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…e non chiamateli anni Settanta

di Miro Renzaglia - 22/12/2009

anni 70_fondo magazineIl bombardamento mediatico successivo al ferimento di Silvio Berlusconi ad opera di uno psicolabile dichiarato, ha ridato fiato alle trombe dei catastrofisti evocatori degli anni 70. Lasciamo stare chi non vede l’ora di riviverne i fasti, come Santoro e sua compagnia poco bella (Travaglio, Vauro, etc…), i quali, in quella battaglia di religione antiberlusconiana che è diventata la loro ossessione, un bel ritorno alle spranghe e alle P38 pensano gioverebbe. E lasciamo stare anche Giampaolo Pansa che già da questa estate, se non prima, compie lo sforzo di equiparare questi anni e questo clima al decennio passato agli archivi come “anni di piombo”. C’è da preoccuparsi, invece, se a cascarci è persino un osservatore di solito equilibrato ed obiettivo come Pierluigi Battista che sulle pagine del Corsera non esita a presagire, addirittura, una incombente guerra civile.

Ora, non voglio cadere nella facilità popolare del proverbio che predica: “Tanto tuonò che infine piovve”. Gli è che a me non sembra ricorrano nemmeno lontanamente i presupposti che determinarono quella tragica stagione. Infatti, la prima obiezione che mi viene da fare ai cattivi auspici è quella di osservare che non esiste alcuno scontro ideologico in corso determinato da contrapposizioni politiche interne che riflettevano in micro le macro contrapposizione dei blocchi est-ovest, Nato-Patto di Varsavia, capitalismo-comunismo: c’è, ormai, un unico orizzonte condiviso che si chiama liberismo o libero mercato. Né vedo contrapposizioni antropologiche di classe: sfido chiunque a distinguere le aspirazioni dell’individuo fra borghese e proletario se non nel fatto che i primi hanno i bisogni soddisfatti e gli altri li coltivano ancora come desiderio: troppo poco per rimetterli violentemente contro.

E’ del tutto sbagliata, poi, l’osservazione che ha fatto pochi giorni fa Marco Travaglio il quale, insofferente all’apertura di Massimo D’Alema ad una ipotesi di compromesso fra il Pd e l’attuale governo per giungere a qualche riforma necessaria per il paese, ricordava (in maniera difettosa e forse volutamente fraudolenta per i suoi scopi) che fu il cosiddetto “compromesso storico” (l’accordo di non belligeranza governativa per i superiori interessi della nazione fra Dc e Pci) a determinare l’escalation che portò alla lotta armata. Semmai, fu la lotta armata che si innescò dopo la strage di Piazza Fontana nel 1969 e progressivamente divampò sulle piazze italiane, sui treni e nelle stazioni ferroviarie, a portare a quell’inciucio fra maggioranza e (presunta) opposizione.

Certo, sono ben lungi dal pensare che viviamo in una società e in una nazione normali. E nemmeno sono così sprovveduto da non accorgermi che non abbiamo affatto debellato la violenza dal contesto del nostro vivere civile. Non l’abbiamo debellata nelle strade e nelle piazze, dove, a turno, i mente-labili preda di ogni fobia scatenano i propri istinti belluini contro qualsiasi forma di diversità incuta loro il terrore della propria presunta normalità identitaria minacciata: dai gay, agli immigrati, ai tifosi della squadra avversaria. Né l’abbiamo debellata come forma risolutiva e armata delle dispute internazionali alle quale, anzi, oggi partecipiamo direttamente, cosa impensabile negli anni 70. Semmai, assistiamo ad una escalation di violenza verbale fra partiti istituzionali e addirittura fra  istituzione e istituzione. Una violenza verbale, che sempre nei fatidici “anni di piombo” era esercitata esclusivamente sui fogli di gruppi e gruppuscoli extraparlamentari, oggi è appannaggio di quasi tutte le testate giornalistiche nazionali.

Ma anche tutta questa violenza, signori, non basta a stabilire un’equazione o anche un semplice rapporto di attendibilità fra gli anni 70 e quello che abbiamo sotto gli occhi oggi. Perché c’è un fattore di discrimine che  nega ogni possibile rassomiglianza: ed è l’etica. Un valore che non riesco a rintracciare oggi nelle dinamiche politiche correnti. E mi spiego.

Sugli anni Settanta e sulle dinamiche che lo hanno caratterizzato, in piena umiltà, ma anche con forte consapevolezza, ho detto la mia in splendida “solitudine accompagnata” (l’ossimoro è apparente…) di un ex militante di Avanguardia operaia, Marco Palladini, in un libro edito per i tipi del Settimo Sigillo, I rossi e i neri, già nel 2002… E’ stato un libro che mi è costato moltissimo scrivere perché comportava la necessità di fare una volta per tutte i conti con gli errori e con gli orrori di quegli anni…

Errori ed orrori, ho scritto, certo: quelli furono… E chi ha avuto la voglia e la possibilità di leggere le pagine di quel libro, tutto può avervi trovato tranne che l’enfasi di considerare “formidabili quegli anni” o scorgere una barlume di nostalgia per essi. Ciononostante, non riesco a considerare la scelta della mia generazione di scendere comunque in piazza come atto di pura cattiveria o stupidità. Il rapporto fra uomini (ancorché adolescenti) e spirito dei tempi è – io credo – un tantinello più complesso dal giudizio che poi di loro – uomini e tempi – viene fatto a posteriori… Non paia una imputazione, un atto di pregiudizio o di presunzione, se dico che quei tempi (gli anni Settanta…) li può leggere bene (e non sempre… e non chiunque…) solo chi in qualche modo li ha vissuti attivamente.

In quel libro scrivevo, proprio nelle prime pagine – e vogliate perdonare l’autocitazione: «Caro Marco [mi rivolgevo epistolarmente al coautore Marco Palladini], negli anni della nostra giovinezza, ci siamo scatenati contro una guerra (in)civile che non ha cambiato niente in meglio (in peggio, invece, sì…). Ci siamo odiati, scontrati, sprangati, sparati. Fu orrendo il modo e sbagliata la causale del versamento. La nostra generazione ovunque schierata non può sentirsi né fiera come i resistenti dell’ultima guerra, né onorata della sconfitta come i combattenti della Rsi. (…) I reduci degli “opposti estremismi” non possono né devono permettersi alcuna retorica…». E concludevo: «Non so se i figli che leggeranno (quando e se leggeranno…) potranno capire. A loro, tutto è dovuto. Da loro, nulla è lecito pretendere. Mi preoccupa il pensiero che possano sbagliare nemico, come abbiamo fatto noi. E con noi, ricadere nella stessa fossa biologica…».

Ora, però, vi è da dire che di fossa biologica non ne esiste una ma molte e che, a ben guardare, quelle seguite nei decenni successivi non sono state meno luride della nostra: dall’avvento dell’eroina di massa, a tangentopoli, dalla pervasività conclamata delle organizzazioni di stampo mafioso nella vita pubblica, alla svendita, dopo quella nazionale, perfino della sovranità della moneta  a super entità incontrollabili come il Fmi o la Bce; dall’invadenza delle opzioni sicuritarie, alle guerre trasversali contro il terrorismo planetario, alle missioni di pace in armi per consolidare gli assetti delle grandi confraternite criminal finanziarie.

Il che darà pure agio a qualcuno di occupare nicchie comode per i suoi bisogni, fatto che non trovo di per sé disdicevole, anche se non lo invidio affatto, ma mi sembra che, pur senza voler minimamente rimpiangere i famigerati anni 70, quei maledettissimi anni recavano in seno un’etica che potremo definire  di assoluto disinteresse personale fino al possibile prevedibile esito di una forma di sacrificio di sé. Quelli successivi, invece, mi sembrano viziati da “un’etichetta” che ha rinunciato a qualsiasi scelta che non sia dettata del proprio tornaconto.

Lecito barattare l’etica con l’etichetta. Meno lecito ritenere l’etichetta una conquista dei tempi e degli uomini che hanno capito come va il mondo. E, meno che mai, pensare che l’etichetta valga a far salire le nuove generazioni sulle barricate…