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Elogio all’idea di frontiera

di Luca Leonello Rimbotti - 22/12/2009


 

 

czeslaw-milosz_fondo magazineIl poeta lituano Czesław Miłosz [nella foto] scrisse negli anni Cinquanta del Novecento qualcosa che appare come uno dei più struggenti e viscerali atti d’amore verso l’Europa, intesa come unità identitaria millenaria, unitaria e compatta, e come il luogo del riconoscimento del Sé. È questa la dimora degli atavismi che ci guidano, in cui accade il ritrovare se stessi e i se stessi dell’Altrui prossimo, che ci appartengono per storia, per cultura, per consanguineità ed eredità di tipi fisici e mentali, per istinto di vicinanza verso ciò che ci è simile e ci suona familiare, gradevole, conosciuto. Il ritorno a casa di cui parlava Hölderlin esprime l’idea profonda del riprendersi ciò che è in proprio possesso: e possessus è innanzi tutto il dominio su di sé, ciò che rimanda all’uomo sano, bilanciato, in ordine nella mente e nel corpo e con ciò che lo circonda.

Con modi del tutto originali e di inusuale profondità, Miłosz parlò dunque dell’Europa come di un sistema unico composto essenzialmente di odori: gli accadeva andando qua e là per il continente, magari in Svizzera, di riconoscere i medesimi odori che gli ricordavano la patria baltica. Questo simbolo carnale e sensuale dell’identità – quasi l’Europa fosse un corpo – lo ritroviamo in un altro esponente delle residuali “piccole patrie” che sono vive ancora oggi specialmente ad Est: lo scrittore polacco Witold Gombrowicz, giungendo negli anni Sessanta a Berlino dopo una lunga permanenza in Argentina, capì di «essere tornato a casa» dagli odori che lo avvolsero mentre si trovava nel Tiergarten. Miłosz scrisse di un’Europa che era il nido avvolgente, era un abbraccio che racchiudeva una civiltà che aveva impiegato secoli per saldarsi, infine, in un unico quadro di valori condivisi: «L’Europa mi prendeva nel suo abbraccio caldo e le sue pietre sgrossate dalla mano delle generazioni passate, la folla dei suoi volti che emergevano dal legno scolpito, dalle pitture e dalle stoffe trapunte d’oro, mi placavano, inserivano la mia voce nel cuore dei suoi antichi richiami e giuramenti, malgrado la mia ribellione contro la sua lacerazione e morbosità. Malgrado tutto, la mia Europa». Tale è la sensibilità per il luogo racchiuso, entro il quale si compie il miracolo dell’identità.

Aggiungiamo poi quanto Milan Kundera scriveva negli anni Ottanta circa un’Europa centrale, essenzialmente germanica, come «terza Europa», da affiancare alla prima, quella romano-latina dell’Ovest, e alla seconda, quella bizantina dell’Est: simboli geo-storici della variegatezza che è nel simile. Tutti questi scrittori, che lamentavano l’oblìo occidentalista dei retaggi europei in nome del cosmopolitismo atlantico, sono non a caso di cultura euro-orientale, non ancora “occidentalizzata”: in essi rimane intoccata la capacità di riconoscere come essenziale la dimensione del “confine”, quel qualcosa che ancora un östlich, lo storico polacco Krzysztof Pomian, ha definito fondamentale al fine di dare un senso alle cose umane: l’idea di frontiera. «La storia d’Europa è quella delle sue frontiere».

Quando si parla di qualcosa, siamo costretti a usare delle definizioni: cioè delle de-limitazioni, ponendo barriere che isolino ogni concetto da qualunque altro. Senza questo tipo di frontiere concettuali, nessun ragionamento umano può avere un senso. E alle frontiere concettuali e astratte tipiche dell’organizzazione mentale umana, tengono dietro con naturalezza le frontiere corporee, fisiche, culturali e territoriali, fino a quelle sociali o politiche. La delimitazione, il porre dei limiti (propriamente il discriminare, poiché il discrimen è esattamente la frontiera) è una funzione che si applica tanto alla ragione astratta quanto alle cose reali: non è un caso, ad esempio, che ognuno di noi abiti in case delimitate da mura che le separano dalle altre e dallo spazio aperto. Senza muri che dividono e creano opportuni discrimini, il concetto stesso di casa viene meno.

L’attuale istigazione alla negazione dell’idea di frontiera rischia di svellere dalle fondamenta la stessa capacità razionale dell’uomo, avviandolo verso i mondi dell’illimite in cui si agitano i fantasmi dello smarrimento, della perdita del centro, della fuga da ogni ancoraggio psicologico o fisico quale che sia, e mandando in rovina persino le percezioni più intime, quelle più immediatamente vitali. Il delirio per uno spazio-mondo privo di approdi nasconde ciò che gli antichi Greci consideravano una delle depravazioni dell’uomo: la folle smisuratezza.

L’obiettivo dei cosmopoliti consiste oggi nel destabilizzare l’integrità delle facoltà razionali e immaginali delle masse, sulle quali poi intervenire secondo i programmi di uniformazione universale. Il risultato finale di tale operazione sarà una vera e propria demenza sociale, l’incapacità, cioè, di stabilire in maniera equilibrata un contatto psicologico tra l’uomo e gli altri e con lo spazio da lui abitato. Oggi esistono ben individuate centrali della dissociazione mentale e anìmica che lavorano costantemente alla demolizione del rapporto naturale tra l’uomo e l’idea ancestrale di limite, connaturata alla personalità umana sia nella dimensione individuale che in quella socializzata.

In talune università americane di punta, in certi centri-studi di statistica o di psicologia sociale, in scuole ideologiche liberiste al servizio della globalizzazione coscienziale prima ancora che politica o economica, tutte quante largamente sovvenzionate dai poteri finanziari interessati allo smantellamento delle resistenze, si lavora alacremente per abbattere con un profluvio di prodotti propagandistici para-scientifici il naturale nesso che corre tra l’uomo e la sua idea di appartenenza a un luogo, a un’idea, a un simbolo esistenziale, ben marcato e differenziato, e avvertito sin nel profondo come proprio. La volontà è precisamente quella di sovvertire l’intera cultura mondiale attinente i processi di legame – cioè quel vincolo che legando a qualcosa, necessariamente divide da qualcos’altro –, su cui da sempre si fonda l’esperienza umana della convivenza e del nesso che corre tra spazio e cultura, tra luogo del convivere e rappresentazione di sé, tra corpo mio e corpo suo, tra retaggio nostro e altrui.

La parola frontiera racchiude il lemma etimologico latino frons, che è la fronte, la parte del corpo umano che per l’appunto fronteggia quanto è esterno a noi e ci sta di fronte: tale concetto rispecchia con esattezza geometrica la realtà fisica e psicologica dell’uomo, costituendo la perfetta traduzione segnica di valori fisiognomici concreti, afferenti la percezione psico-fisica delle cose quali esse sono. Tra il corpo umano e la concezione del mondo c’è un’immediata corrispondenza. Se crolla questa sensazione vitale della dimensione bio-comportamentale, si capisce che crolla la capacità stessa di concepire correttamente  il proprio corpo e le proprie funzioni, sfaldando il senso della propria fisicità rispetto al mondo, la comprensione del movimento, dello spazio, del comportamento, eliminando la nozione fisiologica e psichica di volto, di apprezzamento della realtà, della profondità, della distanza, etc. Si comprende altrettanto bene che, attaccando sottilmente queste funzioni vitali della fisiognomica, partendo da lontano con l’aggredire il concetto di limite e di frontiera, si scuotono dalle fondamenta tutti i patrimoni di conoscenza primaria che ne discendono in linea retta: appartenenza, legame, identità, parentalità, riconoscimento del Sé e dell’Altro, socializzazione, senso del limite, fino all’istinto di conservazione, alla capacità di discernere tra lecito e illecito, tra bello e brutto, etc.

Le centrali mondiali che lavorano per rovinare i popoli in quanto entità distinte, separate e quindi distinguibili naturalmente tra loro, sanno molto bene ciò che fanno: esse iniziano la loro opera di demolizione attaccando l’individuo da ogni lato, cercando di privarlo delle nozioni elementari e istintuali di attaccamento biologico al corpo e ai segni potenti che esso racchiude, eliminando così alla radice ogni sensibilità per ciò che è il plasma germinativo su cui nasce ogni rappresentazione immaginativa, rappresentativa e simbolica: il corpo. Questo carnale sistema di certezze è un vero manifesto ideologico semovente: esso comprova apertamente che esistono la somiglianza con il simile e la dissomiglianza dal dissimile, dimostra la genealogia e l’ereditarietà, rende evidente la diversità di ceppi e stirpi. Eliminata questa evidenza del corpo che parla da solo, che racconta di origini, anime, destini diversi, l’uomo diventa una merce intercambiabile, una massa alterabile, una materia grezza su cui intervenire con la manipolazione e la standardizzazione dei tipi, secondo i modelli voluti.

Non altra funzione hanno il martellamento pacifista, libertario, non-violento, universalista, intesi a spegnere gli istinti primari e il senso protettivo della vita che è in noi per natura; oppure la propaganda anti-identitaria legata al multiculturalismo, alla società mista e a-etnica, volti a distruggere il rispecchiamento nella reciprocità; oppure, ancora, la sobillazione verso l’accoglimento di presupposti del tutto innaturali come, ad esempio, il matrimonio tra omosessuali, l’adozione di figli etnicamente esogeni, l’ingegneria genetica, oppure la chirurgia plastica, costantemente presentati come fasi del superamento di ogni affezione verso i caratteri propri, al fine di spingere quanta più gente possibile a considerare come normale il cambiamento dei connotati fisici. Con risultati di perversa, dai più inavvertita, ma costante e programmata erosione del sentimento di riconoscimento in ciò che ci è di più proprio, di più intimo, come i caratteri fisici del nostro corpo.

Tutto questo non è che un “pacchetto” ideologico che mira diritto alla desertificazione del rapporto tra l’Io e il Non-Io, tra il Noi e l’Altro, così da erigere, su questo deserto coscienziale, i dogmi dell’indifferenziato, del manipolabile a piacere, insomma dell’anti-Natura sempre e comunque, dell’inumano per amore o per forza.

Noi rivogliamo indietro le nostre frontiere vecchie, quelle stabilite da Madre Natura e sancite dalle lotte e dai sacrifici millenari dell’uomo.

Ciò che, ad esempio, era racchiuso nella concezione greca di complementarietà tra Kratos e Bia, tra potere e forza fisica, entità divinizzate, oppure nell’idea, altrettanto divina, di Mnèmosyne, la memoria di ciò che si è stati all’origine e si intende rimanere.  Noi discendiamo – piaccia o non piaccia ai globalizzatori – da quel popolo romano che innalzò altari al dio Terminus: il dio dei confini.

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