo - o supportare un modello sociale funzionale al sistema mondialista - come la società multirazziale. Tanto vale uscire dall’equivoco. Se vogliamo dare al federalismo una sostanza rivoluzionaria, se vogliamo farne uno strumento di lotta allo sfruttamento, e non solo una forma di ripartizione del potere, allora dobbiamo rinnovarne i contenuti, non gli attributi, e chiamarlo federalsocialismo.