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La perfezione che cerchiamo nell’altro è presentimento della pienezza dell’Essere

di Francesco Lamendola - 15/12/2009


Dal libro di Mechthild von Magdeburg «La luce fluente della Divinità» (VII, 35; titolo originale: «Offenbarungender Scwester von Mechthild von Magdeburg oder das fließende Licht von Gottheit», Darmstadt, Buchgesellschaft, 1980; traduzione italiana di Paola Scxhulze Belli, Firenze, Giunti, 1991, pp. 329-331):

«Caro Signor Gesù Cristo, canto questi sette salmi a lode e gloria di tutte le Tue sante pene, con le quali Tu hai subito per me la morte sulla santa Croce.
Amatissimo, Ti prego,
quando verrà il tempo in cui vorrai adempiere
il Tu comandamento in me mediante la morte,
vieni da me
come un fedele MEDICO da suo figlio
e concedimi, Signore, una santa sofferenza
per prepararmi con giusta disposizione d’animo
e nella vera fede cristiana.
Domine, ne in furore.
Ti prego, carissimo Signore,
di venire poi (alla mia morte)
come l’amatissimo AMICO nel mio bisogno.
E portami, Signore, la vera contrizione.
Siano i miei peccati annientati
E dopo questa vita
Non mi diano più dolore.
Beati quorum remissae.

Ti prego, amatissimo Signore,
di voler poi venire
come il fedele CONFESSORE  al suo caro amico.
Portami la vera luce
del dono del Tuo Spirito Santo
che io conosca il mio intimo volto
e pianga di cuore i miei peccati
venga assolta l’anima mia
e io venga trovata pura.
Dammi, Signore, il Tuo stesso corpo:
io poi, Amatissimo,
con così grande amore lo possa ricevere
come mai cuore umano abbia potuto.
Tu però rimani con me
e sii viatico per la mia anima derelitta,
e lascia che io sia la Tua cara compagna,
Amatissimo, con Te nell’eternità. Amen.
Domine, ne in furore.

Ti prego, mio caro Signore,
vieni come FRATELLO fedele
alla sua cara sorella.
Portami la santa armatura
e la mia anima sia pronta.
Allora i miei nemici non mi potranno nuocere,
se si alzano ad accusarmi:
che si vergognino dello zelo e delle lusinghe
usati verso di me.
Miserere mei, Deus.

Ti prego, Signore, vieni in quest’ora,
come PADRE fedele a suo figlio,
e proteggi poi la mia fine.
Quando la mia bocca peccatrice non potrà più parlare,
parla Tu alla mia anima intimamente
per consolarla e proteggerla sempre,
che mi rallegri e non rattristi.
Ciò T’invoco, o Signore, per il Tuo ricco dono.
Domine, exaudi orationem.

Ti prego, Signore, di voler poi mandarmi
La Tua Madre  verginale,
di Lei non posso privarmi.
Possa Lei esaudire il mio grande desiderio
e proteggere la mia povera anima da tutti i nemici.
De profundis calmavi.

Ti prego, caro giovinetto
Gesù, Figlio della pura Vergine,
vieni come mio amatissimo SPOSO
e regna poi su di me,
come fanno i nobili sposi,
quando danno alle loro spose i ricchi doni del mattino.
Vieni ad accogliermi nelle braccia del Tuo amore
E coprimi col manto del Tuo grande desiderio!
Felice me, allora non sarò legata a nulla.
Se pensassimo spesso a quell’ora
La nostra superbia del tutto perirebbe.
Se Dio mi vuol mostrare il Suo nobile volto,
l’anima avrà il suo gioco agognato,
qui devo invocarlo in mezzo alle sofferenze:
mai si realizzerà sulla terra questo mio desiderio.
Domine exaudi or.m. auribus percipe.»

Con potenti immagini visionarie che sono anche, al tempo stesso, sottilmente sensuali, Mechthild von Magdeburg invoca Dio in una settuplice forma: lo invoca come un medico che soccorre il malato; come un amico che soccorre l’amico bisognoso; come un confessore che soccorre il peccatore; come un fratello che soccorre la sorella in pericolo; come un padre che assiste il figlio in punto di morte; come uno sposo che accoglie la sposa e la copre con il manto del suo grande desiderio (metafora particolarmente ardita).
Da ciascuna delle sette similitudini erompe un’anima ardente, assetata di verità e di pace, anelante al conforto e alla quiete in vista dell’ultimo traguardo: la morte, che si delinea come in controluce, presenza irrevocabile e tuttavia non paurosa, ma, anzi, sostanzialmente amichevole, purché non venga a mancare all’anima il soccorso divino.
Nata intorno al 1208 in una famiglia dell'aristocrazia feudale e morta verso il 1283, Mechthild von Magdeburg non fu suora, come la sua omonima e contemporanea Mechthild von Hackenborn, monaca benedettina e altra grande figura di mistica tedesca, che con lei condivide la possibile identificazione con la Matelda dantesca del Paradiso Terrestre. La sua vita si svolse in gran parte presso una comunità di beghine: donne che, pur rifiutandola vita del mondo, non scelsero neppure di prendere i voti; donne scomode, quindi, come è provato dalle persecuzioni che le loro comunità subirono, di tratto in tratto, da parte dell'autorità ecclesiastica, e specialmente per iniziativa dell'ordine domenicano.
Che alcune delle visioni di Mechthild von Magdeburg - visioni che ella cominciò ad avere all'età di sette anni - dovessero riuscire a dir poco sgradite alle gerarchie ecclesiastiche, è fuori di dubbio; basti leggere le parole di aspra censura che ella adopera per stigmatizzare i vizi e l'avidità del clero del suo tempo, vescovi inclusi: parole ardite, che avrebbero potuto costarle serie conseguenze, se non fosse stata in certo qual modo protetta dalla fama di santità della sua vita. Tuttavia, non era tanto questo a rendere spinosa e problematica la posizione di una donna come Mechthild von Magdeburg, quanto il fatto che le beghine, cui apparteneva, non accettavano di lasciarsi rinchiudere in nessuno dei due ruoli sociali previsti per le donne nel Medioevo: quello di moglie e madre, e quello di monaca.
Non si deve, però, esagerare l'ostilità della Chiesa e della società tutta nei confronti di questa rivendicazione della specificità femminile, nell'ambito di una società sostanzialmente maschilista, come hanno fatto tanto storici di formazione illuminista o di tendenza più o meno apertamente anticattolica e anticristiana. Il Medioevo non è  stato solamente un'epoca di roghi delle streghe e degli eretici, ma anche e soprattutto una lunghissima, straordinaria stagione di fioritura della spiritualità, della cultura e dell'arte.
Tornando, ora, alla sua fondamentale opera «La luce fluente della Divinità» - che ella scrisse, raccontandovi le proprie visioni, su invito del suo consigliere spirituale, il padre domenicano Heinrich von Halle - e al capitolo intitolato «Dei sette salmi», sopra riportato, colpisce particolarmente il lettore moderno quel richiamo esigente, imperioso, senza compromessi, alla propria verità interiore, che ricorda, per certi versi, il socratico «conosci te stesso».
A un certo punto, Mechthild scrive testualmente: «Portami la vera luce / del dono del Tuo Spirito Santo / che io conosca il mio intimo volto / e pianga di cuore i miei peccati». Ebbene, in quel «che io conosca il mio intimo volto» vi sono una tale esigenza di profonda introspezione, una così vigorosa affermazione della assoluta priorità della discesa in se stessi, rispetto ad ogni altro richiamo e a qualsiasi altra esigenza dell'anima, che non si può fare a meno di rimanere commossi e pensosi davanti alla loro straordinaria intensità e attualità.
Ci si sente più che mai contemporanei di una grande anima, come quella di Mechthild von Magdeburg (e, in un certo senso, di ogni anima grande e pura che sia mai passata per il cammino terreno, o che vi passerà in futuro), e non per merito nostro, ma proprio per la sua straordinaria capacità di cogliere e descrivere perfettamente, con immagini ardenti di amore mistico, una dimensione eterna del cuore umano, quindi anche del nostro.
Al tempo stesso, si avverte, e quasi si tocca con mano, l'artificiosità e l'inconsistenza dei nostri pregiudizi di uomini «moderni» rispetto al mondo spirituale delle società pre-moderne, banalmente catalogate come oscurantiste e superstiziose. La verità è che la vita dell'anima non conosce i concetti di «antico» e «moderno», perché essa è, nella sua propria essenza, atemporale ed eterna.
Ma che cosa cerca, in realtà, il mistico, allorché si avventura nel suo difficile e sublime cammino alla ricerca di Dio, nella sua ascesa solitaria verso la luce della divinità?
Essenzialmente, si potrebbe dire che egli cerchi quella perfezione cui la sua anima aspira, ma della quale sente di essere povero.
La persona comune, che vive in maniera più o meno superficiale, avverte anch'essa un vago senso di insoddisfazione, di mancanza, di vuoto; e, istintivamente, si rivolge verso l'altro, per riempire quel vuoto e per placare quella insoddisfazione. Ma è ben raro che essa raggiunga quello che oscuramente va cercando; e, quand'anche vi riesca, non vi troverà mai quella perfezione, quella pienezza, quella felicità che, sole, potrebbero darle l'appagamento e la pace. Sempre qualcosa la pungola, sempre qualcosa la tedia e la tormenta, come un insetto molesto.
Il mistico è colui che bada all'essenziale e, spogliatosi di ogni inutile zavorra, punta dritto verso la fonte di ogni appagamento e di ogni pace: verso quella pienezza dell'Essere in cui si trova la somma di tutte le perfezioni, in cui nulla manca perché si realizzi la felicità.
Mechthild von Magdeburg ha percorso questa strada e vi ha trovato, al termine di un lungo cammino solitario, la ricompensa di una Luce fluente che irrompe nell'anima, disperde le ombre dell'inquietudine e avvolge ogni cosa nel suo magico abbraccio.
Ma, per poter intraprendere un cammino del genere, è necessario esercitare la capacità di stare in solitudine, di porre la propria anima in ascolto, di guardarsi dentro con estrema onestà, senza facili indulgenze e senza compiacimento di alcun tipo: in breve, liberandosi del piccolo, meschino ego che sempre brama qualcosa, e abbandonandosi al flusso potente e gioioso dell'Essere, che tutto abbraccia e tutto indirizza verso di sé.
E lì, nel vuoto che non è più senso penoso di qualcosa che manca, ma abbandono coraggioso di ciò che trattiene ed impedisce, si realizza, ad altezze rarefatte, e nondimeno accessibili con l'aiuto della Grazia, il mistico incontro dell'anima con la pienezza ineffabile del proprio Principio.