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Gli strani accadimenti nell'eremo dei frati camaldolesi

di Riccardo Ianniciello - 14/12/2009


L’ultimo pezzo di strada, quando si è in vista del convento è piacevolmente scorrevole: l’aumentare del verde e degli spazi aperti, con la vista del mare sono il preludio ad un ambiente più sano ed integro. Lo si avverte nell’aria. Un turista si stupirebbe di trovare a pochi minuti dalla città congestionata un angolo così suggestivo, con il convento dall’alto della rupe a dominare il paesaggio. L’eremo dei Camaldoli conserva ancora intatto il fascino della sua primitiva medievale impronta.
   In qualità di investigatore della polizia è la prima volta che varco la soglia di un luogo sacro: ciò mi impedisce di sentirmi completamente a mio agio. Padre Giacomo, il Priore, mi accoglie con grande affabilità (quasi fossi un seminarista) mostrandomi gli ambienti del convento (in particolare il chiostro, dove si affacciano le celle dei frati) e ragguagliandomi sugli strani fatti che da qualche tempo accadono in quel luogo: «Ogni notte sentiamo rumori provenire dal chiostro: suoni metallici come colpi di spranghe su ringhiere, di porte sbattute, di vetri infranti e poi lamenti di uomini e di donne. Ma un fatto inquietante si è aggiunto l’altra notte, che mi ha spinto a chiamarla. Proprio al centro del chiostro, sul pozzo, abbiamo trovato un monaco impiccato. O meglio, il fantoccio di un monaco impiccato, con tanto di corda a mo’ di scorsoio a simulare una impiccagione. Accanto al fantoccio vi era un rotolo di carta».   Così dicendo il Priore – in un evidente stato di ansia – estrae da una tasca il manoscritto, porgendomelo.
«Sembra a prima acchito un antico documento. Dovrò studiarlo con attenzione. Non so dirle altro per ora».
   Padre Giacomo, forse un po’ deluso dal mio fare sbrigativo, mi invita a seguirlo, per mostrarmi la cella che occuperò per qualche tempo.
Arrivati nel dormitorio, mi precede attraverso un lungo corridoio piuttosto in penombra: le 13 celle dei frati si susseguono come scuderie, occupando un lato dell’edificio e danno tutte sul grazioso e ombroso chiostro (il più piccolo dell’eremo). Io occuperò la cella n°8. Attualmente sono nove i monaci presenti nel convento. Mi faccio lasciare i loro nomi e indicare le rispettive stanze. Dopo cena mi ritiro nella mia camera, mentre i frati dicono le orazioni serali. Mi preparo ad una lunga notte che passerò (credo) tra la mia cella (tenendo sott’occhio il chiostro) e il corridoio, giusto per familiarizzare con “gli interni”. Adesso posso leggere con la dovuta calma il misterioso manoscritto:
 

13 GIUGNO 1716 IN TERRA CHIAIANI PERTINENZA DI NAPOLI

In nostra presenza Antonio Mancino Camerlingo fu Mario di detta terra spontaneamente ha attestato e fatto fede con giuramento avanti a noi, che Domenica passata, quattro del corrente mese di Giugno ritrovatosi assalito da una febbre terzana Leonardo Migliaccio suo paesano nella Masseria di detta terra luogo detto Arenella il detto Leonardo e sua moglie mandarono a chiamare detto Antonio uno monaco al Monistero dei Camaldoli acciò fusse venuto à confessare. Detto Antonio, essendo andato al detto Monistero là dove abitano al numero di più di ventisei religiosi, portò con esso in detta masseria uno monaco sacerdote di detto Monistero il quale avendo visto, e parlato con detto Leonardo, non volle quello confessare, dicendoglì che non era necessario…

   Mi sorprendo ad appassionarmi ad una vicenda che risale così indietro nel tempo, avvincente quanto inquietante a leggerne il proseguo, fatto di episodi di notevole gravità: al Leonardo non solo fu negata la confessione, ma i monaci si rifiutarono di seppellirlo perché essi “non vogliono seppellire poveri per carità” e lo avrebbero fatto solo per quattro ducati. Il
corpo del Leonardo, che era stato portato davanti al convento, rimase per più di tre giorni sotto il sole. L’intervento dei monaci di San Rocco pose fine alla brutta vicenda. In fondo al manoscritto leggo: A.S.N. – PROTOCOLLO NOTAR CASTRESE GUARINO scheda 139/4
 
   Passata la mezzanotte, esco nel buio e silenzioso corridoio. Due sole stanze hanno la luce accesa: la n°3 e la n°13. Gli occupanti sono due novizi. Poco dopo dalla n°3 compare frate Michele (il nome del novizio) che con passi frettolosi si incammina nella mia direzione, verso la parte centrale del corridoio. Quando si accorge della mia presenza nella penombra, trasale. Lo rassicuro: «Non si preoccupi, non riesco a dormire e quindi mi sono trattenuto qui».
Ha un libro sotto il braccio, lo tiene serrato, come se non volesse farlo vedere. Sarà una deformazione professionale, unita ad una insana (chiamatela morbosa) curiosità, fatto sta che gli faccio: «Permette? Posso sapere cosa legge? Sa! Sono sempre alla ricerca di un buon libro da leggere!» Con molta riluttanza il monaco mi mostra il libro sul quale leggo il seguente titolo:  “I quaderni di Don Rigoberto” di Vargas Llosa. Poi, con voce sommessa mi dice:«La prego, non faccia voce con il Priore del nostro incontro!»
«Ci mancherebbe. Stia tranquillo!»
Il frate, rassicurato, si allontana speditamente, proseguendo nella direzione precedentemente presa. Poco dopo lo vedo entrare nell’ultima cella.
Perché non dovrei parlarne a padre Giacomo? Sarà per via del libro? Confesso la mia ignoranza, ma non credo di conoscere il nome dell’autore. Don Rigoberto deve molto probabilmente trattarsi di una figura religiosa di rilievo tratteggiata da Vargas Llosa. In un convento ci sono precise e severe regole monastiche che vanno osservate e fra Michele contravvenendo a una di queste (l’andare in un’altra cella a tarda ora) si è preoccupato del Priore che lo venisse a scoprire. Sì, dev’essere andata proprio così, questa la ragione del suo raccomandarsi!
Sento d’improvviso delle grida! Le voci provengono dal chiostro!
Mi precipito alla finestra e con la torcia faccio luce: una sagoma scura corre verso il giardino adiacente. Vedo alcuni monaci rincorrerla. Segue un  trambusto fatto di rumori e di imprecazioni. Dunque l’avvilupparsi di corpi. Infine una voce che mi chiama: “Corra! Corra qua Sebastiano! L’abbiamo preso!”
   L’uomo acciuffato si rivela essere l’autore dei misfatti fin qui descritti. Il suo nome è Vincenzo Migliaccio. Nella sua casa, una vecchia masseria in località Arenella, l’uomo – come abbiamo appreso dalla confessione seguita –  aveva trovato, in una nicchia nel tufo, quel documento notarile ed era così venuto a conoscenza della drammatica storia di Leonardo Migliaccio (evidentemente un suo lontanissimo avo), a cui i monaci camaldolesi avevano rifiutato la confessione in punto di morte e persino una degna sepoltura, solo perché povero. Il Vincenzo ne fu così impressionato ed emotivamente coinvolto da non dormirci più la notte.   Una terribile ingiustizia era stata commessa ai danni di un pover’uomo e andava in qualche modo vendicata, anche a distanza di secoli: da qua l’insano progetto di spaventare a morte i frati camaldolesi.
   Una parte di me, in fondo al mio essere – sento di doverlo confessare –  simpatizza per quest’uomo, bizzarro ma non pericoloso. Naturalmente risponderà di fronte alla legge delle sue mancanze.