È una settimana di festa. Ma quale festa? Professionisti e aziende mandano evasivi biglietti d’auguri «per le prossime feste», spesso in inglese. Il timore di essere politicamente scorretti, e ferire chi viene da altre tradizioni, spinge un po’ tutti a stare nel vago. Qualche maestra zelante prepara i bambini delle elementari alla «festa della luce», nota secoli fa nelle culture nordiche. Ma qualcuno ci guadagna davvero a far sparire il Natale, se non come brand per acquisti e consumi? Non lo credo, e per diverse ragioni.
Innanzitutto perché una vera apertura multiculturale non consiste nella cancellazione delle tradizioni, ma nella loro conoscenza e valorizzazione. Gli Stati Uniti hanno fatto davvero pace con gli indiani, e avviato un’autentica amicizia con loro (e quindi con la propria storia), quando hanno cominciato a studiare le loro tradizioni, a frequentare e capire i loro riti, a conoscere le loro immagini. Narrate comunque dalla terra, i boschi, le acque d’America, anche se i bianchi non volevano ascoltare.
Chi arriva deve sempre imparare a conoscere e onorare ciò che la psicologia del profondo chiama il «genius loci», lo spirito del luogo, altrimenti non si integrerà mai veramente, e la storia procederà per conflitti e sopraffazioni.
L’ignoranza o il disprezzo delle tradizioni religiose e dei costumi (quindi dei valori profondi), genera un modello culturale privo di valori di riferimento, dove prevalgono quindi gli elementi più rozzi dell’animo umano: la ricerca di potere, la cupidigia, l’aggressività e la paura. Per accogliere, ed essere accolti, ci servono i nostri riti e credenze.
Abbiamo insomma bisogno di Gesù bambino. Come sa bene ogni bimbo, il quale, se non gliene parli e glielo rappresenti, invidierà il bambino del vicino, che invece gli racconta e gli fa il presepe. Perché i bambini vogliono il Bambinello, e spesso desiderano credere che sia lui a portare i regali più a lungo possibile, rimuovendo ogni smentita? Forse per conformismo? Nient’affatto.
Il fatto è che il Natale ha al suo centro un evento di enorme importanza sociale, il Rinnovamento del mondo, il cui protagonista è proprio un bambino, come il piccolo che ne aspetta i regali. Se si rimane vicini all’atmosfera e alla cultura originaria del Natale (quella dei Vangeli che ne parlano e non delle pubblicità del tutto indifferenti alla questione), non è difficile partecipare a questo periodo di cambiamento, in cui silenziosamente qualcosa nasce e cambia la realtà attorno a sé.
Ogni bambino, che è già «nuovo» di suo, non ancora ingombrato da mille incrostazioni culturali, sente tutto questo istintivamente, e lo ama. Fino a quando, nel corso degli anni, la pesantezza affettiva, materiale, degli adulti (che faticano a ri-nascere) lo stacca dall’emozione della nascita e lo imprigiona nel mondo degli oggetti.
Il Natale però, questo rito così particolare dell’esperienza antropologica cristiana, non si limita a dare significato e onore all’infanzia, costituendo così un potente momento di incontro coi bimbi, che saranno poi gli adulti di domani. In quanto giorno (e periodo) di rinnovamento, preceduto da un lungo Avvento (l’indispensabile processo psicologico e spirituale che lo consente), è una risorsa vitale per la società, che ha bisogno di periodi di rigenerazione e cambiamento, meglio se organizzati nel ritmo ordinato del rito. Posto, inoltre, al culmine della stagione invernale, del buio e del freddo, in un momento in cui anche tutto il corpo, e la psiche, sentono la necessità di entrare in una nuova fase, un nuovo sviluppo.
Allora: buon Natale!