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Le vite che non abbiamo vissuto ci tormentano come arti amputati

di Francesco Lamendola - 15/12/2009

 

Che cosa sarebbe stato di noi, della nostra vita, se venti, trenta o quarant'anni fa, giunti a un determinato bivio, avessimo imboccato una strada diversa da quella che effettivamente abbiamo preso? Se, ad esempio, avessimo trovato un altro lavoro, un'altra professione; se avessimo incontrato un'altra compagna o un altro compagno di vita; se avessimo incrociato i nostri passi con altri amici, con altre opportunità, con altre situazioni?
Possono sembrare domande oziose: sia coloro i quali credono fermamente che il caso domini ogni evento, sia, all'opposto, coloro i quali ritengono che ogni accadimento sia rigorosamente predeterminato (due opposti estremismi filosofici che si elidono, per così dire, a vicenda, poiché convergono nella conclusione che l'uomo non è minimamente padrone del proprio destino), alla fine concordano sul fatto che a nulla giova chiedersi se la nostra vita avrebbe potuto essere diversa, a parità di condizioni e di sviluppo spirituale.
Ma siamo sicuri che sia proprio così? Non potrebbe darsi, invece, che una riflessione sui bivi principali del nostro percorso esistenziale, prospettandoci diverse scelte da parte nostra e aprendoci, quindi, differenti scenari, sia suscettibile di dirci alcune cose interessanti su noi stessi, su ciò che riteniamo importante, sul dominio che sappiamo esercitare sulla nostra volontà, in vista di un determinato fine e alla luce di ben precisi valori?
A meno di cadere nell'adorazione dell'esistente, così come esso è e qualunque esso sia - posizione tipica dell'idealismo, sia hegeliano che crociano -, forse faremmo bene a conservare una distinzione tra la realtà fattuale e la realtà potenziale: noi non siamo solamente ciò che siamo qui ed ora, ma anche ciò che potremmo essere, che avremmo potuto essere e che potremo essere un domani. In ciascuno di noi vi sono molte più cose di quel che non sembri in base alle nostre azioni, alle nostre parole e perfino ai nostri pensieri, sconosciuti agli altri; cose che non sempre trovano il modo di venire alla luce, di esprimersi e di realizzarsi; cose che, nondimeno, fanno parte di noi, e sia pure allo stato potenziale.
Dove abbiamo intenzione di arrivare, con questo genere di considerazioni? È semplice: a riconoscere che l'infinita ricchezza di possibilità in noi contenute, viene, per forza di cose, più o meno gravemente mortificata dalle circostanze concrete della vita. Ad ogni scelta che compiamo, infatti (e non sempre si tratta di libere scelte, come ben sappiamo), i sentieri che non abbiamo percorso, le strade che abbiamo scartato, rimangono alle nostre spalle, ma non cessano però di esistere: continuano a sopravvivere allo stato potenziale.
Lo scrittore americano di fantascienza Murray Leinster ha svolta una penetrante riflessione in proposito (cit. nel libro di Peter Kolosimo «Cittadini delle tenebre» (Torino, MEB, 1971, pp. 124), che riportiamo:

«"Immaginiamo che, giunti ad un bivio, indeciso sulla sorte da pendere, io lanci in aria il classico soldone. Qualunque sia la scelta del fato, sul sentiero che percorrerò m'imbatterò in determinate caratteristiche topografiche, vivrò determinate vicende. Le une e le altre non saranno mai identiche a quelle che contraddistinguono il secondo sentiero, quello che ho scartato.
È chiaro, quindi, che nel decidere fra una delle due soluzioni che mi si sono presentate, io non avrò soltanto dato la preferenza a queste o quelle caratteristiche topografiche, ma avrò scelto fra due diverse catene d'avvenimenti, di vicende, d'episodi. Avrò scelto non solo quella strada tracciata sulla superficie della Terra, ma quella, e non un'altra strada, tracciata nel tempo.
E così, come due strade diverse mi condurrebbero a due diverse città, due sentieri diversi aperti sul futuro mi potranno condurre a due futuri differenti l'uno dall'altro. Mentre il primo potrà offrirmi una situazione che mi porterà al successo, alla ricchezza, l'altro mi potrà gettare banalmente sotto le ruote d'un autocarro, condannandomi a morire.
In sostanza, i futuri nei quali ci possiamo imbattere sono più di uno: noi ne scegliamo uno, ma quelli che non abbiamo scelto esistono veramente, come i sentieri non percorsi, sono realtà.»

Dobbiamo mettere bene in chiaro una cosa.
Noi non stiamo ponendo la questione se, di volta in volta che la nostra vita giunge ad un bivio, noi avremmo potuto, oppure no, imboccare sentieri diversi da quello che effettivamente abbiamo preso; questione che, in questa sede, non ci interessa, e sulla quale, in ogni caso, ci sembra getti sufficiente luce la  dottrina indiana relativa al «karma»: vale a dire che le opzioni della nostra vita sono il risultato di un certo bagaglio spirituale, determinato a sua volta dal frutto delle nostre azioni, laddove esse siano ispirate da timore, desiderio e ignoranza.
No; quel che ci stiamo domandando è che cosa ne sia di quei sentieri non percorsi, di quelle strade trascurate, di quelle vite non vissute, che avrebbero potuto far parte di noi e che, ad un certo punto, sono state vicinissime ad esserlo.
Secondo la concezione materialista e pragmatica oggi largamente dominante, esistono solo le strade che vengono percorse e le realtà che vengono concretizzate. Questa concezione presenta apparenti somiglianze con quella di George Berkeley, sostenitore del principio che «esse est percipi», l'essere è l'essere percepito. Apparenti, però: perché, per il filosofo inglese, al di sopra delle menti finite, che percepiscono una data realtà e, percependola, la fanno vivere, esiste una Mente infinita, che pensa ogni cosa in tutte le menti finite, e conferisce esistenza permanente all'universo che, altrimenti, esisterebbe solo negli intervalli in cui viene effettivamente percepito da uno o più soggetti pensanti.
Esistono, al contrario, valide ragioni per supporre che le strade della vita non incominciano ad esistere solo nel momento in cui, avanzando, per così dire, all'interno di essa, noi le trasformiamo da semplici possibilità in realtà effettuale. Tanto per cominciare, infatti, bisognerebbe domandarsi come sia possibile che noi, inoltrandoci nella nostra vita, possediamo la capacità di materializzare una serie di circostanze, traendole, per così dire, dal nulla: è possibile che noi siamo realmente i depositari di un potere così stupefacente, come se fossimo i creatori di ciò che, prima, non esisteva? Non è molto più semplice e ragionevole supporre che noi ci limitiamo a conferire una esistenza effettuale a qualche cosa che già esisteva allo stato latente?
E, se già esisteva la singola scelta che abbiamo fatto - ad esempio, quella di prendere a destra invece che a sinistra -, ciò non è forse un indizio eloquente del fatto che esistevano pure le altre possibilità; che esistevano, dunque, e non soltanto che avrebbero potuto esistere? Avremmo potuto imboccare la strada di sinistra, se non fosse esistita anche quella che conduceva nella direzione opposta? Se esistono determinate opzioni, ciò non attesta che esistono anche quelle divergenti: che esistono realmente, e non solo teoricamente?
Un discorso analogo, del resto, si può e si deve fare riguardo alla dimensione spazio-temporale, che a noi, finché vi siamo immersi con il corpo fisico, si presenta frammentata in unpassato, un presente ed un futuro, nonché in un qui e in un altrove; mentre invece, considerata da un punto di vista superiore a quello fisico, rivela sua natura unitaria e indifferenziata, onnicomprensiva ed eternamente contemporanea.
Ebbene, se le cose stanno così - e noi lo riteniamo assai probabile, anche se non esistono prove inconfutabili che ciò sia vero - non risulta affatto ozioso domandarsi che ne è delle strade non percorse, delle vite non vissute; e soprattutto, quale ruolo esse, pur nella loro assenza, possano continuare a svolgere nella nostra vita attuale.
Oppure qualcuno vorrà sostenere che, una volta scartata una certa possibilità esistenziale, essa uscirebbe per sempre dal nostro orizzonte, lasciandoci del tutto indifferenti nei suoi confronti, come se non fosse mai esistita?
Pensare così, a nostro avviso, denota una ben scarsa capacità di osservazione psicologica: chi non ha mai fatto l'esperienza di come le possibilità non scelte continuino a pesare a lungo nel nostro mondo interiore (per non dire di quello esteriore), talvolta condizionandolo, con il loro assordante silenzio, come e perfino più delle cose che abbiamo scelto?
Ha scritto al riguardo, in un suo intenso e commovente racconto del 1929, «La collezione di francobolli», lo scrittore ceco Karel Čapek (in: «Racconti dall'una e dall'altra tasca», p. 399; traduzione italiana di Bruno Meriggi, Milano, Bompiani, 1962; titolo originale.«Povídki z jedné kapsy; povídky z druhé kapsy», Cescoslovensky Spisovatel, 1961):

«… Se uno si mettesse a scavare nel proprio passato, troverebbe che in esso vi è abbastanza materia per vite completamente differenti. Una volta… per errore, oppure per inclinazione… si è scelta una di esse, e la si vive fino alla fine; ma quel che è peggio è che le altre possibili vite non sono così completamente morte. E capita talvolta che esse ti facciano male come ti fa male una gamba amputata.»

Questa è una grande verità: accade, talvolta, che le possibilità non esperite, i sentieri trascurati della nostra vita, ci facciano soffrire e giungano a condizionare il nostro presente, come un arto amputato, che, per alcun tempo, duole come se lo avessimo ancora, come se facesse ancora parte del nostro organismo. Ed è bene che sia così, perché questo ci ricorda che noi non siamo solo nel qui ed ora.
D'altra parte, parlando di arti amputati che dolgono non ci riferiamo soltanto alla categoria del rimpianto: categoria puramente psicologica e, ovviamente, sterile. Ci riferiamo anche e soprattutto alla categoria del resto ontologico, vale a dire a quella sfera residua che permane, ineliminabile, dopo che le nostre scelte sono state fatte e dopo che la nostra vita ha imboccato una sua direzione ben precisa. Per la psicanalisi freudiana, pesantemente materialista, si tratta solamente dell'inconscio personale; per quella di tendenza junghiana, l'orizzonte si amplia fino ad includere l'inconscio collettivo; ma, forse, si tratta di qualcosa di ancora più vasto: ovvero della dimensione totale dell'essere, di cui il nostro io empirico e illusorio, abbarbicato alle maschere che di volta in volta si è scelto, non è che una fuggevole caricatura.
Se, dunque, in noi vi sono molte più cose di quante non sappiamo gli altri e di quanto non immaginiamo noi stessi; se i nostri pensieri, parole ed atti non esprimono che una minima parte delle nostre potenzialità: allora significa che la dimensione rimasta inespressa non è un nulla, un non essere, ma che è parte del nostro essere: una parte pienamente legittima, tanto quanto lo è la parte della dimensione manifestata.
In altre parole, non siamo costituiti solo da ciò che abbiamo fatto e vissuto, ma anche da ciò che non abbiamo fatto, ma che avremmo potuto fare, e da ciò che non abbiamo vissuto, ma che avremmo potuto vivere. In ciò sta la nostra grandezza, la nostra trascendenza, la nostra sacralità: perché qui, evidentemente, siamo in presenza di un mistero, ma di un mistero che ha a che fare con la nostra stessa essenza, con la nostra struttura originaria.
In un certo senso, la cosa in sé che siamo noi non si lascia mai afferrare e circoscrivere: e la cosa che si manifesta, la nostra parte empirica, solo apparentemente rivela la nostra struttura ontologica, mentre è vero, al contrario, che essa tende a velarla ed a nasconderla. Stupefacente conclusione: la nostra parte più vera non è in ciò che siamo, ma in ciò che potremmo essere; non è nell'atto, ma nella potenza; e la parte che crediamo sostanziale è, in realtà contingente, e viceversa.
Ecco perché in ogni essere umano si dovrebbe rispettare e onorare quella parte, sacra e profonda, che giace allo stato potenziale, intatta, verginale, a dispetto dell'io empirico che si manifesta esteriormente, e che ci appare così spesso meschino e volgare.
Parafrasando Shakespeare, potremmo dire che vi sono più cose fra la terra del nostro io empirico ed il Cielo della nostra struttura originaria, di quante ne possa sognare tutta la nostra filosofia.