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Due questioni sui minareti

di Martino Mora - 07/12/2009

riceviamo e pubblichiamo (n.d.r)


Il referendum svizzero sui minareti ha suscitato un mare di discussioni e polemiche, per quanto presto passate in secondo piano di fronte alle misere vicende politiche di casa nostra ( i “fuorionda” di Fini, i video-hard della Mussolini, le polemiche sui processi, eccetera).
Mi sembra che la discussione che si è innescata possa essere affrontata  sotto due aspetti. Il primo è politico. Il commento immediato più efficace, nella sua semplicità, è stato quello del ministro Maroni. Interrogato sui risultati del referendum, l'esponente leghista ha parlato evidente di contrapposizione tra le élite e il popolo. Il popolo svizzero, infatti, contro le previsioni della vigilia, si è pronunciato contro la costruzione di nuovi minareti sul territorio nazionale. La classe dirigente dell'Unione europea e i principali quotidiani di tutti i Paesi d'Europa hanno invece deplorato il voto degli svizzeri, definendo “preoccupante” l'esito del referendum. Ovviamente si sono sprecate le accuse di razzismo, intolleranza, xenofobia. Però il popolo svizzero ha scelto, e questa scelta, è stato ammesso da molti, è la stessa che anche altri popoli europei quasi sicuramente farebbero, se consultati su temi simili.
Ha quindi ragione Maroni nell'individuare nella frattura tra élite e popolo un tema significativo della politica europea. Che cos'è del resto il vasto fenomeno del populismo se non l'espressione di un malessere profondo della società europea e di una rivolta delle classi popolari nei confronti delle classi dirigenti occidentali ( politiche, burocratiche, economiche, intellettuali, giornalistiche)?
Negli ultimi anni, “populismo xenofobo” è stata la definizione tipica dei grandi quotidiani italiani riguardo a Haider, a Blocher, a Fortuyn, a Dewinter, a Le Pen, a Pia Kjaesgaard, a volte allo stesso Bossi (mettendo così insieme personaggi davvero diversi tra loro, anche come posizioni politiche). Per lungo tempo a questi nomi veniva spesso associato, negli articoli apparentemente più sofisticati, anche Alain De Benoist, il teorico della cosiddetta “Nuova Destra”, identificato con molta superficialità come l'ideologo del cosiddetto “razzismo differenzialista”.
Al di là delle semplificazioni giornalistiche, il fenomeno del populismo ha trovato i suoi più acuti interpreti oltreoceano, negli Stati Uniti. In particolare è stato Christopher Lasch, un illustre critico della società americana, prematuramente scomparso, ad analizzare, ne “La ribellione delle élite” e in altri suoi libri, il ruolo politico del populismo nella tradizione politica americana, e a definire come “Nuova Classe” le nuove élite politico-economiche-mediatiche, sempre più arroganti, vacue e inconsistenti, lontane dai popoli cui pure fanno riferimento. Con Lasch, quindi, il “populismo”viene identificato con caratteristiche nell'insieme positive, e come l'espressione di un anelito democratico tradito dalle classi dirigenti.
Fu un altro intellettuale americano, Paul Piccone, anch'egli scomparso qualche anno orsono, a pubblicare nei primi anni Novanta  diversi articoli sulla rivista da lui diretta, “Telos”, dedicati al “populismo federale” della Lega Nord,  valutandone positivamente il ruolo anti-partitocratico ed apprezzandone la rivalutazione delle “piccole patrie”in opposizione al centralismo omologante dello Stato-nazione.
Forse, come pensavano Lasch e Piccone, la contrapposizione tra popolo ed élite è più significativa e pregnante di quella tra destra e sinistra. Senza dubbio si tratta di una delle tre grandi contrapposizioni di questi e dei prossimi anni. La seconda è quella centralismo e federalismo, cioè tra Stato-nazione moderno, accentrato e omologante, e il suo superamento verso l'alto e verso il basso attraverso il federalismo. La terza è quella tra universum e pluriversum, cioè tra l'incubo cosmopolita  di un mondo egemonizzato politicamente dagli Usa ed economicamente dalle multinazionali, e quella di un nuovo ordine mondiale pluricentrico, in cui grandi spazi di civiltà, diversi tra loro, coesistano in un nuovo equilibrio geopolitico, come auspicato da Carl Schmitt.

Tra chi si è schierato da subito contro il risultato del referendum svizzero, che ha proibito la costruzione di minareti (si badi bene, non di moschee), vi sono le gerarchie cattoliche, che in sintonia con i protestanti  hanno immediatamente stigmatizzato il risultato del referendum. Non solo i vescovi svizzeri, “modernisti” ed ultra-ecumenici, ma anche esponenti del Vaticano, come monsignor Vegliò, si sono detti scandalizzati dal rifiuto del popolo svizzero di accettare la costruzione di nuovi minareti  sul proprio suolo. Ben diversa la posizione della Chiesa ortodossa russa, che per bocca di alcuni suoi importanti esponenti ha difeso la scelta svizzera.
Qui giungiamo al secondo aspetto in cui inquadrare la questione dei minareti. Si tratta di una questione teologica, o se vogliamo teologico-politica, data la ricaduta evidente che essa ha sulla convivenza civile. E' in questa prospettiva che possiamo comprendere l'atteggiamento arrendevole, ai limiti del masochismo, che la gerarchia cattolica tiene riguardo alla diffusione dell'islamismo in Europa a seguito dell'immigrazione di popolamento degli ultimi vent'anni.
Dal concilio Vaticano II in poi, e soprattutto nel ventisettennio wojtyliano (1978-2005), la Chiesa cattolica ha portato avanti un avvicinamento talmente spinto verso gli altri due monoteismi, quello ebraico e quello islamico, da oscurare la specificità del cristianesimo, ciò che lo rende diverso, quindi la sua stessa essenza. 
Quando Benedetto XVI se la prende, assai giustamente, con il relativismo diffuso nelle nostre società, dovrebbe anche prendere le distanze dal suo predecessore, che attraverso molte parole e molti gesti in libertà – amplificati dai media - ha dato un notevole contributo nel diffondere, tra clero e fedeli, l'idea che le tre religioni, in fondo, si equivalgano.
Cosa c'è infatti di più relativista del sostenere - come Giovanni Paolo II ha fatto sin dal 1985 – che “cristiani e musulmani adorano lo  stesso Dio” (giudizio poi ripetuto nel 2001, durante la sua visita alla moschea di Damasco)?
 Si tratta di un'affermazione che costerebbe la bocciatura a qualsiasi studente del primo anno di teologia. Ma i papi non si possono bocciare, ed evidentemente possono anche permettersi di dimenticare i dogmi cristiani (come quello della Trinità, appunto), in nome del sentimentalismo ecumenico e del “dialogo”. Quando invece il vero dialogo, ecumenico o no,  può essere costruttivo solamente  rilevando, certo con tatto, le rispettive, profonde differenze.
Stendiamo poi un velo pietoso sulle preghiere al Muro del Pianto e certe definizioni sull'ebraismo, come quella “sui nostri fratelli maggiori”, che gli ebrei non hanno affatto gradito. Molto più preparati di Giovanni Paolo II, sapevano bene che nella Bibbia sono i “fratelli maggiori” che perdono la primogenitura (Esaù) o che si macchiano di delitti contro i minori (Caino) o che li vendono come schiavi  (i fratelli di Giuseppe).
Il risultato di tanti exploit mediatici e tante affermazioni campate in aria è che da anni molti cattolici, anche tutt'altro che “modernisti” o “progressisti”pensano veramente che le differenze con ebrei e musulmani non contino, siano irrilevanti, perché si tratta sempre di “religioni sorelle”in quanto monoteiste (anche qui  l'ignoranza regna sovrana: parlano di “religioni abramitiche”, non sapendo che la discendenza abramitica di Maometto è perlomeno assai dubbia; parlano di “religioni del Libro”, dimenticandosi che in questa definizione coranica sono compresi anche gli zoroastriani).
Così ci troviamo prelati, come l'ineffabile Dionigi Tettamanzi, arcivescovo di Milano, che auspicano pubblicamente  il proliferare delle moschee nella loro diocesi, quasi si trattasse di oratori o centri dell'Azione cattolica.
Insomma: l'Incarnazione, La Trinità, il Peccato Originale, il rifiuto del legalismo, in poche parole il senso del sacrificio di Cristo,  il suo autentico messaggio e la sua Resurrezione vengono messi tra parentesi. Così, tra parentesi, finisce anche l'esortazione, fatta da Cristo stesso, a diffondere la sua parola presso tutti i popoli. Che senso ha infatti evangelizzare chi crede nel nostro stesso Dio? Anzi, parlare di Cristo con musulmani ed ebrei viene considerato oggi da molti preti e da molti vescovi come una grave mancanza di sensibilità nei confronti di chi professa un'altra religione. 
Per questi motivi non possiamo stupirci che un cattolico “wojtyliano” come Franco Cardini si spenda tanto a favore dell'Islam, arrivando a raccontarci la favoletta di un islam tollerante. Cardini sostiene infatti che quella islamica è una religione aperta verso le altre, e che nei Paesi islamici i cristiani sono liberi non soltanto di professare la loro fede alla luce del sole, ma anche di costruire le chiese di cui hanno bisogno. Così Cardini cita la Turchia, l'Egitto e il Marocco (enfatizzandone  comunque la tolleranza), ma si dimentica, chissà come mai, di citare L'Arabia Saudita, il Sudan, il Pakistan, l'Indonesia, Lo Yemen., cioè i Paesi dove i cristiani rischiano assai spesso di fare una brutta fine.
Personalmente non ritengo che l'islam sia in questo momento storico il maggiore dei nostri problemi. Credo che per le culture, le identità e le religioni (compresa, ovviamente, quella cristiana), l'omogeneizzazione tecnico-mercantile del mondo e l'idolatria della merce che essa diffonde siano un pericolo ancor più grave. Ciò non toglie che il fenomeno dell'immigrazione incontrollata stia  portando con sé anche questioni delicate come il rapporto degli europei, sul loro suolo, con questa religione. Ed è evidente che il filo-islamismo acritico di grandi settori del mondo cattolico non trova giustificazioni né storiche (l'affermarsi dell'Islam ha voluto dire la scristianizzazione del Medio Oriente e dell'Africa settentrionale), né   teologiche.
Quando la gerarchia ecclesiastica troverà il coraggio di chiedere con forza reciprocità di diritti al mondo islamico? Non si rende conto che soltanto insistendo sulla  reciprocità può difendere davvero le  minoranze cristiane perseguitate o vessate in certi Paesi? E' questo il vero dialogo che il mondo cristiano deve condurre con i musulmani.