Caro S. Giuseppe,
scusami se approfitto della tua ospitalità e, con audacia al limite della discrezione, mi fermo per una mezzoretta nella tua bottega di falegname per scambiare quattro chiacchiere con te.

Vedi, un tempo anche da noi le botteghe degli artigiani erano il ritrovo feriale degli umili. Vi si parlava di tutto: di affari, di donne, di amori, delle stagioni, della vita, della morte.
Le cronache di paese trovavano lì la loro versione ufficiale, e i redattori dell’innocuo pettegolezzo quotidiano affidavano alle rapidissime rotative degli avventori la diffusione delle ultime notizie.
Il tempo passava così lento, che gli intervalli scanditi ogni quarto d’ora dalla torre campanaria sembravano una eternità ma forse, era proprio questa lusinga d’eternità a rendere preziosa un’opera di artigianato. E a darle vita, era proprio quella angosciante porzione di tempo che vi veniva racchiusa. Sembrava che la materia prima di una seggiola o di un vomere non fosse tanto il legno o il ferro, ma il tempo. E che la fatica del fabbro o del carpentiere, del sarto o del calzolaio, fosse quella di addomesticare le ore e i giorni comprimendoli nel mistero dell’effimero, e creandosi cosi, per istinto di conservazione, riserve di tempo negli otri delle cose prodotte dalle sue mani. Il tempo allora, imprigionato nella materia come l’anima nel corpo, ruggiva dentro un oggetto e gli dava movenza di vita, se non proprio l’accento della parola.
Le cose nascevano, perciò, lentamente e con tratti di una fisionomia irripetibile. Come un figlio. Prima, un atto d’amore, dolcissimo e soave. Poi nove mesi.

Non si genera più

Oggi, purtroppo, qui da noi, di botteghe ne sono rimaste veramente poche. Al loro posto sono subentrate le grandi aziende di consumo.
Non si genera più. O meglio, si concepisce solo l’archetipo. Ma senza passione, e con molto calcolo. L’archetipo poi, questo sordido ermafrodita, riproduce con ritmi di allucinante celerità squallidi sosia, con l’unico desiderio che campino poco.
Ed eccoli allineati, questi elegantissimi mostriciattoli dalla vita breve. Belli, ma senz’anima. Perfetti, ma senza identità. Lucidi, ma indistinti. Non parlano. Perché non sono frutto di amore. Non vibrano, perché nelle loro vene non ci sono più i fremiti del tempo prigioniero.
Si, Giuseppe, è proprio questa anemia di tempo che rende gelide le nostre opere.

Questo è forse il sacrilegio più grave della nostra civiltà. Abbiamo creduto che per fare un tavolo sia sufficiente il legno. O Dio, riusciamo pure ad ammettere che per fare il legno ci vuole l’albero, e che per fare l’albero ci vuole il seme e, perfino, che per fare il seme ci vuole il fiore. Ma non abbiamo più il coraggio di concludere che per fare un tavolo ci vuole un fiore, e lo lasciamo dire solo ai poeti..

Non si ripara più

Ma se oggi, qui da noi, di botteghe artigiane è rimasto solo qualche nostalgico scampolo, non è tanto perché non si genera più quanto perché ormai non si ripara più nulla.

Quando un oggetto si è anche leggermente incrinato nella sua funzionalità, lo si mette da parte senza appello. Del resto, se nelle sue viscere non racchiude un’anima d’amore, per quale scopo accanirsi nel ridare la vita ad un corpo già nato cadavere?
La nostra la chiamano, perciò, civiltà dell’usa e getta. Al televisore che sta in cucina si è fulminata una valvola? Niente paura: viene messo da parte e sostituito con un altro che ha il videoregistratore incorporato.
Alla bambola, che sembra sia stata sorpresa da un colpo apoplettico, si sono scaricate le pile? Portala al bidone della spazzatura. Ne acquisteremo una di quelle che sono vendute con tanto di certificato di nascita, si sposano, fanno l’amore e vanno ai campeggi estivi.
Al fucile-giocattolo, regalato al bambino il giorno di Natale, è cadute la vite del grilletto? Presto fatto.
Per Capodanno sarà pronto un mitra, col nastro delle pallottole a doppio carrello. E se il nastro si inceppa, per la Befana ecco un sottomarino lanciamissili conla verifica computerizzata degli obiettivi colpiti.
Alla giacca di fustagno è caduto un bottone? Al soprabito di velluto si è scucita la fodera? Al reggiseno di pizzo si è allentato l’elastico? A un paio di sandali si è staccata la fibbia? Non vale la spesa ripararli. Porta via al macero, senza scrupoli. Anzi, no: un momento! Tra giorni passeranno quelli della Caritas parrocchiale. Che fortuna: con una fava prendiamo due piccioni. Intanto, senza spendere una lira, ci liberiamo il guardaroba da ingombri fastidiosi. E poi, diamine! aiutiamo la gente, facendo contento il Signore, il quale ha detto che i poveri li avremo sempre con noi. Un angolo di Paradiso, un giorno, non ce lo negherà certamente, visto che le lo stiamo accaparrando sia pure con i riciclaggi delle nostre cose superflue.

Siamo proprio giunti a tale grado di perfidia, che pretendiamo di elevare a livelli di purezza i liquami delle nostre cupidigie, traffichiamo perfino le scorie del nostro egoismo, verniciamo di solidarietà gli scarti del nostro tornaconto, e con una oscena mascherata di gratuità ci illudiamo di riscattarci da nostro interminabile inverno dell’amore.
….
Questi, si, sono i misteri buffi che dovrebbero scatenare la nostra indignazione, e nel cui oceano stiamo tutti facendo naufragio.

Non si carezza più

Ma se oggi, qui da noi, in questo crepuscolo tormentato dal secolo ventesimo, le botteghe artigiane sono pressoché sparite, non è solo perché non si genera più, e neppure perché non si ripara più nulla. E’ perché non c’è più tempo per la carezza.
Quante carezze: con le palme delle mani, con i pennelli, con le spatole, con gli occhi. Si, anche con gli occhi, perché, ora che hai finito una culla, sei tu che non ti stanchi di cullarla con lo sguardo.
Oggi, purtroppo, da noi non si carezza più. Si consuma solo. Anzi, si concupisce. Le mani, incapaci di dono, sono divenute artigli. Le braccia, troppo lunghe per amplessi oblativi, si sono ridotte a rostri che uncinano senza pietà. Gli occhi, prosciugati di lacrime e inabili alla contemplazione, si sono fatti rapaci. Lo sguardo trasuda delirio. E il dogma dell’usa e getta è divenuto il cardine di un cinico sistema binario, che regola le aritmetiche del tornaconto e gestisce l’ufficio ragioneria dei nostri comportamenti quotidiani.
Perciò si violenta tutto.
E non soltanto le cose, il cui spessore di sostanza si è così rinsecchito da lasciar vibrare solo l’immagine esteriore.
Ma anche le persone. Queste valgono finché producono. Quando non ti danno più nulla, le molliamo magari con tutte le cautele ipocrite della giustizia: gli alimenti alla moglie abbandonata, il mensile per il figlio chiuso in collegio, la retta per i genitori affidati al cronicario.
I poveri vengono blanditi finché servono come gradini per le scalate di potere: dopo, allorché non sono più funzionali ai miraggi rampanti della carriera, non li si guarda nemmeno in faccia.
Il corpo, poi degradato a merce di scambio, è diventato spazio pubblicitario e manichino per prodotti di consumo. L’eros mercantile corrode alla radice i rapporti interumani, sgretola la comunione, frantuma l’intimità, irride la famiglia, commercializza la donna e, con i postualti del marketing degli spot televisivi, spersonalizza irrimediabilmente la sessualità riducendola a una variabile della cupidigia di potere.

Sicché in un mondo regolato dai petrodollari, angosciato dai crolli di Wall Street, retto dalle bilance dei pagamenti, che filtra con la speculazione, che si infischia dei debiti dei popoli in via di “sottosviluppo”, che si lascia sedurre dalla massimizzazione del profitto, che monetizza perfino il rischio delle popolazioni i cui terreni sono espropriati per farne basi militari, che sfrutta i poveri col traffico delle armi, che è sordo alle esigenze di un nuovo ordine economico internazionale… come può esplodere la gioia? Ci si lascia vivere.
Si amoreggia col fatalismo. Ci si appiattisce in una esistenza che score, senza più stupore, senza più spessore come le immagini sul video. E noi compiamo le nostre scelte come se spingessimo i tasti di un telecomando: crediamo di sceglie invece siamo scelti.
Si muore per anemia cronica di gioia. Si moltiplicano le feste, ma manca la festa. E le letizie diventano sbornie; gli incontri, frastuoni; e i rapporti umani orge da lupanari.
….

Chi sa che qualcuno, complice la poesia, non venga più facilmente indotto a cambiare genere di vita. 30/12/1987 (Don Tonino Bello)

(tratto da La Carezza di Dio, Lettera a Giuseppe – Antonio Bello – Edizioni La Meridiana)