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John Brown. E il mito vive ancor

di Roberto Beretta - 03/12/2009

   
 
A 150 anni dalla sua morte, la figura ambigua ed enigmatica di John Brown, il capitano antischiavista che si batté per la liberazione dei neri, è oggi sottoposta a nuove analisi.
Ne emerge un personaggio controverso, un uomo che combatté per nobili ideali ma con mezzi discutibili: Brown si macchiò anche di crimini e di violenze ed è stato per questo considerato da molti studiosi come un invasato. Tuttavia la sua cattura e la sua condanna a morte, in seguito al fallimento di una rivolta in Virginia nel 1959, provocò grande sdegno nell’opinione pubblica e in molti intellettuali del tempo. Brown riuscì dunque a suscitare forti sentimenti contrapposti, anche per l’attualità e la complessità dell’ideale che incarnava. Proprio per questo la sua figura è ancora oggi significativa e meritevole di essere studiata al di là del mito, nella sua veridicità storica.


John Brown è morto da 150 anni, «ma l’anima vive ancor». Eh sì: colui che ha fatto cantare «Glory glory hallelujah» a intere generazioni di gitanti da torpedone e boy scout in lieto cerchio serale, è stato giustiziato sulla forca il 2 dicembre 1859 a Charles Town. Ma chi era davvero codesto Giovanni Bruno (nomen omen per un paladino dei neri...) – che per l’America sarebbe poi come dire Mario Rossi? Nato nel 1800 nello Stato del Kansas (il più abolizionista del West), bianco, John Brown ebbe il grado di capitano prima della guerra di secessione in una milizia chiamata freesoilers: anti-schiavisti che però avevano la curiosa pretesa di riservare ai bianchi una parte delle terre appena tolte agli indiani. In questa veste fu responsabile del massacro a fil di spada di 5 coloni sudisti, il 24 maggio 1856 nel Kansas sud-orientale, e si ripetè il 16 ottobre 1859 in Virginia, quando assaltò un deposito federale per munire di armi gli schiavi neri. Proprio per questo episodio (che provocò la morte di due marines e 10 dei suoi 18 seguaci, tra cui due figli) Brown – pur gravemente ferito – fu condannato alla pena capitale: anche perché gli schiavi che voleva liberare in realtà non si mossero affatto. Dunque John Brown era un eroe o un farabutto, un nonviolento oppure un sanguinario (persino l’anti-schiavista Lincoln giudicava che la sua causa fosse giusta, però non i suoi metodi)? La questione non è ancora decisa neppure ora negli Stati Uniti, dove il 150° viene celebrato con due mostre di segno opposto o quasi: una a New York che esalta «l’abolizionista e la sua eredità», un’altra in Virginia più critica intorno a «principi e opere» del celeberrimo personaggio, soprattutto con riferimento ai suoi sistemi. […]
John Brown avrebbe maturato i suoi sentimenti attraverso esperienze giovanili come il soggiorno presso uno schiavista che maltrattava i neri e l’assassinio di un amico editore di un giornale abolizionista. Poi John ebbe 20 figli da due successive mogli: 10 sopravvissero e 6 maschi (oltre a un genero) lo seguirono nelle sue battaglie, l’ultima compresa. Per mantenere la numerosa prole fece un po’ di tutto – allevatore, commerciante di lana, conciatore –, forse viaggiando anche in Europa ma comunque con scarsa fortuna: tanto che collezionò una serie di fallimenti. Nel 1849 si installò con la famiglia in una «comune» nera costituita da un filantropo nello Stato di New York. Sei anni più tardi partiva con 5 figli per il Kansas, dove era in atto una lotta armata tra i coloni schiavisti e i freesoilers fautori della «terra libera» (per i bianchi). Lì si svolsero gli episodi d’arme che i sostenitori di Brown definiscono «battaglie» e i detrattori «stragi». Di fatto il «capitano» – ma lo era davvero? – combatteva con tattiche di guerriglia, veloci e spietati raid contro i Border Ruffians, le bande schiaviste. Usava anche tecniche di spionaggio: fingendo di essere un geometra incaricato di misurare i terreni, s’intrufolava con qualche aiutante tra i gruppi militari avversari per scoprirne i piani. Le autorità avevano posto una taglia sulla sua testa e per questo Brown si nascondeva in paludi difficilmente accessibili. Peraltro dovevano difenderlo parecchio anche la sua reputazione di violento e il fatto che il suo gruppo girava ben armato. Doveva avere anche notevoli doti oratorie, che esplicò pure al processo finale: i suoi stessi nemici gli davano infatti atto di intelligenza e integrità morale, oltre che di coraggio. Dal 1857 in poi si dedicò in pieno alla causa militare anti-schiavista, recandosi spesso a Boston per cercare fondi tra la borghesia abolizionista e trovandovi in effetti una solida sponda nella società clandestina dei «Sei Segreti»; non riuscì invece a convincere l’ex schiavo Frederick Douglass, divenuto uomo politico di punta dell’abolizionismo. Nella primavera del 1858 Brown riprese la sua campagna violenta, attaccando alcune fattorie per liberarne gli schiavi, che poi accompagnò per 600 km fino in Canada. Il 16 ottobre si impadronì di un’armeria e poi di un treno, ma subì il fatale contrattacco dell’esercito inviato da Washington e guidato dal generale Lee: il futuro comandante in capo sudista, che appunto lo consegnò alla giustizia.
Questa è la storia. Il resto è mito, costruito intorno all’eroe antischiavista; o al fanatico sanguinario? Chissà. In un modo o nell’altro, «l’anima vive ancor»...