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La vita degli uomini infami

di Michele Spanò - 08/12/2009

 

 

Una buona regola dell’arte recensoria è senz’altro quella che impone un principio d’economia alla distribuzione delle citazioni. È una certa rarità, infatti, che dovrebbe presiedere alle campionature di sequenze di testo che, per la loro esemplarità – di stile o di tema –, le promuova così a insegne, blasoni o cifre del libro tutto intero e del pensiero che vi si svolge. Il volumetto di Foucault, La vita degli uomini infami, appare refrattario a questa scienza della recensione. Si sarebbe infatti tentati, per fornirne un assaggio, di offrirne l’integralità. Un paradosso conservato, e quindi sciolto, nello stile scintillante di Foucault: precisione chirurgica della definizione e splendore, classico e perciò misurato, della prosa. Qualcosa che gli antichi retori avrebbero chiamato concinnitas.

Ma di cosa si tratta? Come per molta della produzione foucaultiana siamo di fronte a un non-libro. La vita, infatti, avrebbe dovuto comparire quale introduzione a un’antologia di documenti conservati negli archivi di internamento della Bastiglia e dell’Hôpital Général e risalenti all’incirca al periodo 1660-1760. Era il 1977 e del libro non si fece più nulla. Ma non è difficile congetturare la linea di pensiero – e quindi di produzione scientifica – entro cui il libro mancato si sarebbe realmente inscritto. La cura e il montaggio di Io, Pierre Riviére è del 1973 e l’edizione – a quattro mani con Arlette Farge – di una selezione di lettres de cachet vedrà la luce nel 1982. Si sarebbe perciò tentati – e non c’è nulla nelle poche pagine del libro che sconsigli di farlo – di ricondurre La vita al “gusto dell’archivio”: vera e propria ossessione, tanto pratica che teorica, dell’opera di Foucault.

Aprendo il libro, che ha un incipit folgorante: «Questo non è un libro di storia», vien fatto immediatamente di pensare a un altro, diverso e però segretamente complice, abbrivo. È quel «Dirò ciò che ho amato», con cui si apre il Panegirico di Guy Debord. Nel caso di Foucault non è propriamente di autobiografia che si tratta, se non volendo scomodare la categoria tutta “pessoana” – già coniata da Antonio Tabucchi – di “autobiografie altrui”. Si tratta piuttosto, secondo la lettera foucaultiana, di «un’antologia di esistenze». Scelte secondo l’insindacabile metro del gusto, il libro avrebbe allineato vite singolari, nel doppio senso di uniche e bislacche. Da buon erede dello spirito cartesiano, tuttavia, Foucault cerca un metodo per informare la propria idiosincrasia, imponendosi così delle regole e cercando il modo di rendere sistematica una mania. Originato dall’incontro con le storie sensazionali di un «monaco scandaloso» e di un «usuraio strambo e sconclusionato», riferite in un registro d’internamento dell’inizio del XVIII secolo, il libro che non c’è avrebbe avuto l’ambizione di fornire il regesto di queste «esistenze-lampo» o «vite-poema».

Ciò che più sta a cuore a Foucault è mostrare il paradosso di un simile tipo di documenti: la loro leggibilità e visibilità è infatti funzione della loro immediata inscrizione nei registri discorsivi del potere. Una vita, e più che mai una vita infame, è istituita come vita perché qualcuno la racconta: qui il narratore è il potere. Luce che squarcia la notte dell’infamia, il potere traduce – con i suoi mezzi: l’inchiesta, la sentenza, la punizione – l’opacità di queste vite in un racconto “brillante” – e non è casuale l’insistenza di Foucault sulla speciale economia espressiva dei documenti, così come il loro potenziale ruolo di matrici genealogiche di ciò che sarà la “letteratura”.

Due appunti di metodo, per chiudere. Le poche pagine di Foucault hanno infatti ancora qualcosa da dirci sul suo lavoro filosofico. Per dirla in modo scorciato: sulla decostruzione della sovranità, da un lato, e sull’uso idiosincratico e innovatore della storia, dall’altro.

In primo luogo, è proprio la frequentazione di questi documenti d’archivio a suggerire a Foucault una lettura del potere assai meno monolitica di quanto, spesso ancora oggi, gli si attribuisca. La dinamica di produzione di questi testi, di cui si è detto, è infatti capace di rivelare un campo di negoziazioni tra governanti e governati che resterebbe assolutamente inaccessibile rivolgendosi alla sola produzione teorica coeva. Alla data attuale il feticcio storiografico dell’assolutismo francese ha subito tanti e ben assestati colpi, ma l’obiettivo di Foucault non è soltanto – o forse non è per nulla – storiografico, bensì genealogico. Sarebbe a questo punto il caso di fare più distesamente menzione di un’importante ricerca storica avviata da Foucault con la collaborazione di Arlette Farge sulle lettres de cachet, il cui interesse è confermato dallo stesso Foucault quando, nel Résumé del corso Subjectivité et vérité, indica proprio in questo testo uno dei principali tasselli della ricerca sulla governamentalità. La lettera – che prevedeva l’immediato internamento del destinatario – era espressione diretta dell’arbitrio del sovrano che vi apponeva il suo sigillo – cachet, appunto – e aveva un valore immediatamente esecutivo, regolando così una questione giudiziaria e, soprattutto, penale senza necessariamente allestire un processo. Gli usi delle lettere furono molteplici: sostennero il sovrano nel suo tentativo di sbarazzarsi di una nobiltà non conforme e nella volontà di evitare il confronto con assemblee e parlamenti, furono strumento di polizia per intervenire sulla “devianza” sociale, arrivarono a essere richieste personalmente da singoli alla persona del re con l’obiettivo di regolare i disordini familiari e altre questioni strettamente personali, fino a essere persino inoltrate in bianco dall’autorità preposta – spesso il ministro – e poi rese operative dal mittente stesso. Insomma, la lettera diviene un modo per negoziare il confine tra pubblico e privato, rivelandosi uno strumento decisivo nella gestione delle condotte e nel governo della società: si tratta del mezzo più rapido che la polizia possieda per garantire il buon ordine pubblico che, proprio attraverso la lettera, si rivela coestensivo anche al buon ordine privato, quello della famiglia in prima istanza. È proprio dall’interno della famiglia che giungono richieste e domande che si rivolgono direttamente al re, evitando così di passare per la giustizia ordinaria. Una pratica, tuttavia, destinata a durare il tempo dello splendore del dispositivo di polizia e a tramontare con la progressiva e nuova separazione tra pubblico e privato introdotta dai Codici e, soprattutto, dal diritto di famiglia.

Resta il fatto che questi «personaggi di Céline che vogliono avere udienza a Versailles» dicono, allo stesso tempo, oltre a qualcosa su loro stessi, qualcosa sul modo di funzionare del potere allora. Ma dicono anche e soprattutto qualcosa del nostro presente, svelando, una volta di più, la posta in gioco politica di ogni ricerca “storica” di Foucault. Un modo di fare storia, questo, attento alle «vite infime», che, anche a dispetto della civetteria di Foucault stesso, nutrirà l’opera di moltissimi altri storici “di mestiere”: Arlette Farge, certo, ma poi anche, almeno, Michelle Perrot.

La nuova edizione del Mulino va dunque salutata più che positivamente. Occorre aggiungere che essa è corredata da una brevissima nota di Remo Bodei, pubblicata come postfazione, ma, almeno a giudicare da frasi come «nelle pagine che seguono», si suppone pensata come prefazione. Stupisce, tuttavia, la totale assenza di riferimenti alla recentissima ripubblicazione dell’opera in Francia. Uscita alla metà di quest’anno per l’editore Les Prairies ordinaires, e curata dal collettivo Maurice Florence – raro caso di doppio pseudonimo, giacché si tratta, a sua volta, di un nom de plume già utilizzato da Michel Foucault. L’edizione era costruita – oltre che dalla riedizione del testo foucaultiano – con i materiali attraverso cui è stata allestita a Lione la mostra sugli Archives de l’infamie: una raccolta documentaria che attesta metamorfosi e continuità nella politica dell’esclusione e nella produzione sociale dell’infamia. Un modo intelligente – e assai foucaultiano – di intrecciare filologia e politica che l’editore italiano non avrebbe fatto male a raccogliere.