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Il totalitarismo del brutto

di Stefano Serafini - 09/12/2009

Bisogna render merito alla Libreria Editrice Fiorentina per aver
pubblicato questa importante e godibile raccolta di scritti di Nikos
Salìngaros, contornata dagli interventi di altri rilevanti protagonisti
di un dibattito che travalica la problematica urbanistica ed
architettonica per coinvolgere questioni assolutamente fondamentali: la
bellezza, il nichilismo, il rapporto tra intellettuali e potere.
Risalendo nella storia dell’interessamento della piccola e raffinata
casa editrice cattolica verso tale Autore, bisogna tributare altrettanto
merito a Stefano Borselli e al suo Covile – un pezzo di cultura
fiorentina nel web – senza il quale il pensiero di Salìngaros avrebbe
impiegato chissà quanti anni ancora prima di giungere in Italia.

Nonostante le apparenze No alle Archistar non è un pamphlet, né una di
quelle collezioni più o meno ben rapsodizzate di scritti già usati, per
lettori rigattieri. Si tratta invece di una silloge molto ben
concertata, discussa e argomentata, sul più vivo dibattito estetico,
filosofico, scientifico e sociale degli ultimi trent’anni in Italia,
fiorito improvvisamente nel nostro Paese a seguito di alcuni eventi che
hanno visto protagonisti le archistar, come l’Autore definisce i grandi
rappresentanti dello show business architettonico internazionale,
mutuando il termine coniato da Gabriella Lo Ricco e Silvia Micheli [1].
Ci riferiamo alle note polemiche sulla costruzione della copertura
dell’Ara Pacis progettata da Richard Meier a Roma, a quelle sul ponte di
Calatrava a Venezia, sul progetto di Isozaki di un telaio metallico
davanti al Museo degli Uffizi a Firenze, sulle tre “torri” di Citylife a
Milano, progettate da Daniel Libeskind, Zaha Hadid e Arata Isozaki, e
sulla chiesa-qaaba di Fuksas a Foligno.

Fino a che punto una comunità, una città, una società civile può
accettare le imposizioni del business e la sua retorica pubblicitaria?
La vittoria milionaria e anti-locale delle archistar in un Paese che del
suo patrimonio urbanistico e architettonico va giustamente fiero,
rappresenta un arricchimento o piuttosto una perdita irreparabile? Cosa
c’è dietro le forme innovative e le luci scintillanti dell’architettura
globale che, come un’astronave aliena, scende dal cielo del superclan
dei progettisti internazionali (da Frank Gehry a Renzo Piano, da Jean
Nouvel a Massimiliano Fuksas, da Rem Koolhaas a Daniel Libeskind)? E da
cosa occorre partire per giustificare lo smarrimento che essi inducono
nelle persone, da quale punto si può dire che il potente, ricchissimo,
apparentemente inarrestabile re, è in realtà nudo?

Da dove ricominciare la resistenza dell’umano?


Al principio della sua monumentale opera The Nature of Order [2], il
matematico e architetto Christopher Alexander afferma che la visione del
mondo meccanicista e cartesiana nella quale siamo immersi rende vano lo
scopo di ogni architetto, cioè realizzare edifici belli. La bellezza, in
un mondo fatto di quantità fisiche e collisioni casuali tra particelle,
diviene una qualità secondaria, soggettiva, priva di sostanza; chi la
pretendesse, non farebbe che assumere una posizione ideologica. Occorre
perciò, sostiene Alexander, rivedere tale dominante visione del mondo,
se si vuol realizzare un’architettura autentica, che non sia mera
finzione e spettacolo.

Naturalmente i giudizi su ciò che è bello e ciò che è brutto sono
relativizzabili da un atteggiamento dialettico. Tuttavia la realtà senza
tempo della bellezza o del brutto, che attraversa tutte le culture e gli
ambienti come un fatto antropologico, ha sempre costituito un vaglio
imprescindibile, di fronte al quale le opinioni si misuravano cercando
di chiarirsi, e risultavano infine congrue o confuse. Se oggi questa
realtà stessa del bello (come del brutto) tende a sfuggirci fino a
trascolorare nell’irreale (tanto da poter prevedere un futuro non troppo
remoto, quando gli uomini o piuttosto i loro sostituti si domanderanno:
«Cosa significava la parola “bellezza”?»), è perché il punto di vista
dialettico, intellettualistico, cerebrale, ha potuto prendere il
sopravvento su tutti gli altri approcci. Una cultura astratta e globale,
dalle radici occidentali, urbane e mercantili, intrinsecamente
totalitaria, ha già deciso a priori, senza bisogno di proclamarlo (e
anzi mantenendo al riguardo una finzione paludata di raffinatezza) che
la bellezza non è una realtà, ma una tesi soggettiva e irrazionale fatta
convenzione, un’eccitazione intellettuale condivisa che muta con le
esigenze del mercato, del quale è divenuta una funzione. Anche la
bellezza insomma, si misura con il minimo comun denominatore di ogni
quantità: il denaro. Il sofisma produttivistico secondo il quale colui
che realizza il bello verrebbe gratificato dal mercato, una volta
invertito, rivela la sua vera logica: in verità è giudicato essere e
fare il bello colui che il mercato gratifica, cioè è il mercato a
decidere cosa sia e cosa non sia bello.

Una simile situazione, sotto gli occhi di chiunque conosca il circuito
di compravendita della cosiddetta arte, o il sistema delle quotazioni e
delle pubbliche relazioni dei grandi studi internazionali di
architettura (non parliamo dello show business), può sussistere
unicamente rifiutando e combattendo qualsiasi criterio oggettivo con il
quale misurare il valore delle “opere” in commercio. La razionalità
estetica, per tale sistema, dovrà necessariamente ed esclusivamente
fondarsi sulla dialettica delle opinioni degli “addetti ai lavori”,
pagati e selezionati dai grandi mercanti e committenti politici, e dal
consustanziale potere dei media, per non sprofondare nel ridicolo. Il
tiranno decide le regole e sceglie gli arbitri del gioco. Ma il tiranno
è nudo.

È senz’altro vero che con l’acculturazione mediatica generalizzata siamo
divenuti tutti persone “intellettualizzate”, gli istinti legati dai
mille fili di un pensiero monocromatico e astratto. Se si vuole, il nodo
lontano di tale cultura diffusa può esser fatto risalire al meccanicismo
cartesiano di cui scrive Alexander, senza però dimenticare la realtà
socio-economica cui si accompagnò l’alba del metodo moderno e della
borghesia europea.

Ciò non significa però che non esistano più persone capaci di provare
disgusto, poniamo, davanti a proclamati capolavori di architettura
contemporanea, anche se tale sentimento risulta censurato nei più, e se
sono pochi coloro che hanno il coraggio di esprimere il proprio disagio,
per non sentirsi declassati sulla scala del giudizio dalla visione comune.

Tale ripulsa è una reazione negativa, ma ha dei fondamenti in re. Si
rifà cioè a qualcosa di reale, non a dogmatici sofismi intellettuali. Ne
esiste una versione naïf e popolare. Sempre più rara, tacciata di
ignoranza o maleducazione dai conformati, essa tuttavia coincide con una
precisa sensazione fisica, con una maggiore consapevolezza del proprio
ordine biologico da parte di questi ribelli (o esclusi) del consumo
culturale. Poi ve ne è una mediata dalla critica intellettuale, critica
che sovente coinvolge il sistema e i suoi fondamenti. Per la sua natura
dialettica, essa rischia di scadere a sua volta in un apriorismo
ideologico, e di venir rigettata in quanto opinione, per di più
minoritaria e dunque, di fatto, neutralizzata e resa impotente dalle
regole del mercato.

La proposta di Nikos Salìngaros, a lungo collaboratore di Christopher
Alexander, si
 basa invece sia sul sentimento, sulle sensazioni
psico-fisiche, sul buon senso pratico, cioè su quell’apparato
conoscitivo di base donatoci da madre natura; sia sulla consapevolezza
culturale e critica, che messa al servizio del sentire umano dispiega un
panorama di liberazione e meravigliosa creatività. Per usare una vecchia
metafora, egli si affida e al territorio e alla mappa, con un metodo
rigoroso e innovativo che si rifà alla matematica dello spazio, alla
psicologia gestaltica e cognitiva, alla fisica (Salìngaros, prima di
dedicarsi a questi studi, si è laureato in Fisica nucleare con Max
Dresden all’università di New York, dopo aver studiato con Paul Dirac).
Chi ha cercato di deriderne i risultati ha dovuto fare i conti con tale
metodo, ritirandosi con livore, o meglio ancora promuovendo la facile
congiura del silenzio che nel suo corso ventennale ha visto persino
realizzarsi un golpe accademico [3].


La critica di Salìngaros nasce da un’esigenza prassica (fare edifici
belli, che nutrano e agevolino la vita), va al cuore del problema
epistemico della nostra civiltà, e svela con profondo ed elegante impeto
rivoluzionario le ragioni del potere occultate alla radice del brutto.

Il brutto, denuncia infatti Salìngaros, che si riferisce in modo
particolare all’architettura urbana, è un potentissimo strumento del
potere, poiché ha un effetto preciso sulle persone: le dissocia dal
proprio ordine di natura:

«Varie generazioni sono state costrette ad andare contro le loro
esigenze naturali e istintive in un ambiente estraneo, dovendolo
accettare come “moderno” e “contemporaneo”. Questo è avvenuto a partire
dagli anni ’20 del secolo scorso. Il risultato finale è una dissonanza
cognitiva estesa, che confonde gli istinti delle persone al punto che
diventano molto facili da manipolare.» (p. 294)

Gli fa eco nell’intervista contenuta nel volume, l’architetto
neo-tradizionale Léon Krier, con la sua critica al paradigma modernista
abbracciato dalle archistar:

«Il modernismo funziona attraverso diverse forme d’alienazione,
riducendo l’autonomia personale, e dunque la capacità di agire, lavorare
e pensare come individui indipendenti. È una forma di lavaggio del
cervello radicale da cui pochi sono capaci di liberarsi. Milioni sono
(stati) vittime di questo fascino tirannico, però con ogni nuova
generazione, la natura sembra produrre antidoti potenti contro le
massicce aberrazioni del passato; è questa la mia speranza.» (p. 226)

Puntualizziamo che proprio per evitare gratuite incomprensioni e accuse
di soggettivismo, Salìngaros cerca di non utilizzare la coppia
terminologica “bello/brutto”, la quale a rigore indica piuttosto un
effetto che una causa. La sua attenzione è concentrata sulle conseguenze
antropologiche di quelle geometrie che non risultano consone, per
ragioni spaziali, cognitive e neuro-fisiologiche, alla distensione, al
benessere dell’essere umano. Si tratta delle geometrie antiumane, che
consapevolmente o meno infrangono le regole di svolgimento dell’ordine
frattale onnipresente in natura, nell’arte e nell’artigianato universali
almeno fino al XV secolo.

Le forme naturali, che egli definisce “biofiliche”, seguono una
geometria di sostegno allo spazio, che rinforza e sviluppa l’ordine dal
quale prendono corso, trasformandolo in un nuovo spazio più ricco, il
quale viene avvertito dagli umani come una realtà che stimola piacere,
un sentimento di maggior consapevolezza e presenza, un senso di
compiutezza, funzionalità, bellezza, ecc. Le leggi di base del design,
dell’architettura e dell’urbanistica biofilici – applicate da sempre,
dal basso, istintivamente, in tutto il pianeta – si rivelano conformi
alle leggi che organizzano gli organismi biologici e i sistemi
ecologici, ed è questa la ragione per la quale certe urbanizzazioni nel
terzo mondo, ma anche certi antichi paesini europei, certi manufatti
artigianali, producono un effetto di funzionalità antropica e di
integrazione sapiente col paesaggio ed il contesto, rivelando una
speciale armonia vitale raramente raggiunta dall’edilizia contemporanea.

Di contro, le forme antiumane sono virus culturali, contraddizioni fatte
forme, dissonanze imposte allo spazio e alle sue funzioni, dei meme [4]
travisati con buone intenzioni (“progresso”, “sviluppo”, “modernità”)
che una volta innestati in un ordine preesistente (ad es. la città) lo
spezzano fino a ucciderlo: il malessere serpeggia, qualcosa di alieno
incombe, le piazze si svuotano, la vita si ritira. Gli indici
fisiologici di stress (battito cardiaco, espansione delle pupille)
davanti a questo tipo di forme, sono dati misurabili oggettivamente, e i
loro riscontri soggettivi e sociali (inquietudine, violenza urbana)
possono venir sottoposti a misurazioni statistiche. Ma le forme aliene
hanno in più la capacità di infettare le menti. Gli uomini ne assorbono
la discordia, e mediante il nuovo “gusto” programmato divengono i
veicoli della loro riproduzione.

Un esempio di forma architettonica distruttiva è quella del grattacielo,
edificio fallico e costoso a scapito della città, dalla quale strappa
risorse umane ed energetiche in maniera contro-funzionale, e che rende
“esterno” tutto lo spazio sul quale torreggia con un effetto alienante
sulle persone. «Sì, c’è un futuro per i grattacieli: come prigioni
urbane», scrive Salìngaros rifacendosi a Camillo Langone [5]. «La
sicurezza è eccellente perché è sostenuta dalla geometria: isolamento
verticale e nessuna necessità d’interagire con la vita reale sulla
terra.» (p. 232)

Iosif Brodskij in una sua pièce teatrale immaginò una Torre
iper-tecnologica alta più di un chilometro, come prigione perfetta, dove
il tempo è pura durata, il vuoto e la distanza dal mondo assoluti. Gli
imprigionati vi scontano una pena a vita, non per aver commesso
qualcosa, ma per ragioni statistiche decise dal potere centrale («una
specie di tassa») [6].

Sono forme che, in termini teologici, possono definirsi “sataniche”,
cioè negatrici dell’ordine stesso che le sostiene. In termini più
strettamente filosofici, si tratta di espressioni di nichilismo.

«Perché alcuni promuovono il nichilismo? È, semplicemente, una strategia
per destabilizzare la società fondata sull’intelligenza razionale
dell’individuo: premessa indispensabile affinché sia possibile, poi,
controllarne i componenti. La trasformazione della società in una massa
omogenea di consumatori d’immagini televisive e di prodotti industriali
è nient’altro che un gioco di potere. Una massa segue la moda definita
per mezzo dei media. Non si possono vendere le stupidaggini a chi pensa
individualmente: in pratica, per formare il mercato, occorre operare un
indottrinamento che metta i cervelli all’ammasso. Non si tratta, qui, di
rare figure estremiste che agiscono a scopo politico: le radici della
politica nichilista degli anni Venti sono state adottate da quella che
è, adesso, la classe dirigente pubblicitaria e industriale. Coloro che
indossano i completi più costosi.» (pp. 48-49)

Sembra di ascoltare Pier Paolo Pasolini. In una profetica intervista del
1974, rilasciata sulle dune di Sabaudia, il noto intellettuale italiano
affermava:

«Quanto abbiamo riso noi intellettuali sull’architettura del regime
[fascista n.d.R.], sulle città come Sabaudia. Eppure adesso osservando
questa città proviamo una sensazione assolutamente inaspettata. La sua
architettura non ha niente di irreale, di ridicolo. Il passare degli
anni ha fatto sì che questa architettura di carattere littorio, assuma
un carattere, diciamo così, tra metafisico e realistico. Metafisico in
un senso veramente europeo della parola (nel ricordo mettiamoci
addirittura la metafisica di De Chirico); e realistico perché, anche
vista da lontano, si sente che le città sono fatte, come si dice un po’
retoricamente, “a misura d’uomo”; si sente che dentro ci sono delle
famiglie costituite in modo regolare, delle persone umane, degli esseri
viventi, completi, interi, pieni, nella loro umiltà.

Come ci spieghiamo un fatto simile, che ha del miracoloso? Una città
ridicola, fascista, improbabilmente ci sembra così incantevole. Bisogna
esaminare un po’ la cosa, e cioè: Sabaudia è stata creata dal regime,
non c’è dubbio; però non ha nulla di fascista in realtà, se non alcuni
caratteri esteriori. Allora io penso questo: che il Fascismo, il regime
fascista, non è stato altro, in conclusione, che un gruppo di criminali
al potere. E questo gruppo di criminali al potere non ha potuto in
realtà fare niente, non è riuscito a incidere, nemmeno a scalfire
lontanamente la realtà dell’Italia. Sicché Sabaudia, benché ordinata dal
regime secondo certi criteri di carattere razionalistico,
estetizzante-accademico, non trova le sue radici nel regime che l’ha
ordinata, ma trova le sue radici in quella realtà che il Fascismo ha
dominato tirannicamente, ma che non è riuscito a scalfire. Cioè è la
realtà dell’Italia provinciale, rustica, paleo-industriale ecc. ecc. che
ha prodotto Sabaudia, e non il Fascismo.

Ora invece succede il contrario. Il regime è un regime democratico, ecc.
ecc. Però quella acculturazione, quella omologazione che il Fascismo non
è riuscito assolutamente a ottenere, il potere di oggi, cioè il potere
della civiltà dei consumi, invece riesce a ottenere perfettamente,
distruggendo le varie realtà particolari, togliendo realtà ai vari modi
di essere uomini che l’Italia aveva prodotto in modo storicamente molto
differenziato. E allora quest’acculturazione sta distruggendo in realtà
l’Italia. E allora vi posso dire senz’altro che il vero fascismo è
proprio questo potere della civiltà dei consumi che sta distruggendo
l’Italia. E questa cosa è avvenuta talmente rapidamente, che in fondo
non ce ne siamo resi conto; è avvenuta tutta in questi ultimi 5, 6, 7,
10 anni. È stata una specie di incubo in cui abbiam visto l’Italia
intorno a noi distruggersi e sparire. Adesso risvegliandoci, forse, da
quest’incubo, e guardandoci intorno, ci accorgiamo che non c’è più
niente da fare.» [7]

Ancora, Salingaros:

«Una radice del disegno contemporaneo la si trova nell’Italia fascista.
I manifesti futuristi dichiararono una guerra totale contro
l’architettura (e la società) del passato. Riprendendo in parte l’ideale
nazista “di una nuova società”, dove l’individuo è subordinato ai più
alti interessi sociali e politici, il regime di Benito Mussolini ha
patrocinato alcuni esempi caratteristici dell’architettura modernista.
Eppure, gli architetti italiani in quel periodo svilupparono un
linguaggio delle forme comprensivo e molto innovativo, utilizzando la
tipologia Romana più che l’astrazione del Bauhaus tedesco. Giuseppe
Terragni, Luigi Moretti, Adalberto Libera e molti altri hanno costruito
edifici in uno stile che contrasta il “puro/vuoto” stile modernista. La
loro associazione con il Fascismo trasforma questi edifici in elementi
scomodi, e gli storici cercano, attraverso dilettanteschi espedienti, di
ignorare totalmente quelle costruzioni (o, come Sigfried Giedion,
chiamando a proposito la “Casa del Fascio” di Terragni come “Casa del
Popolo”). Il Fascismo in Italia ha promosso una gamma d’architettura ed
urbanistica innovativa, indipendente dalla filosofia politica dominante.
Purtroppo, il Razionalismo Italiano come elemento maggiore
dell’architettura del ventesimo secolo ha sofferto di una emarginazione.
Il fondamentalismo di queste architetture emerge solo allorquando esse
richiamavano esplicitamente la filosofia totalitaria del regime
fascista.» (p. 164)

Non crediamo che Salìngaros si sia nutrito della lettura dei maggiori
intellettuali europei post-marxisti della fine degli anni ’60, ma di
certo fa impressione vedere la coincidenza tra le appassionate
conclusioni di questo autore, accusato a torto di conservatorismo, e le
previsioni di Pasolini e Debord, dimenticati e sepolti dalla cosiddetta
sinistra culturale europea. Constatando la mancata ripresa del suo
pensiero esposto alla fine degli anni ’60, scriveva Guy Debord vent’anni
dopo, poco prima di finire schiacciato, come Pasolini, dal sistema di
cui aveva denunciato le trame:

«Come era facilmente prevedibile sul piano teorico, l’esperienza pratica
della realizzazione sfrenata delle volontà della ragione mercantile avrà
dimostrato rapidamente e senza eccezioni che il divenir-mondo della
falsificazione era anche un divenir-falsificazione del mondo. Eccetto un
patrimonio ancora cospicuo, ma destinato a ridursi sempre di più, di
libri e di edifici antichi, peraltro selezionati e disposti in
prospettiva sempre più spesso secondo le preferenze dello spettacolo,
non esiste più nulla, nella cultura e nella natura, che non sia stato
trasformato, e inquinato, secondo le capacità e gli interessi
dell’industria moderna.» [8]

Com’è noto, Debord definì i sistemi apparentemente contrapposti del
socialismo sovietico e del capitalismo occidentale, quali le due facce
della stessa medaglia, cioè di quell’unico e globale «regno autocratico
dell’economia mercantile elevato a uno statuto di sovranità
irresponsabile» [9]: lo spettacolare concentrato e lo spettacolare
diffuso [10].

Anche in questo caso rileviamo un’interessante concordanza, allorquando
Salìngaros osserva che entrambi i blocchi ideologici abbracciarono le
industrie dell’acciaio e del vetro, e con la copertura del marxismo
ideologico (burocratico o salottiero) accolsero la trovata pubblicitaria
per la promozione di tale produzione pesante: il Bauhaus.

«Ma d’altra parte, la sinistra abbracciò con entusiasmo
l’industrializzazione, allo stesso modo della società capitalistica. I
paesi comunisti hanno eretto costruzioni e città mostruose e disumane
con le stesse tipologie che troviamo nei paesi capitalisti. Un accordo
ideologico curioso fra due antagonisti, avente come fine
l’industrializzazione e l’alienazione degli esseri umani!» (p. 296)


Salìngaros è consapevole che alla base del problema vi è l’eterno drago,
la lussuria di potere che sempre riemerge, indipendentemente dalla forma
o dai termini usati per cavalcare il mondo. Buttate giù le archistar,
anche un certo “salingarismo” potrebbe diventare verbo nichilistico,
forma svuotata e strumentale sulla giostra della sopraffazione economica
dell’umanità. Vi è anzi già chi ha cercato di adeguarsi furbescamente
alla nuova aria che tira. È chiaro che,

«Se sostituiamo un pugno di impostori con il gruppo delle archistar di
moda oggi, non abbiamo guadagnato niente. Un’ideologia totalmente
corrotta rimarrà sempre al controllo, continuando a promuovere
un’architettura rivolta contro l’uomo.» (p. 311)

Per fortuna vi è una importante distinzione: Salìngaros si batte per
l’autenticità, un’architettura autenticamente legata all’ordine di
natura e all’antropologico. Chi non è in grado di riconoscere tale
ordine in se stesso, cioè chi non è capace di essere in se stesso
strumento universale e ricettivo dell’armonia, non può usare tale verbo
se non ripetendo formule esteriori, in ultimo vane e prive di forza. Un
computer non può applicare gli algoritmi di Alexander, il quale scrive
esplicitamente dell’impossibilità di progettare una casa autentica con
un programma informatico, giacché bisogna che il progettista e il
committente vadano sul luogo a usare i propri sensi, le proprie
sensazioni umane per decidere dove disporre una finestra, la porta,
quali materiali e quali colori utilizzare, ecc. [11] Ogni sviluppo dello
spazio sarà una sorpresa.

La tesi del primato dell’uomo concreto, individuale, incarnato, in
contesto, auto-conoscente, attento alle proprie percezioni come
strumento euristico, come responsabile del progetto che modifica, per
migliorarlo, il mondo, è certamente rivoluzionaria. Viviamo infatti
nella cultura dell’astrazione e dell’universalità, una cultura
ideologica che ha realizzato l’idolatria dell’oggettivismo e dal
profondo, con odio sottile, disprezza ogni forma di carne. Il suo
modello sono la macchina, i numeri, i “fatti”, e i princìpi “universali”
(che cioè non ammettono eccezioni). Da un punto di vista architettonico,
come osserva Salìngaros, il vetro e l’acciaio, i pannelli preformati di
liscio cemento, ovunque e in ogni contesto culturale e paesaggistico.
Che i princìpi possano poi escludere i singoli individui o i singoli
popoli, cioè le unicità soggettive, come affermano de facto le bombe
occidentali apportatrici di libertà e democrazia, non contraddice ma
piuttosto conferma tale totalitaria universalità – perché è proprio
l’individuale a non dover esistere. Le cose, per il sistema, si fanno
per progetti. Ciò che non coinciderà in corso d’opera non è che detrito,
fango sulle ruote, “danno collaterale”. Ma quel che non coincide è la
vita! È essa il bersaglio di tale modello della guerra, dell’espansione
fino alla vittoria, fino alla conquista e alla trasformazione di un
Paese reso radioattivo e alieno, o di un paesaggio deturpato nell’anima.
Salìngaros, citando Zygmunt Bauman, ci ricorda come alla base
dell’olocausto sieda l’astrazione.

Poiché l’individuale eccezione è invece la forma propria della realtà,
la tesi che ad essa conferisce il primato ha anche un grande valore
epistemologico. L’architettura poggiata sui dogmi della scuola
modernista non è che un teorema, una filastrocca, una “creazione”
soggettiva. Essa non ha alcun fondamento scientifico. Unite alle
ricerche sulla matematica dello spazio, le indagini di Alexander presso
centinaia di volontari, ad es., su quale tra due paesaggi o tra due
costruzioni, offra un maggiore senso di vita, un maggior sentimento di
benessere, hanno aperto la strada euristica al fondamento insieme
oggettivo e soggettivo dell’esattezza scientifica. In realtà, i quattro
volumi della sua opera fondamentale, The Nature of Order, compongono un
superbo trattato sull’intenzionalità, una degna risposta filosofica al
Discours de la méthode.

Non si tratta soltanto dello specifico paesaggio, della forma propria
dello spazio in un determinato contesto, né tantomeno di una questione
di educazione al gusto, magari neo-vernacolare. Progettare un edificio
in situ, insieme al committente, ascoltando le proprie impressioni e il
proprio corpo, imparando dallo spazio e dal contesto, significa
intraprendere un cammino umile, possibile a tutti, di rinascita della
responsabilità e della conoscenza che sembravano perduti sotto
l’oppressione delle pianificatrici autorità della conoscenza astratta e
dell’economia. Riacquistare individualmente l’episteme scientifica,
estetica, prassica, umana, significa contemporaneamente entrare nella
vera conoscenza, e liberarsi dalla morsa del potere.

Il “no alle archistar” di Salìngaros è la bandiera di una scuola senza
guru, personale, di carne, accessibile a chi ha la buona volontà di
risvegliare la propria anima, di ri-allenarsi a riconoscere il bello e
il bene, di ridiventare umano e umanizzare lo spazio intorno.

Fare edifici belli, funzionali, che agevolino la vita e sviluppino
l’ordine intrinseco dello spazio, è possibile e avviene già, con un
movimento dal basso che ha coinvolto in tutto il mondo architetti,
committenti, piccole comunità [12]. Il movimento non ha una gerarchia o
un programma. L’idea di rifiutare l’immagine (lo spettacolare) in favore
della vita ha conquistato individualmente e dall’intimo migliaia di
persone, rendendo assai difficile trasformarlo nell’ennesimo prodotto
commercializzabile. La sua logica intrinseca si oppone al mistero degli
addetti e degli esperti (il segreto, che nella società dello spettacolo
è consustanziale al potere secondo Debord), al loro circolo chiuso ed
elitario.

Non a caso una parte del libro, con un intervento di Michel Bauwens, è
dedicata al modello egalitario di produzione e scambio di informazione
“peer-to-peer”. L’«Urbanistica P2P» si contrappone alla progettazione
aziendale, perché è uno sviluppo auto-regolato della città, permesso
dall’accesso aperto dei cittadini alle regole, non più nascoste ai
profani e derivate dall’ideologia, ma tratte dall’osservazione e dunque
dalle esigenze reali. Essa opera su scale piccole, percettive, quindi è
attenta al dettaglio, e a differenza dei progetti su macro-scala non
stravolge, ma rinforza, adattandosi ad esse, le geometrie già esistenti
(cfr. p. 273).

Le idee raccolte in questo volume sono molte. Qui abbiamo voluto offrire
un rapido assaggio di alcune di esse, con l’intento aperto di
incentivarne la lettura e la diffusione, perché siamo convinti della
loro validità e urgente necessità davanti al sadismo avanzante. Abbiamo
trovato in Salìngaros, come in Alexander, spunti vivi e fondamentali per
affrontare la crisi epistemologica ed etica della nostra cultura, e
crediamo che questo testo possa rappresentare una sorta di iniziazione
alle loro opere più impegnative e famose, come di Alexander il già
citato Nature of Order, e A Pattern Language [13], e di Salìngaros
Principles of Urban Structure [14],  Anti-Architecture and
Deconstruction [15],  A Theory of Architecture.

Il volume non può però venir ridotto in alcun modo a un’introduzione o a
una sintesi, perché è autonomo, e avanza temi nuovi e specifici, validi
soprattutto per il contesto italiano. Il nostro Paese soffre certamente
di un complesso ciclico di autoflagellazione culturale, ma ancora una
volta sembra essersi accesa proprio in Italia la punta di un dibattito
autentico sulle cose più importanti e le premesse di un cambiamento storico.

 

NOTE

[1] Gabriella Lo Ricco - Silvia Micheli, Lo spettacolo
dell’architettura, Milano, Bruno Mondadori, 2003.

[2] Christopher Alexander, The Nature of Order, Center for Environmental
Structure, Berkeley, California, 2001-2005; volume I: The Phenomenon of
Life; volume II: The Process of Creating Life; volume III: A Vision of a
Living World; volume IV: The Luminous Ground (cfr.
www.natureoforder.com). A quest’opera splendida, costata vent’anni di
ricerche, Salìngaros ha collaborato come curatore con un sodalizio umano
e culturale di grande spessore.

[3] Nikos A. Salingaros, «Aggression and Architectural Education: The
“Coup” in Viseu», www.2blowhards.com (23 settembre 2004).

[4] Il termine meme coniato da Richard Dawkins (The Selfish Gene, Oxford
University Press, 1976, 19892, trad. It. Il gene egoista, Milano,
Mondadori, 1994) indica, sul modello del gene o del virus, un’unità
culturale auto-propagantesi che “colonizza” e “programma” le menti ospiti.

[5] Camillo Langone, «L’anticristo abita al 53° piano», Il Foglio, 20
settembre 2008 (http://www.ilfoglio.it/soloqui/1048).

[6] Josif Brodskij, Mramor, trad. It. Marmi, Milano, Adelphi, 1995, p. 15.

[7] Pier Paolo Pasolini, “Pasolini e… la forma della città”, 7 febbario
1974, programma RAI TV “Io e…”.

[8] Guy Debord, Commentaires sur la Société du Spectacle, Paris,
Editions Gérard Lebovici, 1988; trad. It. di Fabio Vassarri (1988),
Commentari sulla società dello spettacolo, IV.

[9] Ivi, II.

[10] Guy Debord, La Société du Spectacle, Paris, Buchet-Castel, 1967;
trad. It. di Paolo Salvadori (1979), La società dello spettacolo.

[11] Christopher Alexander, The Nature of Order, op. cit., vol. II: The
Process of Creating Life, p. 238.

[12] Cfr. http://www.livingneighborhoods.org/ht-0/bln-exp.htm

[13] Oxford University Press, 1977.

[14] Amsterdam, Techne Press, 2005.

[15] Solingen, Umbau-Verlag, 2006, trad. It. Antiarchitettura e
Demolizione, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 2007.

[16] Solingen, Umbau-Verlag, 2006.

TOTALITARISMO DEL BRUTTO
NO ALLE ARCHISTAR

Nikos Angelos Salìngaros, No alle Archistar. Il manifesto contro le
avanguardie, con contributi di Natalia Albensi, Michel Bauwens, Peter
Glidewell, Léon Krier, Kenneth Masden, Michael Mehaffy, Giorgio
Muratore, Pietro Pagliardini, Giancarlo Puppo, Giorgio Santilli,
Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 2009, pp. 340, € 16,00.


Articolo pubblicato in: Bioarchitettura, XIX (2009) 59, pp. 4-11