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Strutture, rapporti sociali e visione geopolitica

di Mauro Tozzato - 14/12/2009

 

Sul Corriere del 13.12.2009, nell’editoriale, Giuseppe De Rita riporta alcune considerazioni che

vorrebbero aiutare a capire meglio le polemiche di questi giorni mitigandone gli elementi retorici e

ideologici. Così scrive, ad esempio, il segretario generale del Censis:

<<Sentiamo sempre parlare di popolo al singolare, ma anche il termine “istituzioni” è proposto come

un mondo compatto che va dalla Carta costituzionale fino alle singole amministrazioni. E questa

contrapposizione “al singolare”fra popolo e quadro istituzionale può durare a lungo e portare frutti

avvelenati. E’ arrivato il momento di smetterla con la declinazione al singolare e di cominciare a

parlare di vari segmenti di popolo e di singole segmentate istituzioni.>>

Come ha ricordato numerose volte La Grassa i veri attori sociali sono sempre esseri umani individuali:

non esistono soggetti collettivi ma nell’analisi teorica si possono utilizzare concetti e classificazioni che

si declinano in una varia terminologia. Così si può parlare di gruppi, classi, strati, ceti, ecc., sociali

sotto intendendo che queste nozioni debbono essere empiricamente fondate e precisamente

(scientificamente) definite. Il concetto tradizionale marxista di classe in quanto presupponeva

l’esistenza effettiva della cosiddetta “classe in sé”, non è da questo punto di vista, più utilizzabile in una

rigorosa teoria della società. Si trattava di una universalizzazione legata ad alcune apparenze empiriche

assunte in modo acritico; ma soprattutto prescindeva dalla autentica dinamica di formazione dei vari

gruppi sociali e dalla stratificazione di svariati segmenti, sia in orizzontale che in verticale. Le

aggregazioni sono determinate dell’intrecciarsi di diversi parametri, che precisano i ruoli e le funzioni

dei singoli attori sociali, oltre ovviamente alle varie forme di coscienza relative all’ appartenenza e all’

identità etnica, religiosa, sessuale, di prestigio, di gusti e possibilità di consumo. Certo si può a volte

parlare, ad esempio, della classe dei lavoratori dipendenti privati ma si tratta di una universalizzazione

“povera di contenuto” ricavata dalla nozione di settore privato dell’economia e dalla unificazione delle

svariate tipologie contrattuali del lavoro subordinato sotto un unico “titolo”.

Il prof. De Rita continua, poi, il suo articolo sempre cercando di precisare alcuni punti nodali:

<<Sotto la parola popolo si muovono infatti tante realtà diverse: ci sono i milioni di cittadini che

hanno vocazione e comportamenti di stampo particolaristico e che fanno riferimento a strutture ( si

potrebbe dire anche istituzioni) come le famiglie, le imprese e la loro dinamica, le diverse comunità e

le amministrazioni locali, le comunità parrocchiali e in genere ecclesiali. E’ in queste strutture che

vive la società, poi ci può essere una convergenza periodica e saltuaria (da sondaggio o da urna ) sul

piano dell’opinione politica, ma interessi, comportamenti e valori sono, nel tempo lungo, radicati nella

realtà e nelle regole quotidiane di queste strutture.>>

Comunque neanche l’approccio neoclassico risulta soddisfacente; se per definire gli aggregati sociali ci

limitiamo ad utilizzare uno schematico funzionalismo con l’aggiunta di compartimentazioni di carattere

territoriale non riusciamo ad ottenere molto. Sono sempre gli effettivi
rapporti sociali che mancano

nell’analisi e manca di conseguenza la comprensione di come su questi si costituiscano gruppi di

interessi, alleanze tra strati diversi e quelle capacità egemoniche che usufruiscono anche e soprattutto

dell’ignavia, dell’incapacità e del disfacimento del ceto intellettuale tradizionale. Tutto questo, come

andiamo ripetendo da tempo, in funzione del conflitto per la supremazia nelle varie formazioni sociali

particolari. Per De Rita la famiglia (come azienda di erogazione e comunità primaria), l’impresa (come

azienda di produzione ovvero come insieme di fattori produttivi messi in moto dall’imprenditore) e le

varie comunità territoriali, culturali e religiose sono viste come pezzi di una “macchina” che debbono

essere incastrati-fissati opportunamente e lubrificati periodicamente: nel discorso di De Rita i
rapportisociali - come relazioni cooperativo-conflittuali che strutturano i processi e le azioni degli “agenti”

individuali - si presentano in forma reificata all’interno di una panoramica di superficie.

Il sociologo conclude poi il suo editoriale con queste riflessioni:

<<Articolare i pensieri e l’azione: capire e accompagnare nella loro evoluzione i diversi segmenti di

popolo senza chiamarlo troppo spesso a raccolta al singolare, in piazza o in televisione; gestire e

riformare i diversi segmenti di istituzione pubblica che meno corrispondono alle attese dei cittadini.

Questi i due compiti sostanziali e non eludibili di chi vuole esercitare leadership sociopolitica. Ed è

dalla costante qualità di tali compiti, dalla fedeltà quotidiana ad essa, che spontaneamente verrà uno

stile di governo e di eloquio non arroccato sulle paure: su quelle per le ipocrisie istituzionali, come su

quelle per la retorica rivendicazione del potere del popolo.>>

Da una parte, seguendo l’approccio di De Rita, c’è il richiamo alla volontà “generale del popolo”

oppure, in tono ormai minore, a quella “delle classi oppresse” contrapposta alla “casta” politica e/o

economica e/o finanziaria; dall’altra vi è la difesa del carattere “sacrale” delle istituzioni intese come

“feticcio” e come insieme di formule “mistico-giuridiche” da salvaguardare o da riformare. Si tratta di

una caratterizzazione che ha un senso, ma nel nostro blog abbiamo preferito, sempre, una chiave di

lettura della situazione nel nostro paese molto diversa e fondata fortemente su una visione geopolitica e

globale dei conflitti tra formazioni sociali particolari nel contesto mondiale.