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La conoscenza è la "merce" del nuovo secolo

di Antonella Marrone - 01/12/2009

  
 
Capitale e lavoro. La questione non ha mai smesso di essere nei cuori e nelle teste di chi ama, a sinistra, immergersi nella teoria politica per poi tentare di riemergerne con la pratica quotidiana. Lo spettro che si aggira nel mondo è quello del capitale, secondo questa "strana" ma efficentissima coppia di studiosi, Sergio Bellucci, giornalista e saggista, che tra i primi in Italia ha affrontato i temi dell'innovazione tecnologica legata alla comunicazione, e Marcello Cini, professore emerito alla Sapienza di Roma, di fisica teorica, scienziato ed intellettuale a tutto campo. Parliamo con lui di questo libro e delle prospettive per la sinistra partendo da un dato: bisogna mettere in discussione il modo di guardare alla realtà sociale, produttiva, al lavoro e al capitale. «Abbiamo scelto apposta la parola "capitale" e non capitalismo, perché il capitalismo è già una forma di società, mentre per noi è il capitale che sta alla base di questa forma di società ad essere cambiato. Il capitalismo ha tante varietà».

Tra le pagine decisive di questa analisi c'è il cambiamento del lavoro, anzi, è il tema centrale: non più quantità, ma qualità.
Il capitalismo dell'ottocento e novecento si alimentava sullo sfruttamento del lavoro misurabile quantitativamente. L'analisi di Marx del rapporto fra lavoro e capitale si basa sul tempo di lavoro necessario a produrre le merci, sull'appropriazione del pluslavoro che diventa plusvalore...

Con il passaggio dalla produzione di merci materiali alla crescente produzione di merci immateriali - merci della conoscenza in tutte sue forme e dell'informazione in tutte le sue forme - anche la produzione di senso è merce, una produzione di senso come significato per la vita della persone, di modelli di vita, di comportamenti, di azioni, di gusti. Da questo punto di vista è una trasformazione che non è più misurabile attraverso la quantità, ma attraverso la qualità. Ogni lavoro anche il più ripetitivo ha una componente di qualità che porta poi, secondo noi, all'individualismo dei lavoratori e alla perdita del legame di classe, di coscienza dell'appartenenza. Se il lavoro è misurabile in termini di tempo, un operaio potrà valere l'altro ma sono uniti da una identità comune. Nel momento in cui nel lavoro acquista un aspetto prevalente la qualità, c'è una componente di individualità che diventa competizione sul mercato. Si perde il legame di classe per acquistare questo aspetto individuale. Ognuno compete per se stesso.

Questa teoria - che non è universalmente condivisa a sinistra, ma è l'unica capace di indicare una strada nuova per la politica - che ricadute può avere, ricadute pratiche, nel mondo del lavoro così come lo conosciamo oggi, collocato in un'epoca della "fine del lavoro" per dirla con Beck?

Prima ancora che politico la ricaduta dovrebbe avere diciamo un aspetto prepolitico, di rappresentanza del lavoro: come si rappresenta un lavoro individualizzato nei confronti di un capitale che è omnicomprensivo, unificato globalmente? Questa frammentazione lascia la sinistra inerme e non solo per il fallimento del tentativo di costruzione di una società non capitalistica, diciamo. I nostri suggerimenti sono quelli di puntare su forme di produzione della ricchezza in termini di cooperazione, collaborazione. Che pure esistono e sono esistite. Sono stato colpito dall'assegnazione dell'ultimo nobel per l'economia a Elinor Ostrom (insieme a Oliver Williamson per l'analisi della governance e in particolare dei beni comuni, ndr ). Ostrom ha proprio studiato le forme di produzione fondate sulla cooperazione, un filone che nel pensiero politico, sociale risale a Pëtr Kropotkin. Beni pubblici, welfare delle relazioni.... non c'è una ricetta unica, anzi la storia ci ha insegnato che è bene stare alla larga da ricette uniche.

Welfare di relazioni, ossia un modello di società in cu emerge un'intelligenza diffusa, che propone la "comunità" accanto all'individualità, autogoverno e forme che guardino al di fuori di questo orizzonte.
Lo scriviamo chiaramente nel libro: la sinistra deve saper ritrovare una sua idea di società più complessa di quella nella quale l'ha sospinta il neoliberismo. Non vogliamo dare "il" messaggio ma pensiamo a forme di produzione e di ideazione che devono venir fuori dal tessuto sociale. Bisogna saper contrastare forme estreme di investimento di capitali che distruggono le industrie attraverso lo spezzettamento e la vendita attraverso agenzie fantasma, che continuano ad aumentare la ricchezza di carta attraverso la distruzione della produzione materiale ma senza risparmiare quella immateriale. Dal punto di vista politico la prima cosa da fare è che la politica deve mettersi occhiali diversi per capire il modo capitalistico del XXI secolo di produzione della ricchezza e la natura di questa ricchezza e quindi del rapporto con il lavoro è centrale. Il problema non è discutere sul lavoro in modo astratto. Inutile fare polemiche sulle parole. Le dicotomie sono assurde. Le categorie interpretative della realtà sociale, economica e produttiva, se non si comincia a rendere conto che non funzionano più per una realtà economica, finanziaria e quindi anche ideologica...

Di che cosa discutiamo, allora?

Di molteplicità. Per riconoscere una base unificante, costituita dalla immaterialità della produzione di merci, non basta unificare la produzione di merci sulla base di ideologie e di analisi che tenevano in piedi la produzioni di merci materiali. Vorremmo che su questo si cominciasse a discutere, senza steccati.