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Pensieri d'autunno, lungo il viale tappezzato di foglie multicolori

di Francesco Lamendola - 29/11/2009


Il viale dei bagolari, «Celtis australis», stamattina era un mare: un mare di foglie cadute, di colori stupendi: un tappeto sontuoso quanto potrebbe esserlo quello di un palazzo reale, fatto di scaglie luminose gialle, rosse, brune e arancio. Ciascuna di esse tratteneva ancora un poco di vita e di calore; ciascuna di esse tratteneva un ultimo respiro della bella stagione, un sussurro pieno di nostalgia dei lunghi giorni estivi.
Il piede avanzava su quel tappeto frusciante, spezzando sotto le suole il guscio dei frutti con un suono secco, che il silenzio perfetto del primo mattino accoglieva nel suo grembo, in religioso ascolto.
Poi, una bava di vento si è levata dalla sponda del fiume e ha investito il grande pioppo che ancora conserva gran parte della sua chioma d'un bel giallo dorato; e ad ogni soffio si portava via alcune decine di foglie, che volteggiavano lievi, prima di posarsi al suolo; e, per quante ne cadessero in continuazione, non si riusciva a notare una sensibile riduzione della chioma, così orgogliosa e splendente in questa ovattata fine di novembre.
Una fine nebbiolina velava l'orizzonte e lasciava intravedere l'argine del fiume, i campi, i vigneti, l'aguzzo campanile e le colline sovrastanti, come attraverso l'oblò di una nave in crociera lungo i malinconici mari delle alte latitudini, perennemente avvolti nella foschia e in una spessa cappa di umidità.
I colori caldi e vivi del mattino, nel pomeriggio svaniranno in un'ombra indistinta: e il giardino, che si spalanca davanti alle grandi vetrate, non offrirà alla vista altro che le solenni sagome degli alberi che si alzano verso il cielo, come alla ricerca dell'ultima luce morente, mentre il buio, più in basso, avvolgerà i cespugli e si spanderà ovunque, nascondendo il volto delle cose.
Niente è più malinconico di un tramonto d'autunno intriso di nebbia, quando il globo arancione del lampione pare un piccolo sole alieno smarrito nelle tenebre incipienti, e pare che oscure presenze lo stringano d'assedio da ogni parte.
Vengono alla mente gli stupendi versi di Dante («Inferno», II,  1-6):

«Lo giorno se n'andava, e l'aere bruno
toglieva li animai che sono in terra
da le fatiche loro; e io sol uno
m'apparecchiava a sostener la guerra
sì del cammino  e sì de la pietate
che ritrarrà la mente che non erra.»

E quegli altri, sempre del sommo poeta e giustamente famosi («Purgatorio», VIII, 1-6):

«Era già l'ora che volge il disio
ai navicanti e 'ntenerisce il core
lo dì ch'an detto ai dolci amici addio;
e che lo novo peregrin d'amore
punge, se ode squilla di lontano
che paia il giorno pianger che si more…»

Questo è un periodo dell'anno che induce alla riflessione, che invita alla solitudine e al raccoglimento di cui l'anima ha tanto bisogno. Le giornate brevi ci ricordano la brevità delle cose terrene, i crepuscoli precoci ci rammentano la sera della nostra vita che, presto o tardi, arriverà per tutti, e dovrà trovarci preparati.
Ci si sente piccoli, ci si sente fragili e inadeguati; i pensieri orgogliosi cedono il passo a un sentimento di modestia molto vicino all'umiltà. È il periodo dell'anno più propizio a rientrare in se stessi, a non sopravvalutare le proprie forze, e a ridimensionare le proprie ambizioni e le proprie aspettative.
È un periodo in cui si scivola facilmente verso la malinconia e, di qui, verso lo scoraggiamento; per alcuni, in una vera e propria china verso la depressione. Nelle sue forme più contenute, peraltro, la malinconia ha in sé una dolcezza tutta particolare, per cui non sempre le viene aperta malvolentieri la porta dell'anima, anzi, a volte essa è accolta quasi come una vecchia amica, con la quale è piacevole intrattenersi un poco a fantasticare.
D'altra parte, nelle sue forme più accentuate, la malinconia degenera in una pesantezza greve, che, se accompagnata dalla solitudine, finisce per generare tristezza e tormento, quasi un senso di claustrofobia e di soffocamento, ove l'anima rabbrividisce di paura.
Già, la solitudine: presenza universalmente detestata, ospite cui tutti vorrebbero serrare la porta, come alla malattia e alla morte. Ma è giustificata questa bruttissima fama della solitudine? E, soprattutto, essa è di un genere unico, o ve ne sono diversi generi?
A noi sembra che bisognerebbe almeno distinguere fra la solitudine materiale e quella spirituale.
Materialmente, sì, possiamo essere soli: e questa condizione ci può pesare alquanto, specialmente quando siamo sopraffatti da dispiaceri o preoccupazioni, e vorremmo una presenza amica con cui poterli condividere.
Dal punto di vista spirituale, invece, la solitudine non è mai così dura e assoluta, come talvolta siamo portati a credere. Una filosofia materialista ci ha abituati a sopravvalutare la nostra finitezza, la nostra individualità, il nostro ego; mentre è vero che noi non siamo realmente separati dal mondo che ci circonda, ma siamo legati ad esso, in senso profondo, da mille e mille fili.
Siamo legati a tutti gli esseri umani, alla loro parte più essenziale: sia quelli che abbiamo conosciuto in vita, sia quelli che non conosceremo mai sul piano fisico, perché vissero prima di noi o perché vivranno dopo di noi.
Siamo legati al passato e al futuro; siamo legati ai pensieri, alle emozioni, ai sentimenti di innumerevoli generazioni: da essi riceviamo impulsi, presentimenti, ispirazioni; da essi riceviamo suggerimenti e conforto, e, talvolta, ammonimenti e perfino minacce. Siamo immersi in un cosmo vivo, in una Mente universale, in cui ci muoviamo come i pesci nell'acqua: tutto ci parla, tutto ci corrisponde.
Ci crediamo separati, ma è soltanto una illusione. La nostra mente non è una stanza isolata e ristretta: è aperta su orizzonti infiniti, popolati da innumerevoli presenze: e non solamente umane. Anche la mente degli altri viventi è in corrispondenza con la nostra: ogni aspetto dell'universo è collegato con tutti gli altri, in un immenso fiume cosmico, in una corrente senza confini.
Vi sono poi le menti degli esseri spirituali - alcuni benevoli e compassionevoli, altri maligni o crudelmente persecutori - e vi sono i residui psichici, i banchi di pensiero vaganti nel mare dell'inconscio collettivo, che talvolta entrano in contatto con la nostra mente ed operano su di essa, vuoi con il nostro consenso, vuoi a nostra insaputa.
Noi sopravvalutiamo il nostro ego: è per questo che ci crediamo nettamente e irrevocabilmente distinti e separati da tutto il resto. Siamo come bambini che sanno poco, pochissimo, e che pur credono di sapere tanto; che credono di aver capito tutto, o quasi tutto, solo perché hanno perfezionato una scienza ed una tecnologia altamente sofisticate (ma è tutto relativo!), mentre ignorano le cose più importanti di se stessi, della propria essenza.
Questa sopravvalutazione dell'ego è tipica della cultura occidentale: non la si ritrova in Oriente; non, almeno, in forme così esagerate.
In Occidente, ogni artista che dipinge un quadro sente il bisogno di firmarlo; ogni astronomo che scopre un nuovo corpo celeste, si affretta a dargli il proprio nome; ogni alpinista che raggiunge una vetta inviolata, vi pianta in cima la bandiera, come per prenderne possesso. Raramente si pensa che tutto quel che riusciamo a condurre a buon fine, non è mai solamente opera nostra e, meno ancora, merito nostro: innumerevoli presenze vi hanno contribuito, comprese quelle di coloro che non ci sono più sul piano fisico.
Ancor più raramente si pensa che non è poi così importante incollare un cartellino con il proprio nome e cognome su ogni nuova realizzazione umana: perché, in fondo, nulla potemmo realizzare da noi stessi, se altri non avessero, in precedenza, raggiunto altre tappe intermedie, che ci hanno consentito di compiere l'ultimo tratto di strada.
La verità è che nessuno di noi deve partire da zero: tutti abbiamo sfruttato le conquiste, spirituali o materiali, di altri; e, pertanto, non dovremmo vantarci troppo dei risultati che riusciamo a raggiungere, perché non sono solo merito nostro, ma di tutte le generazioni che ci hanno preceduto e, in un certo senso, di tutto ciò che esiste.
La nostra visione è angustamente riduzionistica: vediamo solo la parte che ci interessa, e nella quale svolgiamo - o meglio, crediamo di svolgere - un ruolo da protagonisti. Dovremmo riscoprire l'importanza di una visione olistica del reale; dovremmo relativizzare l'importanza dell'individuo e rimettere in discussione il dogma materialista della separatezza.
Se davvero le cose fossero rigidamente separate, non si capisce come l'universo possa continuare ad esistere e come la natura manifesti un così alto gradi di armonia e di compenetrazione fra tutti gli elementi che la compongono. Non si capisce quale forza riesca a tenere unito il mondo, controbilanciando il continuo aumento di entropia.
Ma, soprattutto, non si capisce per quale mai ragione le cose si diano la pena di esistere; per quale mai ragione le creature viventi vengano al mondo; per quale mai ragione esse sopportino sofferenze, paure, fatiche e tribolazioni d'ogni genere: tutte, dal filo d'erba all'essere umano più evoluto che sia mai nato da seno di donna.
Che senso avrebbero tutte queste innumerevoli esistenze, se ciascuna fosse separata dalle altre; se ciascuna fosse solo un effimero viaggio dal nulla che precede il concepimento al nulla che sopraggiunge con la morte?
Sarebbe ogni cosa, dunque, frutto unicamente del caso? Ma il caso sarebbe mai capace di raggiungere un grado di organizzazione così complesso della realtà materiale, fino a produrre l'autocoscienza?
È difficile crederlo; tanto più che la stessa scienza materialista ammette che i tempi, geologicamente parlando, sono un po' troppo stretti perché la vita abbia potuto formarsi su dei pianeti, come il nostro, quasi ancora incandescenti; e che sono ancor più stretti, biologicamente parlando, per spiegare la comparsa e la rapida diffusione delle molecole organiche a partire dall'inorganico. Si sarebbe trattato di un caso talmente imprevedibile, talmente improbabile, da assomigliare molto, troppo, al contrario di ciò che si designa abitualmente con tale nome.

*   *   *
Questi sono i pensieri che la dolcezza dell'autunno suggerisce, lungo il viale tappezzato di foglie cadute dai caldi colori, simili a un frusciante tappeto di luce, mentre sempre nuove foglie si staccano dai rami e scendono ondeggiando fino a terra, ove si posano con un suono ovattato e malinconico.
Noi siano come le foglie, dice Glauco a Diomede nell'«Iliade»; e lo dice con profonda pena, come chi sia convinto che le foglie cadute non ritorneranno più, e che la loro breve vita non è stata altro che un inutile capriccio del destino.
Ma se, invece, così non fosse?
Se nessuna di queste foglie fosse vissuta invano, se nessuna fosse destinata veramente al nulla, e se nessuna germogliasse sul ramo per un caso meramente fortuito?
Se ogni foglia e ogni essere umano: se tutto, ma proprio tutto ciò che esiste, avesse uno scopo ben preciso?
Se ogni cosa fosse chiamata all'esistenza da una ragione valida e profonda; se ogni cosa - materiale e spirituale - fosse legata all'altra, per formare un tutto armonioso, come una stupenda sinfonia celeste?