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Il solitario Beckett

di Marco Iacona - 22/12/2009

Il 22 dicembre del 1989 – vent’anni fa – se ne andava per sempre uno dei personaggi più rappresentativi di quella che fu l’avventura del Novecento letterario europeo, Samuel Beckett e se ne andava in silenzio, in braccio a quel nulla che aveva inseguito per quasi tutta la propria esistenza artistica. Insieme a Ionesco di pochi anni più giovane, Genet e Adamov, Beckett era stato uno dei rappresentati di quello che il critico Martin Esslin aveva qualificato come teatro dell’assurdo, un genere (se proprio vogliamo dargli dei confini) che evidenziava la crisi dell’uomo contemporaneo attraverso la mancanza di logica e la logica (vedi le parole?) difficoltà/impossibilità di comunicazione. Uno dei testi rappresentativi del teatro dell’assurdo era stata “La Cantatrice calva” di Ionesco messa in scena nel 1950, un lavoro quasi “paradigmatico” ricco di un dialogo fitto e insistente, creato su situazioni o proposizioni senza senso, reali e irreali insieme, confusionarie, incoerenti e slegate dal contesto nel quale si verificavano. Un quadro con troppe cornici insomma.
Una così splendida ma “inutile” concretezza da far invidia a qualsiasi “realista”, in perfetto stile avanguardista e perfino esistenzialista. Ci si poteva leggere la vacuità della borghesia di metà secolo, l’inadeguatezza del linguaggio rispetto alla vita o magari perfino quella piccola o grande Entità – Dio – che prima o poi tutti si sarebbe andati a cercare. Appena tre anni dopo però sarebbe andata in scena, al Babylone di Parigi, l’opera principe di Beckett “Aspettando Godot”, qui vi trovavi invece una vera e propria esaltazione del vuoto e dell’attesa del nulla; il lavoro scritto negli anni Quaranta era un manifesto della condizione umana perennemente in attesa di qualcosa o qualcuno che non verrà mai, un misto di farsa, di tragicità e di non-senso, ove i personaggi annegavano una volontà alla quale – anche qui – era impossibile assegnare un significato univoco. Già dal titolo dell’opera “aspettare Godot” si intuivano le intenzioni dell’autore: non si sa veramente chi sia Godot, non si sa perché lo si aspetti e soprattutto cosa ci sarà ad attendere i personaggi, l’opera insomma è una lettera aperta al mondo, una condizione d’assoluta/assurda incertezza perfino di geniale incertezza “artistica” (in fondo non si sa bene perché gli attori debbano recitare un lavoro simile, sembra peraltro – ma ovviamente non lo è – che siano essi stessi a giustificare con le loro gag l’attesa del personaggio misterioso…), incertezza come cifra inconfondibile di un Novecento da poco uscito dalla seconda delle due guerra mondiali. La pièce ebbe inizialmente un successo a “macchia di leopardo” , qui celebrata, lì abbastanza denigrata, dimostrando come fosse difficile comprendere un linguaggio cosiddetto postmoderno.     
Beckett, il solitario Beckett, è stato dunque un autore profondamente novecentesco (grande innovatore e parecchio imitato, vinse il Nobel per la letteratura nel 1969, prima di Solzenicyn e Neruda), convinto come tutti i grandi interpreti dell’età contemporanea che al nuovo secolo – con tutti i cambiamenti che portava con sé – fosse opportuno abbinare nuove forme di espressione artistica. Così sia nella narrativa che nel teatro ha tolto il significato per così dire tradizionale a ogni vicenda (con inizio, sviluppo e fine) fino a rendere manifesta la sua più totale inadeguatezza a dare un corso “naturale” a qualsiasi vicenda storica. Da questo punto di vista può essere considerato quasi un esecutore testamentario della grande esperienza dell’arte d’inizio secolo quando la scrittura viene considerata – pensiamo anche a Proust  che Beckett amò in gioventù – un grande contenitore di immagini e memorie.  
Nello stesso periodo in cui Beckett scrive il suo “Godot” mette mano alla trilogia di romanzi (“Molloy”, “Malone muore” e “L’Innominabile”), che sulla scia della sua esperienza di “sgretolatore” segna dunque un punto di fondamentale novità nell’insieme convulso delle sue opere e non solo. Peraltro, egli irlandese e fortemente influenzato da James Joyce conosciuto a Parigi, inizia ad adottare per la prima volta la lingua francese (ha precedentemente letto Artaud e Céline), se si eccettuano le poesie e alcune esperienze precedenti divenute un romanzo e una pièce teatrale dal titolo “Mercier e Camier” e “Eleutheria”. Beckett oltre ad essere un grande e capacissimo sportivo, e ciò lo avvicina singolarmente a Jack Kerouac, era stato un bravo studente di lingue (esperto anche del nostro Dante), e aveva deciso che per adottare un nuovo “stile” di scrittura e di diffusione quella francese – più diretta e semplice – sarebbe stata senz’altro la lingua più adatta. Fin dal 1928 si era recato nella “Ville Lumiere” che diventerà successivamente la sua seconda patria (o forse la prima: nella seconda guerra mondiale farà la Resistenza dalla parte dei francesi fino al ‘42), qui sarà protagonista di esperienze alquanto singolari come l’aggressione fisica senz’alcuna ragione (assurda appunto, nel senso di fuori dal senso comune…) che subirà nel ’38 ad opera di un barbone; il cimitero di Montparnasse nella grande capitale europea ne custodisce peraltro le spoglie insieme a quelle dell’altro “fuoriclasse” dell’assurdo Ionesco. Molti dei suoi lavori, quelli del periodo più fortunato, saranno tradotti in italiano dal grande scrittore torinese Carlo Fruttero. Nella parte finale della sua vita da grande artigiano dei linguaggi lavorerà anche per radio e televisione. Realizzerà un film con Buster Keaton (per certi versi suo “personaggio” per eccellenza). Non si avventurerà mai in facili giudizi politici, realizzerà un’opera dedicandola a Vaclav Havel ultimo presidente cecoslovacco e vivrà sostanzialmente isolato e fuori da mode o accademie. 
Dotato di grande capacità di lavoro e dotato di una rilevante cultura “filosofica” Beckett non è certo l’autore di un solo capolavoro. Dal punto di vista del teatro da segnalare solo almeno altre tre opere: “Finale di partita” del ’56 (visione di una realtà giunta alla fine), “L’ultimo nastro di Krapp” del ’58 (cessazione del dialogo) e “Giorni felici” del ’61 (fine del movimento, immobilità assoluta). Si tratta di lavori nei quali vengono fuori le tematiche beckettiane, quel senso generalissimo di insufficienza, l’individualismo, la mancanza di Dio, fino alla inconoscibilità del destino e alla cessazione della normalità relazionale. Opere nelle quali lo stesso Beckett sembra non poter prescindere, attratto egli stesso da quel vuoto che finiva per rappresentare attraverso la propria scrittura. Resta celebre una sua frase che sembra dirci tutto, di lui: «Ho sempre tentato. Ho sempre fallito. Non discutere. Prova ancora. Fallisci ancora. Fallisci meglio». Beckett è stato un maestro della parola,  l’unica a rimanere viva seppur priva di significato all’interno di un discorso che lo scrittore ha voluto espungere dalle opere, perché privo di interessi autentici, privo di scopo, privo di un corpo tangibile: solo cenere insomma.