Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Ma tu dov’eri, quando invasero il Tibet?!

Ma tu dov’eri, quando invasero il Tibet?!

di Giuliano Corà - 26/11/2009


Image

Esattamente sessant'anni fa, verso la fine del 1949,  con il discorso di Mao sui "territori separati dalla madrepatria", virtualmente la Cina comunista poneva fine all'indipendenza del Tibet, anticipando l'invasione vera e propria degli anni successivi, che portò a massacri, distruzioni, annientamenti di corpi e menti. Io sono nato nel 1950. Mai, nella mia infanzia e nella mia adolescenza, qualcuno mi ha parlato del Tibet. L’unico ricordo che ne ho si riferisce ad un’avventura di Topolino (probabilmente risalente alla seconda metà degli anni Cinquanta), in cui l’eroe disneyano si reca in quella terra lontana e fuori dal mondo non so più per quale motivo. Ho vaghissimi ricordi di quella storia. Strani abitanti, sempre sorridenti, forse un po’ tonti e piuttosto rozzi, con buffi cappelli, e strani animali pelosi, gli yak. In particolare mi colpì la curiosa abitudine di offrire agli ospiti il tè con burro di yak. Ricordo che mi affascinò talmente che tentai di riproporla ai miei familiari, ripiegando naturalmente su casereccio burro di vacca. A me piacque molto, ma a loro no, e l’esperimento finì subito. Mi piacerebbe moltissimo rileggerla.
Nel 1959, il Dalai Lama fuggì in India, e il destino di quella nazione si compì: ciò che accade oggi è solo l’ennesima tappa di una lunghissima agonia. Avevo nove anni, vivevo in una famiglia colta, informata, laica, ‘di sinistra’, avevo libri e giornali a disposizione, ma ancora non sentii nulla sul Tibet, nemmeno negli anni successivi. Dieci anni dopo, scesi in strada anch’io, assieme a decine di migliaia di miei coetanei in tutto il mondo, agitando il Libretto Rosso, e inneggiando al Presidente Mao. Nei nostri Larari, il suo ritratto stava accanto a quello di Stalin. Non sapevamo nulla, non capivamo niente, ma ci era stata data una promessa, ci era stato promesso un sogno, e noi lo inseguivamo ciecamente, e spietatamente. Continuai a non sentir parlare del Tibet. O forse qualche notizia sì, ci arrivò, che la Cina l’aveva invaso, cacciando i monaci dai loro monasteri polverosi e portando il sol dell’avvenire tra le nebbie del feudalesimo teocratico. ‘Ben gli sta – commentavamo – a quei primitivi, così finalmente scoprono la civiltà’. Del resto, Robespierre non ha forse scritto che “bisogna rendere gli uomini felici anche contro la loro volontà”? La mia beata ignoranza continuò, parallelamente alla mia militanza a sinistra, fiero combattente del Progresso contro i cascami della Storia.
Nel 1997 uscirono due film, Sette anni in Tibet, di J-J. Annaud e Kundun, di M. Scorsese. Il primo non andammo nemmeno a vederlo (‘le avventure di un nazista in Tibet: perversione su perversione!’), il secondo sì, ma solo perché ci si vedeva il Presidente Mao, e naturalmente facendo il tifo per lui. Alcuni anni prima, avevo cominciato a fare una scoperta: che, a voler essere sincero con me stesso, tutto quel parlare di materialismo storico e scientifico non mi interessava minimamente, che mi annoiava a morte, e che quel che sempre più intensamente mi tormentava era il problema della ‘salvezza’. Cominciai ad interessarmi di antropologia religiosa, trovando in quegli studi un senso di liberazione mai provato prima. Incontrai anche il buddhismo, naturalmente, ma ancora una volta non lo associai al Tibet. Fino – ebbene sì – fino alla preparazione delle Olimpiadi, alla rivolta ed alla repressione, fino a questo ultimo grido di dolore che da quelle montagne martoriate si è levato verso il mondo, svegliando anche le coscienze addormentate come la mia. Non cerco giustificazioni.
Tuttavia mi domando: perché? Io credo – lo credo ancora, nonostante tutto – che un’organizzazione sociale di tipo comunistico possa essere profondamente umana e giusta: dando ad ognuno secondo i suoi bisogni, chiedendo ad ognuno secondo le sue capacità, prendendo dalla Natura solo ciò che effettivamente serve, impedendo violenza e sopraffazione dell’individuo sull’individuo. E quanti siano i punti di contatto tra questo visione del mondo e quella buddhista, ognuno lo può vedere da solo. Perché allora, è andata così? Perché è accaduto che una magnifica utopia si sia trasformata in una macchina di antiumana violenza? Ma soprattutto: perché nessuno mai ce l’ha mai detto? Perché nessuno ci ha mai detto la verità? Perché nessuno ci ha mai raccontato che dietro ai volti sorridenti che sfavillavano dalle pagine de La Cina stavano migliaia di monaci assassinati, di monache stuprate, cataste di saggezza bruciate? Perché nessuno ci ha mai spiegato che con tali orrori quell’utopia si stava suicidando, e stava distruggendo per le generazioni a venire la possibilità che qualcuno potesse ancora avere fiducia in essa? Perché? Cattivi Maestri, abbiamo avuto, sì, ma dello Spirito, non solo e non tanto della politica. Dei loro insegnamenti disonesti oggi paghiamo tutti le conseguenze, compresi i giovani senza più speranze e senza più sogni che dilapidano le loro esistenze in mille follie.