Il dato più preoccupante dell’Italia di oggi, e di quella di domani, non passa né in prima serata televisiva né in prima pagina. Si tratta di questo: il 20% circa dei giovani con meno di 22 anni non studia, e non lavora. L’Italia è il paese europeo con la più alta percentuale di giovani nullafacenti. L’elevata disoccupazione c’entra poco: le medie e piccole industrie, e le attività artigianali, hanno infatti un’altissima richiesta di personale specializzato, che la scuola non fornisce.
Soltanto il Nordest ha 80 mila posti di lavoro disponibili; mancano però persone formate. In parte la richiesta viene soddisfatta da quegli immigrati che dispongono di formazioni adeguate. Spesso però la mancanza di personale preparato rallenta lo sviluppo delle imprese, costrette a ridurre le attività, oppure a trasferire iniziative all’estero, delocalizzare.

Naturalmente questa fascia di giovani, ex studenti svogliati, poi mantenuti dalla famiglia per anni, rientra poi (ma non sempre) nel processo produttivo, e un lavoro in qualche modo lo trova. Ma di solito in settori scarsamente produttivi, impieghi più o meno pubblici, a basso reddito e scarsa spinta innovativa.
Così ogni anno si sposta in alto (verso la trentina) l’età di uscita dalla casa genitoriale, diminuiscono i matrimoni, le unioni stabili, i figli.
La crisi italiana, di oggi e domani, è annunciata soprattutto dall’insufficienza di formazioni e competenze adeguate in giovani che rimangono per anni in una «terra di nessuno», né scuola né lavoro, sopravvivendo «a carico»: della famiglia e della società. Ora finalmente (seppur con enorme ritardo), è stato varato un regolamento del Governo per ridare spazio e dignità all’importantissima galassia dell’istruzione tecnica e professionale. Potrebbe funzionare, anche perché il dossier è stato seguito e monitorato dal settore Education di Confindustria, direttamente interessata a che il problema venga finalmente risolto.
Ma quali sono state le convinzioni degli italiani che hanno ostinatamente promosso, attraverso la velleitaria gestione della scuola, un prolungato rallentamento dello sviluppo, con conseguente depressione di una fetta così importante dei giovani? La più pericolosa probabilmente è stata la sopravvalutazione delle formazioni intellettuali (sancite dalla «laurea»), in un popolo dotato di una lunga storia di abilità manuali, che fecero dell’artigianato italiano la culla dell’arte e della bellezza dal Rinascimento in poi. Ancora oggi, uno dei pochi settori (quello della moda e del design) che ha continuato il suo sviluppo negli ultimi anni, lo ha fatto perché ha mantenuto forti legami con l’artigianato, che continua a rifornirlo di idee fresche, competenze e abilità, ricevendone in cambio riconoscimenti, denaro, e posti di lavoro.
L’enfasi posta dalla scuola e dalla società all’accesso all’università e alla laurea ha invece indebolito le scuole professionali prima, e gli istituti tecnici poi, non rifornendo di mano d’opera settori vitali per la nostra economia come l’artigianato, il turismo, e la piccola e media impresa. Proprio a questo ultimo settore appartengono, d’altra parte, molte fra le aziende più tecnologicamente avanzate e redditizie del paese. La loro richiesta di giovani ben formati viene oggi finalmente ascoltata, ormai spentesi le grida dei cortei contro il ministro Moratti, che chiedeva cinque anni fa queste stesse cose.
Finita in disoccupazione e depressione di massa la passione per il «pezzo di carta», si torna forse ad una più equilibrata valutazione di tutti i saperi, compresi quelli tecnici e manuali.