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Carlo Gozzi: l’aristocratico commediografo avversario di Goldoni

di Fabrizio Legger - 01/12/2009

  

                                              

Mentre quasi ogni anno escono nuove edizioni delle commedie goldoniane, non ci sono editori che si decidono a ripubblicare in edizione integrale tutte le opere poetiche, drammatiche e narrative, del conte Carlo Gozzi, il più implacabile avversario che Carlo Goldoni, il celebre riformatore della commedia italiana, dovette affrontare nella sua lunga attività di uomo di teatro.

Carlo Gozzi nacque a Venezia nel 1720 ed ivi morì nel 1806. Appartenente ad una famiglia dell’aristocrazia veneziana (ma di origini friulane) che si trovava in piena decadenza a causa dei gravi dissesti finanziari provocati dalla dissennata amministrazione del patrimonio familiare, Carlo trascorse l’intera vita a Venezia, ad esclusione dei pochi anni vissuti in Dalmazia (dove prestò servizio militare per la Serenissima Repubblica del Leone) e dei viaggi che periodicamente effettuava in Friuli (dove la famiglia disponeva di proprietà terriere scarsamente redditizie), dedicandosi interamente alla poesia e al teatro.

Sin dall’adolescenza, Carlo mostrò una predisposizione naturale per la poesia e la letteratura: fu un accanito divoratore di libri (di cui la biblioteca paterna era ben fornita) e un appassionato lettore di poemi. Trascorse la sua adolescenza leggendo il Pulci, il Boiardo, l’Ariosto, il Tasso, il Marino, il Tassoni e il Bracciolini, rivelando un amore smisurato per la poesia eroicomica e giocosa del Seicento.

Ma limitarsi a leggere era davvero poca cosa per l’ispirato Carlo. I versi gli fioccavano dalle labbra e dalla penna con una facilità incredibile, tanto che in pochi anni, tra il 1735 e il 1740, mise in versi le favole de I discorsi degli animali del Firenzuola, ribattezzando l’opera col titolo di La filosofia morale. Poi, di suo, compose ben tre poemi: il Berlinghieri, il Don Chisciotte e il Gonella.

In quegli stessi anni incominciò anche ad interessarsi di teatro, andando a vedere gli spettacoli delle Maschere dell’Arte, con grande trasporto per le maschere veneziane di Pantalone, Arlecchino, Brighella e Colombina, che avrebbe poi reso immortali nelle sue commedie fiabesche.

Ma la casa dei conti Gozzi era simile ad un caotico porto di mare: Carlo e i suoi fratelli litigavano non solo tra loro, ma anche con la madre, la quale, invecchiando, divenne una donna arcigna e bisbetica, brontolona e petulante, mentre il padre si disinteressava della famiglia e sperperava i suoi averi correndo dietro alle sottane delle servette e delle cameriere di casa che, abilissime nel circuire quel vecchio e libidinoso satiro, avevano contribuito non poco a trasformare la dimora dei Gozzi in una sorta di osceno bordello.

Carlo, più di ogni altra cosa, amava le meditazioni poetiche e le buone letture: il suo ideale era quello dell’otium letterario, ma in casa Gozzi c’era davvero ben poca pace, e trovare una stanza tranquilla dove ritirarsi a scrivere e a leggere non era un’impresa facile. Soprattutto a partire dal 1738, anno in cui il conte Gasparo, fratello maggiore di Carlo, aveva sposato la poetessa Luisa Bergalli, rimatrice e letterata d’ingegno, ma pettegola, scialacquatrice e di pessimo carattere.

Né Carlo né suo padre riuscivano a sopportare la Bergalli, e, forse, l’entrata in casa Gozzi di una persona così burrascosa fu uno degli elementi basilari che, nel 1741, convinsero il giovane Carlo ad arruolarsi nell’esercito della Serenissima.

Al seguito di Girolamo Quirini, Provveditore  Generale della Dalmazia e dell’Albania, Carlo si recò a Zara e a Ragusa, dove si occupò non tanto di faccende militari, quanto, piuttosto, di teatro. Venne infatti incaricato di organizzare spettacoli per il divertimento degli ufficiali e dei soldati delle guarnigioni veneziane, e in quell’incarico Carlo si sbizzarrì per ben tre anni, scrivendo canovacci e farse e facendo rappresentare da gruppi di filodrammatici (spesso pescati tra gli stessi militari) commedie ricche di spunti satirici e ironici.

Ma furono anni intensi anche dal punto di vista delle esperienze umane e degli amori, tutti piuttosto salaci e boccacceschi, con belle dalmatine e seducenti levantine, che lo scrittore rievocherà assai letterariamente nei suoi libri di memorie.

Dopo tre anni passati in Dalmazia, Carlo sentì fortissima la nostalgia di Venezia: si congedò dall’esercito della Serenissima e fece ritorno in patria.

Giunto a Venezia nel 1744, trovò la casa paterna nel caos più completo: la madre e la cognata, in tre anni, avevano dilapidato con spese folli e sprechi assurdi gran parte del patrimonio finanziario della famiglia.

Il padre di Carlo, inebetito dalla vecchiaia, si era isolato in una soffitta denominata “castellaccio” (nella parte più alta della casa), disinteressandosi completamente della famiglia. Il fratello maggiore di Carlo, il conte Gasparo, pur di non dover litigare in continuazione con sua moglie e con sua madre, aveva lasciato che le due bisbetiche donne conducessero la casa come meglio ritenevano (a Gasparo importava soltanto poter dormire indisturbato fino a mezzogiorno, avere sempre del buon caffè e della buona cioccolata calda a disposizione, e poter leggere e scrivere le sue gazzette nella più assoluta tranquillità).

L’aspetto stesso della casa era desolato, con la tappezzeria scrostata e sfilacciata, le finestre con i vetri rotti, le scale in rovina, la legnaia e la dispensa semivuote, la servitù che faceva il broncio e lavorava male perché non veniva più pagata.

Disperato, Carlo si mise le mani nei capelli: aveva tanto desiderato di tornare a Venezia per potersi dedicare a pieno ritmo all’attività letteraria e, invece, lo attendevano beghe giudiziarie e liti familiari a non finire.

Dopo aver ripreso possesso dei suoi appartamenti, provò a vedere se era possibile mettere a posto la situazione, ma dopo pochi mesi si accorse che si poteva fare ben poco: la madre e la cognata erano in perpetua lite e nessuna voleva cedere nei confronti dell’altra. Gasparo, non volendo disgustare né la madre e né la moglie, non prendeva posizione, e il loro vecchio padre era come se non esistesse, rintanato com’era nel suo “castellaccio”, dove un viavai continuo di servette di malaffare e di vere e proprie sgualdrine da trivio allietavano le sue grigie giornate di patriarca decaduto di prestigio e di autorità.

Riassestate un poco le scalcagnate finanze della famiglia, pagati i numerosi debiti e sostenuta una serie di liti giudiziarie (legate a motivazioni ereditarie) davvero snervanti, Carlò lasciò la casa paterna (portandosi dietro soltanto i suoi panni, i suoi manoscritti e la sua immensa collezione di libri) e andò ad abitare per conto proprio, in piena solitudine, finalmente libero di dedicarsi interamente alla poesia e al teatro.

La suddivisione degli ormai scarsi beni di famiglia (compiuta da lui stesso, con il ruolo di arbitro e paciere tra sé, sua madre e i suoi litigiosi fratelli) gli garantiva una piccola rendita annua, proveniente dai poderi che la famiglia Gozzi possedeva nel Friuli.

Con quella scarsa rendita, in una sorta di sobria povertà, Carlo visse per il resto della sua vita, facendo attenzione al centesimo, centellinando tutto, dalla legna alla cera per le candele, ma riuscendo a vivere avendo l’attività letteraria come unica occupazione.

Oltre ad aver ripreso a  scrivere versi, novelle e opere teatrali, Carlo ricominciò anche a studiare intensamente i classici della letteratura italiana, in particolare gli scrittori toscani del Trecento, Quattrocento e Cinquecento, e ad approfondire lo studio della retorica e del lessico.

Nel 1747 entrò a far parte dell’Accademia dei Granelleschi, che esaltava il purismo toscaneggiante e condannava la scrittura grossolana di autori come il Chiari e il Goldoni, con i quali Carlo Gozzi, denominato il “Solitario”, iniziò ben presto a polemizzare, anche piuttosto aspramente.

Infatti, a partire dal 1750, le commedie goldoniane incominciarono a riscuotere un notevole successo di pubblico, ma un aristocratico come Carlo Gozzi non poteva certo tollerare che i protagonisti di tali commedie fossero vedove scaltre e figli ribaldi, putte onorate e avvocati veneziani, giocatori incalliti e gondolieri grossolani, mercanti di Rialto, locandiere di Firenze e antiquari di Palermo, ragion per cui si decise ad avversare il teatro del Goldoni con un sarcasmo e con una mordacità che andarono sempre più crescendo nel corso degli anni, come si può ben notare in questi versi tratti dalle Stanze, componimento satirico antigoldoniano e antiborghese che il Gozzi inserì nelle sue Rime:

                                   Menate pur le vostre figlie e spose                                  alle Vedove scaltre ed alle Putte                                  d’onore, ed alle Mogli virtuose,                                  ed all’altre dottrine del Talmutte,                                  che han dentro la morale e mille cose;                                  l’effetto poi lo vedrete alle frutte;                                  vi dico sol, ch’io non son tristo empirico,                                  e un dì non mi direte più satirico. 

Dapprima il Gozzi attaccò il Goldoni con poesie satiriche ed epigrammi mordaci, definendolo scrittore rozzo e grossolano, poco attento allo stile e al lessico, credendo che la fama goldoniana sarebbe stata di breve durata. Poi, successivamente, resosi conto che il Goldoni era un commediografo di razza, con un suo folto pubblico, gli dichiarò guerra aperta affrontandolo sul suo stesso terreno, e cioè sulle tavole dei palcoscenici veneziani.

Ma in quei tempi, a Venezia, era attivo come commediografo anche l’abate Pietro Chiari, un avventuriero della penna incline ad assecondare i gusti del pubblico ora con commedie lacrimose, ora con commedie esotiche. Gozzi, senza indugio, attaccò anche lui, costringendo il Chiari e il Goldoni (che sino ad allora erano stati rivali) a coalizzarsi per fare fronte agli incalzanti attacchi letterari del “Solitario”.

Oltre a un nugolo di poesie e sonetti satirici, Gozzi avversò il Goldoni e il Chiari con il poemetto dal titolo La Tartana degli influssi invisibili per l’anno bisestile 1756, in cui, facendo una sorta di oroscopo in versi, denigrò lo stile delle commedie goldoniane, lo stucchevole esotismo delle commedie del Chiari, nonché la presenza nel teatro goldoniano di protagonisti volgari e borghesi indegni della dignità del palcoscenico.

Il poemetto fu pubblicato nel 1757 e suscitò un vespaio di polemiche. Il Chiari si ritenne offeso e fece fischiare il Gozzi dai suoi sostenitori ogni qual volta lo incontravano a passeggio o lo vedevano passare in gondola, mentre il Goldoni, invece, accettò la diatriba e attaccò il Gozzi con un poemetto intitolato La tavola rotonda, pubblicato nel 1758.

Gozzi, che amava le polemiche letterarie più di ogni altra cosa, rispose per le rime al Goldoni, componendo il poemetto Il teatro comico all’Osteria del Pellegrino, nel quale satireggiò impietosamente tutti i difetti del teatro goldoniano, accusandolo di difettare nella lingua e nello stile, di corrompere moralmente i giovani, di denigrare la classe nobiliare, di diffondere idee gravide di ribellione sociale e di raffigurare l’uomo e la natura nello stadio più basso, facendo di gondolieri e popolani gli eroi delle sue commedie. Questo poemetto, però, essendo caratterizzato da un linguaggio triviale e pieno di insulti, fu sottoposto a censura e non poté essere pubblicato. Circolò perciò manoscritto, in parecchie copie, fino al 1805, anno in cui, essendo caduto il governo della Serenissima ed essendo morto il Goldoni, Gozzi riuscì finalmente a farlo stampare.

Goldoni, risentito per gli attacchi gozziani, non volle rispondere con altri poemetti, ma, al contrario, aumentò la sua produzione comica, insistendo sempre più sull’utilizzo del dialetto veneziano per i suoi personaggi e continuando a portare sulle scene vecchi borghesi misantropi come i rusteghi, i gondolieri chiozzotti, i ricamatori di tessuti, con il chiaro intento di ribadire l’inutile pretestuosità della polemica gozziana.

Il Gozzi, in quel periodo, pur avendo già iniziato a scrivere commedie, era in piena attività poetica. Desideroso di punzecchiare il Goldoni ma, soprattutto, di criticare quell’ampia parte di società veneziana che lo applaudiva e che lo sosteneva, iniziò a comporre, sin dal 1761, un ambizioso poema in dodici canti, in ottave, che intitolò La Marfisa bizzarra. Si trattava, come si evince già dal titolo, di una parodia dei poemi cavallereschi, ambientato in epoca contemporanea all’autore ma avente come protagonisti i paladini di Francia dei poemi del Boiardo e dell’Ariosto.

Protagonista del poema è la bizzosa eroina boiardesca trasformata in una civettuola e capricciosa dama settecentesca. Nelle figure dei vari paladini, il Gozzi ritrae personaggi di spicco del mondo veneziano, ad incominciare dagli odiati Chiari e Goldoni, ma anche le filosofesse svenevoli, i borghesi rampanti e quei nobili progressisti lasciatisi affascinare stoltamente dalle pericolose idee della cultura illuministica. Con le sue ottave sarcastiche e pungenti, il Gozzi, utilizzando il paravento della finzione cavalleresca, sferzò impietosamente la società veneziana dell’epoca, deridendo i suoi avversari, canzonandoli e raffigurandoli come paladini spilorci, irriverenti e privi di freni morali, senza esimersi dal lanciare frecciate pungenti contro le insulse mode dell’epoca, contro il commercio, contro il decadimento dei costumi, contro l’irriverenza religiosa e contro l’inesorabile ascesa sociale della classe borghese tanto magnificata dal Goldoni. Questo lungo poema fu completato soltanto nel 1768 e venne stampato nel 1772: in pratica, il Gozzi vi lavorò per oltre dieci anni, e fu un’opera alla quale, nelle sue lettere e nelle sue memorie, dichiarò di tenere moltissimo.

Ma siccome Goldoni teneva banco sui teatri, Gozzi si rese conto che non sarebbe mai riuscito ad umiliarlo e sconfiggerlo soltanto con i versi, perciò, come ho accennato, decise di affrontarlo sul suo stesso terreno: quello del teatro.

Appassionato, sin dalla più tenera età, di fiabe e racconti popolari, Gozzi intuì che il realismo goldoniano poteva essere efficacemente combattuto soltanto da un teatro che gli contrapponesse elementi quali il fiabesco, il magico, il prodigioso, facendosi portavoce di una sana morale e di ideali di restaurazione dell’ordine e dei costumi di cui le fiabe popolari erano una chiara espressione.

Perciò, ispirandosi ora al Pentamerone del Basile, ora alle Mille e Una Notte, ora al Pancatantra indiano, ora alle fiabe classiche francesi di Perrault, Gozzi iniziò a comporre le sue Fiabe Teatrali, opera con la quale, incredibilmente, riuscì a ridicolizzare e a mettere in crisi il coriaceo teatro goldoniano.

La polemica tra il Gozzi e il Goldoni raggiunse così i proprio apice. Il pubblico veneziano era diviso tra i sostenitori dell’uno e i partigiani dell’altro, e non di rado i goldoniani e i gozziani giunsero pure a darsele di santa ragione, azzuffandosi rabbiosamente non solo a teatro, ma anche nelle calli e nei campielli, dimostrando in tal modo che le opere teatrali dei due commediografi esprimevano davvero una diversissima visione della vita e della società.

Carlo Gozzi raccolse intorno a sé molti sostenitori nonostante avesse un carattere solitario e alquanto scontroso, particolarmente incline alle divagazioni fantastiche e alle meditazioni immaginose. Non era un burbero, come di primo acchito poteva sembrare, ma, piuttosto, un sognatore solitario che amava appartarsi per poter meditare in tranquillità sulle storie esotiche e fiabesche che amava raccontare nelle sue commedie, nelle sue novelle e nei suoi poemi.

Come intellettuale, inoltre, era d’indole assai spiritosa e molto sarcastica, amava graffiare e punzecchiare i suoi antagonisti e si lanciava con forte vis polemica in ogni diatriba teatrale e letteraria, spesso deridendo e canzonando i suoi rivali drammaturghi con sonetti e ottave estremamente frizzanti e mordaci.

Nell’ambito del teatro italiano settecentesco, il suo nome è oggi citato per aver preso parte alle più infuocate polemiche letterarie del suo tempo,  sebbene sia stato anche autore di divertenti poemi burleschi e satirici, come, per esempio I sudori d’Imeneo (pubblicato nel 1759), di prose autobiografiche e narrative (Le Novelle e le Memorie Inutili), nonché di numerosi drammi di cappa e spada di ispirazione spagnolesca e romanzesca (Le droghe d’amore, La malìa nella voce, La principessa filosofa,  La punizione nel precipizio, La caduta di Donna Elvira, Il pubblico segreto, Le due notti affannose, Il moro di corpo bianco, I due fratelli nemici, La figlia dell’aria, Cimene Pardo, Il Metafisico, e numerosi altri, tutti composti tra il 1767 e il 1786, con il Goldoni ormai lontano da oltre vent’anni dalle scene veneziane) Gozzi, purtroppo, viene oggi ricordato (quando lo si ricorda!) solo per le sue accanite polemiche goldoniane. Il che, è un vero peccato, perché Carlo Gozzi fu un letterato autentico, dotato di estro, fantasia e notevoli capacità espressive, sia in verso che in prosa.

Infatti, nella Letteratura italiana occupa un posto di rilievo solo quando si parla di Goldoni e della sua insensata riforma teatrale, che abolì gradualmente le Maschere della Commedia dell’arte e che portò sulle tavole dei palcoscenici italiani eroi borghesi, mercanti e popolani, tutti impegnati a disquisire di noiose tematiche sociali.

Goldoni fu fautore di un teatro realistico e borghese, ispirato al verisimile, permeato di ideali illuministici, animato da forti ideali di progresso sociale: ebbene, il conte Carlo Gozzi, aristocratico, conservatore, classicista, fu il più feroce avversario di Goldoni e del suo teatro riformato. Egli lo avversò sia con i già citati poemetti e con le poesie satiriche, sia con drammi che oggi occupano un posto di rilievo nella nostra letteratura teatrale, e cioè, le Fiabe Teatrali.

Carlo Gozzi, tra il 1760 e il 1765, ideò e compose dieci Fiabe Teatrali, scendendo in campo come alfiere del classicismo e della tradizione del Teatro delle Maschere, e proponendosi di combattere il realismo e le rivendicazioni sociali borghesi e popolari (presenti nei testi comici goldoniani) e caratterizzandosi come drammaturgo del fiabesco, del meraviglioso e dello stupefacente (ritornando, dunque, ad una sorta di drammaturgia decisamente barocca e seicentesca).

Nel volgere di pochi anni, scrisse ben dieci Fiabe (L’Augellin Belverde, Il Mostro Turchino, Il Corvo, L’amore delle tre melarance, I pitocchi fortunati, Turandot, La Donna Serpente, La Zobeide, Il Re Cervo, Zeim re de’ Genii), nelle quali fece ricomparire (dando ampio spazio ai loro lazzi e ai loro frizzi) le Maschere dell’Arte (Arlecchino, Tartaglia, Brighella, Pantalone, il Dottor Balanzone, Colombina), ponendole accanto a personaggi fantastici tipici del genere fiabesco (orchi, maghi, streghe, principesse incantate, geni, giganti, principi trasformati in bestie, e via dicendo), ispirandosi alla novellistica del Pentamerone del Basile, oppure del Pancatantra indiano tradotto dal Lasca, delle fiabe orientali delle Mille e Una Notte, nonché alla favolistica seicentesca francese e alla tradizione orale delle fiabe popolari italiane.

Il contenuto di queste fiabe, scritte parte in versi e parte in prosa, con alcune scene a soggetto per le maschere, è decisamente anti-illuministico e anti-goldoniano: con esse, il Gozzi intendeva flagellare i difetti e le carenze dell’opera goldoniana che, a parer suo, erano più riprovevoli e degne di biasimo, vale a dire la mancanza di moralità cattolica e di estetica poetica, la scarsa disciplina stilistica e linguistica (come ho detto, Gozzi era un purista e un trecentista, membro dell’Accademia dei Granelleschi, quindi fautore di un linguaggio letterario modellato rigorosamente sulla lingua di Dante, Petrarca e Boccaccio), la pericolosità sovversiva dei programmi di rinnovamento sociale e di rivendicazioni borghesi portati avanti dai mercanti, dai professionisti e dai popolani, protagonisti delle commedie goldoniane.

Certo, l’aristocratico Gozzi, che viveva di una modesta rendita che gli proveniva dai possedimenti di famiglia in Friuli e che scriveva i suoi testi teatrali senza farseli pagare (come invece faceva il borghese Goldoni, costretto a guadagnarsi il pane con il duro lavoro di avvocato e di poeta di teatro), non poteva agire diversamente.

Egli, oltre a vedere in Goldoni uno scrittore grossolano, poco incline alla perfezione stilistica, sbrigativo ed eccessivamente prolifico, percepiva tutta la pericolosità ideologica insita nella Riforma goldoniana, e si rendeva conto che portare sulle scene, come protagonisti di commedie, gondolieri e pescatori (come fece Goldoni ne La putta onorata e ne Le baruffe chiozzotte), mercanti e servette, onesti borghesi e viziosi aristocratici, significava sconvolgere, già a livello culturale, l’ordine sociale tanto faticosamente costituito.

Il fatto che, nelle commedie di Goldoni, i nobili venissero sempre ridicolizzati e presentati come dei parassiti, dei prepotenti, dei seduttori spietati di giovani popolane, dei cicisbei pettegoli o degli sfruttatori spiantati (ne sono un chiaro esempio il Cavaliere del Bosco ne La famiglia dell’antiquario, oppure il Marchese di Forlimpopoli e il Conte di Albafiorita ne La Locandiera), dava non poco fastidio al sarcastico conte Gozzi, il quale considerava le rivendicazioni classiste e gli ideali egualitari della cultura illuministica “socialmente pericolosi” e “moralmente ripugnanti”, come afferma in questi versi, sempre tratti dalle Rime:

                                Scrive il dottore in una Prefazione,                               che a riformar il teatro, le scene                               devon di molti fatti esser ripiene,                               e di molti caratteri e persone.                               Le antiche, pel costume, non son buone,                               le francesi son sceme, e non van bene;                                   l’Italia ha gran cervello e non s’attiene                               a ciò che gli altri dan riputazione.                               E però le maniere ho io trovate                                di saziar l’italiane menti                                nelle riforme, e di chiamar brigate.                                Ed io rispondo: Fegeio, ne menti,                                tu non hai riformate, ma viziate,                                cercando solo d’appagar, le genti.                                I fanciulli innocenti                                (cercando d’appagar lor brame strane)                                crescono in vizio e vanno alle puttane…                                Non è considerato                                chi cambia il Truffaldin nella Persiana:                                tu cambi suon, ma è pur suon di campana.

  

Per tali motivi (oltre alle ovvie rivalità personali tra drammaturghi), egli si impegnò, anima e corpo, nella dura lotta contro la Riforma teatrale goldoniana, presentandosi quale sostenitore della gloriosa tradizione teatrale italiana delle Maschere (che Goldoni aveva gradualmente abolite dalle sue commedie) e, al tempo stesso, come spietato avversario della cultura razionalistica e progressista dell’Illuminismo, che combatté utilizzando l’allegoria delle fiabe e l’enigmaticità arcana dei personaggi fantastici della favolistica popolare (non a caso la sua maggiore fonte di ispirazione fu Il Pentamerone, ovvero Lo cunto de li cunti, la grande raccolta di favole e di fiabe campane di Giambattista Basile, fantasioso scrittore del Seicento). Utilizzando tutta la sua verve polemica, tutto il suo pungente sarcasmo e tutta la sua animosità implacabile di poeta satirico, Gozzi, con le sue Fiabe Teatrali, riuscì a ridicolizzare e ad infliggere danni notevoli alla riforma goldoniana, riportando in auge le Maschere della Commedia dell’Arte e indirizzando il gusto del pubblico verso il fiabesco, il meraviglioso, il prodigioso, inducendolo a disinteressarsi della realtà concreta del quotidiano per affezionarsi alle vicende fiabesche della fata Cherestanì, della principessa cinese Turandot, del re dei geni Zeim, di Zelou il Mostro Turchino o della bella principessa Zobeide.

Risultato: le Fiabe Teatrali del Gozzi ebbero un successo strepitoso (persino nella lontana Germania) e riuscirono, sebbene solo per qualche decennio, ad oscurare l’ormai affermato astro goldoniano.

Il pubblico veneziano, sia quello aristocratico sia quello popolano, mostrò di gradire assai più i drammi fiabeschi di Gozzi piuttosto che le commedie borghesi di Goldoni, tanto che i teatri dove le Fiabe Teatrali venivano rappresentate erano letteralmente presi d’assalto da un pubblico desideroso di fiabe e di magie, entusiasta di vedere sulle scene fate e giganti, orchi e animali parlanti, maghi e cavalieri di ventura, piuttosto che onesti borghesi e schietti popolani mossi da nobili ideali etici e da concrete richieste di giustizia sociale.

Deluso, amareggiato e risentito per lo scarso successo della sua Riforma borghese del teatro, l’avvocato Carlo Goldoni, nel 1762, accettò l’invito dei comici italiani in Francia e partì alla volta di Parigi, lasciando così il Gozzi padrone assoluto dei palcoscenici veneziani, il quale continuò a scrivere commedie fiabesche sino al 1765, e poi, nei decenni successivi, commedie di cappa e spada, molto avventurose, che andavano decisamente incontro al gusto del pubblico dell’epoca.

Però, egli stesso, nella sua biografia intitolata Memorie Inutili, confessò che il periodo letterariamente più stimolante e più avvicente della sua vita, fu quello in cui polemizzò con il Goldoni e con l’abate Chiari, vivendo una stagione di creatività letteraria e di polemiche teatrali senza precedenti, stagione che rimpianse anche quando rimase l’unico indiscusso dominatore dei palcoscenici veneziani, dopo la partenza del Goldoni per Parigi e il ritorno dell’abate Chiari nella nativa Brescia.  

Carlo Gozzi morì a Venezia nel 1806, dopo aver scritto le Memorie Inutili, affranto e amareggiato a causa dell’abbattimento della Repubblica Serenissima da parte delle armate rivoluzionare di Napoleone Bonaparte e della successiva cessione di Venezia all’Austria, con il famigerato Trattato di Campoformio ricordato dal Foscolo nelle sue Ultime lettere di Jacopo Ortis.

I suoi ultimi anni furono quindi assai tristi, pieni di amarezza, di solitudine e di nostalgia: il piccolo mondo nel quale era sempre vissuto, la gloriosa e millenaria Repubblica del Leone, era scomparso per sempre, cancellato d’un colpo da un trattato di pace tra gli invasori francesi e i nuovi dominatori austriaci. Un nuovo mondo stava nascendo dallo sconquasso causato dalla Rivoluzione Francese e dalla bufera napoleonica, un mondo che il conservatore e reazionario conte Carlo Gozzi non poteva né capire né accettare, un mondo nel quale, egli, si sentiva assolutamente estraneo, fuori luogo, in totale disagio, proprio come lo erano i suoi personaggi fiabeschi quando entravano in contatto con la concretezza quotidiana della realtà.

Eppure, lo strepitoso successo delle Fiabe Teatrali (che riscossero applausi entusiasti anche in Austria e in Germania, dove vennero tradotte e rappresentate) fu una delle più stupefacenti e mirabolanti vittorie che, in campo letterario e teatrale, la fantasia e il fiabesco riuscirono a riportare sul realismo e sulla quotidianità dell’esistenza, così tanto magistralmente incarnata nelle commedie borghesi di Carlo Goldoni.

Oggi, le Fiabe Teatrali si possono leggere nella splendida collezione dei Classici Rizzoli, oppure nell’edizione di Bulzoni Editore, mentre le Novelle e una scelta delle Lettere sono leggibili nell’edizione della casa editrice veneziana Marsilio Editori.