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Processi brevi. A caval donato…

di Stefano Vaj - 23/11/2009

giustizia_fondo magazineChi scrive difficilmente può essere accusato di aderire a quella “religione dei diritti dell’uomo” in cui si estrinseca uno dei principali dogmi – e tabù – della political correctness dominante a livello mondiale, in vista dello svuotamento delle sovranità popolari e del principio di non ingerenza, e dell’imposizione di un universalismo etnocida inaccettabilmente giusnaturalista, al di sopra ed al di là dei sistemi giuridici che la creatività culturale, il Volkgeist, delle varie comunità ci consegna. Sull’argomento ho persino scritto vari articoli ed un libro, Indagine sui diritti dell’uomo. Genealogia della morale (oggi integralmente online a http://www.dirittidelluomo.org), che si aggiunge alle poche voci eretiche in materia: Slavoj Žižek innanzitutto (Contro i diritti umani, Il Saggiatore 2006), Julien Freund (in particolare nella prefazione al mio libro), Alain de Benoist (Oltre i diritti dell’uomo, Il Settimo Sigillo 2004), Eric Delcroix, Guillaume Faye...

Molti delle voci critiche si concentrano d’altronde su quella che viene giustamente considerata la strumentalità e l’ “ipocrisia” che caratterizza tipicamente l’invocazione dei diritti dell’uomo e l’attività delle organizzazioni ed istituzioni che se ne occupano, a cominciare appunto dal Consiglio d’Europa, istituzione regionale creata nel 1949 per stabilizzare i regimi occidentali in modo ben più invasivo di quanto non fosse possibile all’ONU dell’epoca, sulla base di una apposita Convenzione che all’art. 17 espressamente esclude qualsiasi possibile efficacia “liberale” della dichiarazione stessa, statuendo che “nessuna disposizione della presente Convenzione può essere interpretata come implicante il diritto per uno Stato, gruppo o individuo di esercitare una attività o co­piere un atto mirante alla distruzione dei diritti o delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione o porre a questi diritti e a queste libertà limitazioni maggiori di quelle previste in detta Convenzione”. Cosìcché, come alcuni dissidenti hanno avuto modo di  sperimentare sulla propria pelle, la Convenzione e la Corte che l’amministra protegge in sostanza… i suoi propri partigiani, in modo non molto diverso da quello che, senza alcuna pretesa di universalità, necessità o “naturalità”, fanno gli ordinamenti positivi di qualsiasi regime. E se già il movimento comunista internazionale aveva in sostanza rinunciato ad una critica in linea di principio del concetto con la Costituzione sovietica del 1977, la caduta del muro e l’estensione della Carta a quarantacinque paesi, Federazione Russa compresa, ha in sostanza “chiuso l’argomento”.

Ciò detto, la storia ha le sue ironie. Proprio uno dei paesi dove la cappa “giusumanista” è più spessa, dove da oltre cinquant’anni è stata più assordante l’unanimità che invoca il dogma dei diritti “naturali” contro le libertà civili e l’ordinamento positivo e differenziato che ogni comunità è chiamata a darsi, si assiste ad una curiosa rimessa in discussione del principio.

Se mandare i cacciabombardieri e i marines a cancellare interi paesi quando gli interessi economici e geopolitici coinvolti trovano conforto più o meno fondato nella retorica dei Diritti dell’Uomo era perfettamente accettabile  anche per i più “buonisti” tra i politicanti nostrani, ecco che l’elementare questione della illecita discriminazione positiva di un credo religioso negli istituti educativi pubblici della Repubblica porta taluni a dichiarare che degli impegni internazionali dell’Italia, e della giurisdizione di una Corte cui l’Italia stessa si è volontariamente sottoposta, ben può essere fatto strame (“possono morire”, ha dichiarato coloritamente il ministro deputato a schierare eventualmente l’esercito alle frontiere per difendere i crocefissi nazionali da analoghe, improbabili, invasioni). E, quando la Corte medesima, a suo tempo creata per legittimare possibili interventi ove sviluppi rivoluzionari avessero avuto luogo in un paese europeo, si era trovata pressoché impossibilitata a funzionare dai ricorsi contro… l’Italia, proprio per l’irragionevole durata dei processi amministrati dal suo sistema giudiziario, era già stato adottato, con soddisfazione di tutti, un provvedimento cosmetico, in sostanziale violazione della Convenzione, meglio noto come Legge Pinto, che ha finito per precludere l’accesso alla suddetta Corte Europea dei Diritti dell’Uomo attraverso un “rimedio interno” sostanzialmente fittizio ed a sua volta di durata inaccettabile: la tua causa è durata dodici anni? ricorri ad una corte d’appello diversa da quella in cui si è svolta la causa, aspetta quanto  necessario, e forse ti sarà liquidata una manciata di euro con cui potrai al più pagare parte delle spese legali necessarie per ricorrere….

Ed ecco che arrivano le complicate vicende personali di Silvio Berlusconi. Colpire Berlusconi per via giudiziaria è essenziale per i suoi avversari politici, che oggi si trovano non, come sostiene l’interessato, in una magistratura “di sinistra”, ma in una sinistra ridotta essenzialmente al ruolo di comitato elettorale di una corporazione giudiziaria autoreferenziale e munità di un’identità ed ideologia propria, costruite intorno alla volontà di difendere il suo potere e i suoi interessi coordinandosi con i “poteri forti”, nazionali e non, che possono vedere con favore le sue pratiche usurpatorie. Difendere Berlusconi dalle iniziative suddette – che di per sé sarebbero inevitabilmente destinate ad avere successo, dati investimenti investigativi illimitati ed uno scenario dove la pena è sostituita ed anticipata dal processo con le sue conseguenze cautelari, patrimoniali e mediatiche – è la indiscussa priorità dell’ambiente che lo sostiene. “What else is new?” direbbe qualcuno…

Ora, i giudizialisti (chiamarli “giustizialisti” suggerisce richiami alla “giustizia”, o magari al…  peronismo, che non sembrano particolarmente pertinenti) hanno indubbiamente segnato un punto a favore con la dichiarazione di incostituzionalità del famoso, o famigerato, lodo Alfano, su cui abbiamo già avuto modo di intrattenerci in queste pagine.

Entri allora la “ragionevole durata del processo”, che sarebbe invero stata da tempo imposta dalla insostenibile, imperterrita, spudorata violazione di una convenzione internazionale che pure nessuno in Italia si sognerebbe mai di denunciare, proponendo coerentemente l’uscita dal Consiglio d’Europa, magari per il gusto di imporre immagini di suppliziati appese in classe o di continuare con processi “ergastolari”, in cui si può essere costretti a entrare (perché imputati, o per far valere un proprio diritto), ma da cui si rischia di non uscire mai più, ed in cui ci si arrabatta come con una malattia cronica, in una successione di battaglie vinte o perse che non avvicinano che marginalmente ad una possibile fine della guerra. Gusto che, sia detto una buona volta, resta francamente discutibile del tutto a prescindere dal fatto che il contrario possa servire interessi particolari o pretesi principi “eterni ed universali”.

Giacché, per limitarci qui agli interessi particolari suddetti, che sono innegabilmente serviti a mettere in agenda i “processi brevi”, diventa davvero imbarazzante sostenere che sulla base dell’esigenza di continuare procedimenti nei confronti di Berlusconi possa essere di nuovo e specularmente invocata la resistenza sino all’ultimo uomo (sottinteso “ultimo uomo altrui”: “possono morire tutti” suona anche a sinistra molto meglio di “possiamo morire tutti”…) in difesa in questo caso del nostro malcostume, disservizio, cancro giudiziario.

Un malcostume in cui la sanzione penale – che l’inefficienza, la parzialità e il buonismo formale rendono difficile da somministrare secondo le regole – è stata delegata all’arbitrio ed ai poteri persecutori di un pubblico ministero che non risponde né verso l’alto (come nel caso lo stesso sia nominato) né verso il basso (come nel caso lo stesso sia eletto); alla brutalità ed alla indifferenza poliziesca (Cucchi e Blefari Malazzi docent); alla “giustizia” approssimativamente ed arbitrariamente amministrata dagli altri reclusi sulla base dei loro pregiudizi o semplicemente dalla invivibilità delle carceri. Ove il ricorso alla sanzione penale e soprattutto al suo inasprimento – il numero delle possibili aggravanti è  ormai  tale da qualificare, secondo alcuni calcoli, almeno il cinquanta per cento dei reati  commessi, e ne vengono proposte di sempre nuove, per di più correlate in molti casi alla ricostruzione inquisitoriale delle “finalità” con cui il reato stesso sarebbe stato commesso –  è regolarmente brandito dal legislatore di destra e di sinistra nel più puro stile delle grida manzoniane, senza alcun riguardo per considerazioni elementari di economia del diritto e politica legislativa. Dove il processo civile viene devastato da misure “produttivistiche” sempre più draconiane per le parti, i loro difensori, e la qualità delle decisioni (cfr. l’abolizione dei pretori e la generalizzazione del giudice monocratico in primo grado…), senza che il mancato rispetto della norma processuale sia in alcun modo sanzionato, o sia minimamente richiesta al giudice di giustificare il mancato rispetto dei termini preposti alle sue attività, documentando nel caso  specifico il “carico di lavoro” cui la categoria con il miglior contratto collettivo d’Italia e con il minor numero di morti da superlavoro ama nel suo insieme comodamente richiamarsi. Dove la giustizia tributaria quando dopo tempi biblici si degna di pronunciarsi risulta sempre più succube al principio del “fare cassa” alla faccia del principio della legalità tributaria. Dove si strilla per l’ “indipendenza della magistratura” laddove l’ineguagliato grado di insindacabile controllo del sistema giustizia che questa esercita ci consegna, a fronte di spese identiche alla media europea, al centocinquantesimo posto al mondo per la rapidità delle decisioni, mentre il pregio delle stesse – meno soggetto di per sé a misurazione – non è certo unanime constatazione quotidiana dei giuristi…

O vogliamo ricordare lo scenario dei boss mafiosi rilasciati, magari da parte di una corte di cassazione che per una volta fa il suo mestiere, e dei sostituti procuratori che invece di essere linciati per gli errori o l’incompetenza o gli abusi o i ritardi che provocano tale rilascio e talora la vanificazione di milioni di euro di attività  processale ed investigativa, vedono media compiacenti raccogliere le loro dichiarazioni “indignate”?

In questo senso, il disegno di legge sui processi brevi rappresenta comunque un (timidissimo) passo in una direzione non più “lassista”, non più “garantista”, ma semplicemente meno grottescamente kafkiana per il sistema italiano. A cominciare dal fatto di concernere inevitabilmente, e in primo luogo, anche il processo  civile, amministrativo e tributario, in cui è in primo luogo colui che esercita l’azione a subire il danno dalla lunghezza del processo.

Si tratta di un provvedimento perfetto? No.

Per esempio, fuori dal campo penale, il disegno di legge riduce ad un quarto (di che?) il risarcimento che può essere richiesto dalla parte soccombente – come se in fin dei conti questa abbia meno diritto a veder speditamente deciso il caso che la riguarda. Ancora, il risarcimento è subordinato ad una istanza con cui la parte faccia inutilmente presente al giudice “ehi, c’è qualcuno in casa? vorrei che il mio processo fosse deciso…”, e ad una “data di scadenza” di sei  mesi dal ritardo (se lo Stato deve sbrigarsi, il cittadino-utente molto di più, in mancanza di che, “passata la festa, gabbato lo santo”). Zero assoluto poi in termini di quella responsabilità civile del giudice – pur espressamente richiesta dal referendum popolare che insieme ai fatti di Sigonella ha creato il presupposto per la rimozione per via giudiziaria del partito socialista dal panorama politico italiano –, foss’anche in sede di rivalsa da parte di quello Stato che quale datore di lavoro è chiamato a pagare i danni dei suoi inadempimenti con i soldi del contribuente.

Ma tornando agli aspetti penali, in cui ragionevolmente è il processo stesso ad essere estinto ove lo Stato non riesca, per la colpevole inerzia o disorganizzazione dei suoi organi, ad esercitare la potestà punitiva in termini accettabili, i sospetti di incostituzionalità strumentalmente avanzati dalle parti interessate sono probabilmente fondati. L’idea ad esempio che chi è accusato di un reato più grave – o semplicemente più “di moda” in rapporto a qualche preoccupazione demagogico-forcaiola del momento – debba vedersi riconosciuto un minore, e non un maggiore, diritto ad una rapida decisione sulle  accuse che lo concernono, e di cui ha altrettanta probabilità di essere innocente quanto chi è accusato di un reato più dozzinale, non si può esattamente dire che corrisponda al senso comune, prima ancora che alle altisonanti e disattese proclamazioni della nostra carta fondamentale.

Altre preoccupazioni, perfettamente legittime, che sono riflesse dai limiti di applicabilità dell’estinzione del processo previste dall’attuale formulazione del DDL, derivano semplicemente dalle conseguenze sociali della curiosa teoria per cui uno Stato che tuttora si arroga il diritto di sparare addosso a chi si presenta alla luce del sole e in divisa alle proprie frontiere per violarle, dopo aver annunciato tale intenzione inoltrando  attraverso i canali diplomatici l’apposita dichiarazione prevista da una tradizione secolare (o se è per questo di imporre sanzioni penali ai propri cittadini che espatriano senza aver prima debitamente ottenuto un documento valido a tale scopo), non avrebbe la prerogativa di proteggere il proprio territorio da chi lo penetri clandestinamente stabilendovisi senza il suo consenso. Ma anche qui, sembra improprio gravarne il sistema penale, e buttare a mare la serietà e funzionalità del medesimo in vista di una dubbia e limitata repressione delle conseguenze di tale (di nuovo giusumanista!) teoria rischia di risultare un rimedio peggiore del male.

Una magistratura che dovrebbe essere teoricamente compiaciuta dall’“alleggerimento” del suo lavoro – ma prima ancora del suo inconcepibile arretrato, con una chance irripetibile di mettere ordine per il futuro in un sistema oggi irrimediabilmente ingorgato, in cui l’impossibilità di smaltire il pregresso  preclude ogni opportunità di gestire correttamente il lavoro corrente – grida allo scandalo infine con riguardo ai diritti delle vittime dei reati, come se la rappresentanza di tale interesse più che al cittadino comune o al legislatore spettasse alla magistratura, anziché il dovere di assicurare il rispetto delle leggi da questi volute. Ebbene, sarebbe davvero interessante fare un sondaggio tra le vittime stesse, contando che mentre ipotetiche (e per lo più non scontate) pene detentive o pecuniarie non le ristorano in alcun modo del danno subito, il moralistico sistema della pregiudiziale penale fa sì che sia impossibile ottenere in qualsiasi sede il risarcimento del danno sino a che il processo penale non sia deciso o estinto, cosicché le stesse vittime sono le prime a soffrire insieme all’imputato stesso per la colpevole eternità del processo italiano – e per l’impossibilità di agire indipendentemente nei confronti del responsabile.

Se sarà introdotto il “processo breve” non sarà di conseguenza accertato se Berlusconi ha o no corrotto i giudici in un processo contro De Benedetti che probabilmente in un paese normale avrebbe dovuto vincere senza alcun esborso di denaro? Pazienza. La “ragion di Stato” o “di Partito” nella Repubblica italiana ha sinora giustificato ciò che resta legittimo considerare tra le peggiori schifezze verificatesi nel nostro paese. Per una volta, non ci pare il caso di biasimarla (o di biasimare il pur “peloso” rispetto dell’Italia ai suoi impegni internazionali), per l’introduzione di una riforma dovuta. O viceversa di invocarla affinché tale riforma venga rimandata o soppressa, alla faccia di elementari principi di civiltà giuridica.

 

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