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Dobbiamo sanare la spaccatura introdotta nel mondo dal dualismo cartesiano

di Francesco Lamendola - 26/11/2009

Una spaccatura dolorosa attraversa la coscienza dell’uomo moderno: quella fra il suo corpo e la sua mente; e, per effetto di essa, quella fra lui stesso e il mondo circostante, percepito solo come materiale da costruzione per le sue opere e come discarica per i suoi rifiuti.
La spaccatura risale molto indietro nel tempo, ma non così indietro come taluni vorrebbero far credere. Si dice che il suo primo teorico sia stato Platone, il quale affermava che «il corpo è come il carcere, anzi, come la tomba dell’anima», ma non è vero. Platone aveva una concezione idealistica della realtà, ma, all’interno di essa, non disprezzava il corpo né, in genere, la dimensione fisica. Pur considerandola solo come un pallido riflesso della realtà vera, quella delle Idee, era persuaso che essa potesse costituire il primo gradino per l’ascesa dell’anima verso le dimensioni superiori. Sosteneva, infatti, che noi cominciamo a vedere realmente le cose, solo quando agli occhi del corpo siamo in grado di sostituire la visione interiore.
Dopo di  lui, né Aristotele, né Tommaso d’Aquino hanno fondato le rispettive concezioni filosofiche sul dualismo fra spirito e materia. Tommaso, in particolare, riprendendo il pensiero di Aristotele e opponendosi al pessimismo agostiniano, ha posto la distinzione fra l’ordine naturale e l’ordine soprannaturale, ma senza svalutare il primo e, soprattutto, senza porre i due ambiti in contrasto insanabile; al contrario, evidenziando il legame che li unisce, completandosi necessariamente il primo nel secondo. Così, ad esempio, nella creatura umana vi sono due nature, quella terrena e quella ultraterrena: la prima si configura nella dimensione del cittadino, la seconda in quella del credente. Similmente, due sono i poteri universali che sovrintendono a questa doppia finalità dell’uomo: l’Impero, per assicurare pace e giustizia nella sfera materiale; la Chiesa, per guidare le anime verso la salvezza eterna.
Non c’è contrasto, non c’è conflitto tra le due sfere; e, se vi fosse, l’uomo non dovrebbe fare altro che interpellare la propria coscienza. Concezione illuminata e comprensiva della natura umana nei suoi molteplici aspetti; concezione che può piacere o non piacere, ma che, innegabilmente, possiede una sua dignità e che, per secoli, ha assicurato stabilità spirituale all’Occidente, prima che l’avvento dello spirito borghese - quello, sì, per sua essenza, squilibrato e disarmonico: l’«uomo ad una dimensione» di cui parlava Marcuse - distruggesse le basi del paradigma premoderno e gettasse i germi della pazzia nel mondo.
Noi siamo figli di quello squilibrio e di quella pazzia, che Cartesio ha codificato e, per così dire, ufficializzato, nella netta separazione della «res extensa» e della «res cogitans»: ma tale schizofrenia era già implicita nella visione laica e immanente del mondo, propria del pragmatismo e dell'utilitarismo borghesi.
Solo che, non paghi della aberrante lacerazione istituita nella realtà dal razionalismo cartesiano, ci siamo spinti ancora più in là - sempre, beninteso, chiamando pomposamente «progresso» il nostro procedere obnubilato e autodistruttivo -, pervenendo alla conclusione che non esiste alcuna «res», alcuna «sostanza» in quanto tale, capace di fare da supporto alla molteplicità dell'esistente; ma che si trattava solo di un indebito residuo dalla vecchia metafisica, vale a dire un inutile aggeggio di una scienza morta e sepolta.
E così, eccoci arrivati al presente.
Incapaci di vivere in pace con noi stessi e col mondo, tormentati da un’ansia compulsava di azione e di manipolazione spesso fine a se stessa, accecati dagli illusori trionfi della scienza e della tecnica, siamo piombati nella più deplorevole ignoranza di noi e dei mille fili che legano la nostra esistenza a quella del mondo intero.
Non abbiamo più fiducia in noi stessi, ma ne abbiamo riposta anche troppa nelle macchine prodotte dalla nostra tecnologia: ed è questo miscuglio infernale di disillusione e di progressivismo ottuso, che ci sta portando irreparabilmente verso il collasso morale, prima ancora che giungiamo all'ultima fase di quello materiale.
L’uomo moderno non si fida più di se stesso: si sente una creatura indegna (Calvino), casuale (Darwin), dominata da pulsioni oscure e distruttive (Freud); ma, al tempo stesso, con caratteristica mancanza di misura e di ragionevolezza  - che è altra cosa dal Logos strumentale e calcolante, da lui tanto sbandierato - crede che tutto finirà bene, solo perché è riuscito a predisporre dei congegni tecnologici altamente sofisticati sia per sveltire il proprio lavoro e i propri svaghi, sia per combattere talune malattie, sia per distruggere, all’occorrenza, i propri nemici.
Tuttavia, la crescita esponenziale di una tecnologia violenta e potenzialmente distruttiva, mediante la quale in qualunque momento, anche per un banale errore informatico, saremmo in condizione di autodistruggerci, non può in alcun modo dirsi casuale e i suoi effetti perversi, quindi, non potrebbero venire neutralizzati con una semplice correzione di rotta.
Tutto ha inizio con la divisione del sapere in compartimenti stagni, propria del diciassettesimo secolo, e della esaltazione e della assolutizzazione scriteriate del sapere scientifico-matematico rispetto a ogni altra forma di conoscenza del reale, che risale a Galilei; nonché alla aberrante dottrina che il sapere deve essere finalizzato essenzialmente al dominio sul mondo («knowledge is power» di Francesco Bacone).
Una volta infranta l'unità del sapere e una volta data carta bianca agli scienziati nel perseguimento di una «loro» verità, indifferente al quadro d'insieme del reale e svincolata da ogni norma etica condivisa dalla società, la via era tracciata e nessuno avrebbe ragione, ora, di meravigliarsi, se gli apprendisti stregoni ci hanno sospinto ad un passo dall'olocausto nucleare e da un inquinamento irreversibile e fatale dell'intera biosfera terrestre.
Scrive Gregory Bateson nel suo celebre «Mente e natura» (titolo originale: «Mind and Nature. A Necessari Unity,», 1979; traduzione italiana di Giuseppe Longo, Milano, Adelphi, 1984, 202, pp. 285-86):

«Nella riunione del Committee on Educational Poliicy del 20 luglio 1978, osservai che gli attuali processi educativi sono, dal punto di vista dello studente, una “fregatura”. In questa nota spiegherò il mio punto di vista.
È una questione di obsolescenza. Mentre buona parte di ciò che le università insegnano oggi è nuovo e aggiornato, i presupposti o premesse di pensiero su cui si basa tutto il nostro insegnamento sono antiquati e, a mio parere, obsoleti.
Mi riferisco a nozioni quali:
a) Il dualismo cartesiano che separa la “mente” dalla “materia”.
b) Lo strano fiscalismo delle metafore che usiamo per descrivere e spiegare i fenomeni mentali: “potenza”, “tensione”, “energia”, “forze sociali”, ecc.
c) Il nostro assunto antiestetico, derivato dall’importanza che un tempo Bacone, Locke e Newton attribuirono alle scienze fisiche; cioè che tutti i fenomeni (compresi quelli mentali) possono e devono essere studiati e valutati in termini quantitativi.
La visione del mondo - cioè l’epistemologia latente e in parte inconscia – generata dall’insieme di queste idee è superata da tre diversi punti di vista:
a) Dal punto di vista pragmatico è chiaro che queste premesse e i loro corollari portano all’avidità, a un mostruoso eccesso di crescita, alla guerra, alla tirannide e all’inquinamento. In questo senso, le nostre premesse si dimostrano false ogni giorno, e di ciò gli studenti si rendono in parte conto.
b) Dal punto di vista intellettuale, queste premesse sono obsolete in quanto la teoria dei sistemi, la cibernetica, la medicina solistica, l’ecologia e la psicologia della Gestalt offrono modi manifestamente migliori di comprendere il mondo della biologia e del comportamento.
c) Come base per la religione le premesse che ho menzionato divennero chiaramente intollerabili e quindi obsolete circa un secolo fa. Dopo ‘avvento dell’evoluzione darwiniana, ciò fu espresso in modo piuttosto chiaro da pensatori come Samuel Butler e il principe Kropotkin. Ma già nel Settecento William Blake capì che la filosofia di Locke e di Newton poteva generare solo “tenebrosi mulini satanici”.
Ogni aspetto della nostra civiltà è necessariamente spaccato in due. Nel campo dell’economia ci troviamo di fronte a due caricature esagerate della vita – quella capitalista e quella comunista – e ci viene dettocce dobbiamo schierarci per l’una o per l’altra di queste due mostruose ideologie in lotta. Nella sfera del pensiero, siamo lacerati tra le varie forme estreme di negazione dei sentimenti e la forte corrente del fanatismo anti-intellettuale.
Come nella religione, le garanzie costituzionali della “libertà religiosa” sembrano favorire esagerazioni simili: uno strano protestantesimo tutto secolare, una vasta gamma di culti magici e una totale ignoranza religiosa. Non è un caso che mentre da un lato la Chiesa cattolica sta rinunciando all’uso del latino, dall’altro la nuova generazione stia imparando a salmodiare in sanscrito!»

Quest’ultima affermazione di Gregory Bateson è sicuramente tale, da far arrabbiare i cultori di New Age e gli occidentali devoti di Krishna o di altre divinità del Pantheon induista.
Tuttavia, il punto non è se sia meglio salmodiare in sanscrito o in latino né stabilire, di conseguenza, se sia preferibile la fede in Krishna o in Gesù Cristo. Il punto è che, quando talune fondamentali e legittime esigenze spirituali dell’essere umano vengono violentemente cacciate dalla porta, si può stare certi che, nel giro di brevissimo tempo, esse faranno nuovamente la loro comparsa, passando dalla finestra: vale a dire, più o meno gravemente deformate.
Avere ignorato questo principio elementare dimostra soltanto la profonda ignoranza della natura umana propria della cultura scientista oggi dominante; la stessa che, con rabbiose campagne di disinformazione, vorrebbe dichiarare guerra (una guerra santa, evidentemente) a tutte le tendenze che essa giudica inappellabilmente, dall’alto della propria autoreferenzialità, irrazionalistiche, superstiziose e indegne dell’uomo moderno.
Sono passati ormai due secoli da quando il poeta William Blake denunciava l’esito nefasto della filosofia empirista di Locke, vale a dire la costruzione dei quei «tenebrosi mulini satanici» che sono le industrie e, ancor più, i laboratori scientifici della modernità, dove, fra le altre belle cose, si seziona il cervello di animali vivi per vedere quanto di esso bisogna asportare per vederli morire, e si ottiene la nascita di nuovi individui dall’inseminazione di una femmina di topo con il patrimonio genetico di un’altra femmina. (Quest'ultimo ripugnante esperimento, realizzato con successo - si fa per dire - da alcuni scienziati giapponesi, è stato riferito, con l'immancabile tono di compiacimento, sul numero 141 di luglio 2008 della rivista «Focus», tipica rappresentante della disinformazione scientista oggi imperante, che viene spacciata per divulgazione scientifica).
Non c'è dubbio: non ritroveremo la pace con noi stessi e non ritroveremo la pace fra noi e il mondo, finché non saremo riusciti a sanare la spaccatura introdotta nel mondo dal dualismo cartesiano, e finché non avremo riconosciuto nello spirito borghese - materialista, pragmatico, utilitarista, aggressivo e incapace di vedere lo spettacolo della bellezza, così come di provare solidarietà e compassione per gli altri esseri viventi - il più grande nemico di noi stessi, del nostro benessere, della nostra stessa sopravvivenza come specie biologica.
Ecco perché non possiamo non dirci nemici dello spirito borghese, che riduce tutto - cose, valori, sentimenti - al ruolo di mezzi per il soddisfacimento di un fine meramente egoistico e, per di più, costituzionalmente insaziabile e illimitato.
Dante sapeva bene quel che diceva, allorché indicava nella lupa la più pericolosa delle tre fiere, e nella «cupiditas» il più grande peccato dell'uomo, contro Dio e contro se stesso.