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Il potere. Tra linguaggio e realtà

di Emanuele Liut - 23/11/2009

linguaggio e realtà_fondo magazineNe Le parole e le cose, citando come esempio le anomale “tassonomie” di Borges nella Zoologia Fantastica, Foucault introduce il termine delle eteròtopie, opponendole alle utopie. Qualche anno dopo, ne La logica del senso, Deleuze recupera, attraverso l’opera di Lewis Carroll e gli stoici, la visione del tempo come Aion, in contrapposizione a Kronos. Provando ad accomunare queste due coppie di concetti, si nota come esse possano essere messe in relazione e in diversa maniera prospettino un’idea molto simile, intersecandosi e diventando quasi la stessa cosa, se pur partono l’una da “presupposti spaziali” e l’altra da “presupposti temporali”.

Deleuze è molto chiaro nella ‘prima serie’ (”Sul puro divenire”) de La logica del senso: «l’incertezza personale non è infatti un dubbio esterno a ciò che accade, bensì una struttura obiettiva dell’evento stesso, in quanto va sempre in due sensi contemporaneamente, e dilania il soggetto secondo questa duplice direzione». Mentre Kronos si identifica con una visione progressiva del tempo, Aion è «il presente che si divide infinite volte in passato e futuro», momento inafferrabile e superficiale, ‘sempre essente’ ma che, allo stesso tempo, fugge se stesso in questa duplice direzione: «in quale senso? in quale senso?» si chiede spaesata la Alice di Carroll…

Ma sono ancor più terribili e aride le parole di Borges, riportate non a caso dal Deleuze: «Conosco un labirinto greco che è una linea unica, retta… la prossima volta che vi ucciderò, vi prometto questo labirinto che si compone di una sola linea retta e che è invisibile, incessante.»

L’Aion, rappresentato attraverso questa istanze paradossali, è perciò l’essenza ‘più pura’ del divenire: fugge, il presente, «dividendosi infinite volte in passato e futuro»; vera sorgente di timore e tremore – quindi la terrificità della Natura, la sua recondita ‘angoscia’.

L’Aion è, perciò anche, il momento del dionisiaco, la sua forza inquietante e distruttrice, e allo stesso tempo,  liberatrice e creativa; è l’accettazione del senso-non senso della temporalità ed è perciò aldilà del tempo, presente liberato, innanzitutto dalla cronologia.

Kronos che da parte sua rimanda alla linearità, col progredire circolare, narcotico, di eventi che si susseguono in punti neutri, senza né quantità né qualità. E’ facile arrivare da qui alle utopie come le concepisce Foucault: «Le utopie consolano, se infatti non hanno luogo reale si schiudono tuttavia in uno spazio meraviglioso e liscio; aprono città dai vasti viali, giardini ben piantati, paesi facili, anche se il loro accesso è chimerico»; “Ideale non realizzato” quindi, “non luogo”, attesa, promessa del domani piuttosto che libertà dell’oggi, oppure pesantezza e oppressione dal passato e rifiuto del divenire, nella sua folle essenza, nel suo fiume obliante in cui «mai tocchiamo la stessa acqua» (ma in cui l’acqua è sempre la stessa…). L’utopia assume qui un carattere negativo (per quanto bello apparentemente)- , e onirico, di sogno, di promessa: non è un termine ideale, né un Modello entro cui la società si riconosce e sul quale si plasma, ma è piuttosto –  in perfetta aderenza con la società di oggi sopraffatta, tutta intrisa di “marketing sognante” – , la mitizzazione dell’immagine; dell’illusorio, non dell’effimero.

Apparentemente meno chiaro è invece il concetto di eterotopia, che Foucault fa esordire ne “Le parole e le cose” ma che viene più specificatamente trattato nella conferenza tunisina “Des espaces autres” del 1967.
«Le eteròtopie inquietano, senz’altro perché minano segretamente il linguaggio, perché vietano di nominare questo e quello, perché spezzano e aggrovigliano i nomi comuni, perché devastano anzitempo la “sintassi” e non soltanto quella che costruisce le frasi, ma anche quella meno manifesta che fa “tenere insieme” (a fianco e di fronte l’une alle altre) le parole e le cose…». Non si tratta solamente di ’strutture linguistiche’ o epistemologiche che intervengono come rotture in una linearità che andrà di nuovo ad instaurarsi cambiando i suoi dogmi (penso qui a Kuhn): «esse rifiutano una collocazione temporale, non accettano una geografia». «Sono presenti in qualsiasi società» e fanno parte dell’esperienza dell’individuo, sono dei «contro-luoghi», «spazi di crisi e di condensazione di esperienza»; luoghi in cui la realtà stessa viene messa in gioco e viene liberata dai suoi fantasmi (o ‘regole’).

Le eteròtopie sono, per ciò, gli eventi che manifestano la fragilità del reale, celebrandola.

Sono dei luoghi reali che annunciano la vittoria dell’effimero (Foucault concepisce simbolicamente lo specchio come limite tra utopia ed eterotopia), sull’llusorio, sull’ideologia dominante, «sono quegli spazi che hanno la particolare caratteristica di essere connessi a tutti gli altri spazi, ma in modo tale da sospendere, neutralizzare o invertire gli stessi rapporti che essi stessi designano, riflettono o rispecchiano».

Foucault articola 6 principi indicativi delle eteròtopie. In particolare, il quinto principio mostra che ogni eterotopia è fondata su un «sistema d’apertura e di chiusura che al contempo la isola e la rende penetrabile».

Il dritto e il rovescio allo stesso tempo: «E’ un istanza a doppia faccia, ugualmente presente nella serie significante e nella serie significata. E’ lo specchio» – ,così, allo stesso modo, nel Deleuze della Logica del senso viene in luce come il non-senso (e quindi di traverso il tema follia/normalità) sia in rapporti molto stretti con il senso stesso e che quest’ultimo costituisca allo stesso modo una parte necessaria sul quale l’altro si fonda o trova appoggio per la sua validità «opponendosi all’assenza di senso ed effettuando così la donazione di senso». Non solo perché la validità ha bisogno di un’invalidità alla maniera hegeliana che risolveva l’antitesi in un assoluto. Qui la casella vuota, «occupante senza posto», ovvero la «x», è l’elemento insopprimibile, il ‘motore’ stesso del divenire paradossale degli eventi, ma non un’istanza predeterminata, né, tanto meno, ‘rassicurante’

Le eterotòpie sono infine il movimento di rottura con la visione del tempo come kronos: «l’eterotopia si mette a funzionare a pieno quando gli uomini si trovano in una sorta di rottura assoluta col loro tempo tradizionale». Non semplicemente la “durata psicologica” di Bergson in contrapposizione al “tempo dell’orologio” ma appunto rottura dal loro tempo tradizionale, inteso in senso ‘culturale’: in questo modo l’eterotopia «sfugge a ogni localizzazione, ma è pur presente in ogni luogo», in ogni società. E’ momento di rottura attraverso il paradosso, istante in cui si inaridisce la parola stessa. «Come se gli eventi godessero di un’irrealtà che si comunica al mondo attraverso il linguaggio» , dice Deleuze. Momento in cui risalgono le profondità, trionfo della superficie, rivincita del dionisiaco sull’appollineo. Oppure aion, presente enigmatico: “marmellata sempre alla vigilia e all’indomani, mai oggi”…

Da qui la trasparenza, invisibilità, inafferrabilità del ‘potere’ (tema centrale nell’opera di Foucault) che si va così fortemente a collegare al tema del senso (tema propriamente deleuziano) , attraverso le problematiche dell linguaggio. Ogni interpretazione è infatti in ritardo rispetto al ‘tema concreto’, all’evento ’sottostante’: il linguaggio stesso è in sé un meccanismo di potere, una sua espressione, un suo strumento.

E’ emblematica in questo la frase dell’Humpty Dumpty di Carroll: «Quando dico una parola essa significa esattamente ciò che voglio che significhi, ne più ne meno, l’importante è capire chi è il padrone»: è evidente qui la disìmmetria, la frizione, connaturata alle interazioni, linguistiche ma anche di altro tipo. Guardando alla Genealogia della morale, questa frase di Carroll fa venire in mente il ‘buono’ come concetto di derivazione aristocratica che ci illustra Nietzsche nel quinto aforisma del capitolo “Buono e malvagio, buono e cattivo”: «[...]è di non scarso interesse stabilire come in quelle parole e in quelle radici, che hanno il significato di “buono”, traluca ancora, in guisa multiforme, la sfumatura principale riguardo alla quale i nobili si sono sentiti appunto uomini di rango superiore». Anche qui, – se pur il discorso nietzscheano si apra poi a tematiche completamente differenti rispetto a quelle dei due ‘philosophes’ che qui consideriamo – ,  si affronta la questione del senso come ‘imposto’ (Deleuze scrive, rovesciando i termini, prodotto), non quindi predeterminato, instaurato nello specifico – e attraverso al –  “ambito di potere”, in cui prendono luogo gli eventi come rapporti di forza: del linguaggio derivante e allo stesso tempo funzionario dei meccanismi di potere, contrattuali o meno espliciti, che costituiscono il mondo con cui, volenti o nolenti, dobbiamo avere a che fare.  Nello stesso senso la tematica del sapere-potere di Foucault si identifica, specularmente, come il rapporto tra il linguaggio e la realtà, spazio che si estende microfisicamente, diventando lo spazio bianco in cui si muove il potere, in questo modo nuovamente concepito (discrezionalità).

Viene ora da chiedersi con quali tattiche il potere – inteso nel senso di Foucault e non identificato quindi solamente nell’apparato di stato o nel potere economico – ,  di una tecnica discorsiva, di un ’sapere’, si determina nei corpi e li forma secondo la sua immagine. E rientrano in queste tattiche le distinzioni buono-cattivo, normale-patologico, ad erezione del fragile edificio di difesa da ciò che è ‘male’, da ciò che è ‘folle’?

 

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