Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / L’enigma della Storia e la scrittura di Dio

L’enigma della Storia e la scrittura di Dio

di Alessandro Puma - 27/12/2009


Nel nesso che intercorre, a volte, tra politica e religione, può risultare estremamente importante un’analisi critica a un certo tipo di “messianismo”. Il cosiddetto messianismo giudaico-cristiano che, in quanto volontà di potenza, sarebbe responsabile – secondo il teorico di ciò che è stata la Nuova Destra francese, Alain de Benoist – di un tipo di intolleranza volta non ad allontanare da sé, ma a cooptare e ad integrare, senza alcun rispetto delle opinioni altrui, ogni forma di diversità e varietà vitalistica in nome di un unico principio che regge il tutto. Segnatamente qui rappresentato dal Dio unico del monoteismo Sinaitico, meta-politicamente di Sinistra, in opposizione al politeismo Olimpico degli Dèi di Destra.
    Il fatto rilevante, per l’appunto, è che – per questo teorico della Nouvelle Droite – con la predicazione paolina, si è imposta in tutta l’Europa pagana, tollerante e amante della diversità (a cominciare dalla diversità rappresentata dal sesso femminile, visto come un arricchimento e non come ‘mancanza’ o colpa), l’ideologia cristiana che, in quanto “ebraismo denazionalizzato”, ha portato con sé l’intolleranza dell’Unicità universalistica, omologante e livellatrice di ogni diversità culturale e specificità individuale, realizzando così il più perfetto esempio di razzismo ideologico: quello americano-mondialista, che vuole che tutti i popoli siano uguali all’insegna dei McDonalds e del “Coca-colonialismo”.
    Una mentalità illuministica assoggettata al dio-denaro che fa del deprezzamento qualitativo in ogni campo e del feroce assalto a chiunque voglia ribadire il suo attaccamento al passato e alla Tradizione, la sua bandiera.
    Chiunque voglia ribadire, oggi, il concetto evoliano della ‘giusta disuguaglianza’ o la minima idea gerarchica su cui la società si è sempre basata, o polemizzare per esempio con la plutocrazia giudaico-americana, viene messo al bando, esecrato ed emarginato come razzista, nazista o terrorista. Ed è proprio questo il vero e assoluto razzismo, quello che non fa esprimere opinioni diverse dalla massa e che esige che tutti debbano avere le stesse pari-opportunità (ipocritamente solo sulla carta), anche contro la loro volontà!
    Del resto, a ben guardare, il buon razzista – il razzista spirituale di cui parla Evola, non quello biologico – ama la differenza, poiché: “Il razzista […] riconosce e vuole la differenza. Essere differenti, essere ognuno sé stessi, non è un male, ma un bene […]. Nella visione razzista della vita, ogni differenza – persino corporea – è simbolica”.
    E da qui all’esaltazione del politeismo pagano in cui la pluralità degli dei attesta non solo la differenza tra i popoli, ma anche la specifica appartenenza di un popolo alla propria nazione, il passo è breve: “Il dio deve essere il nostro dio, quello della nostra terra e del nostro sangue”.
    E ancora Evola ribadisce che: “Il razzismo ha e deve avere un preciso significato di affermazione della qualità e della differenza di fronte al mito livellatore dell’umanitarismo demo-massonico ed enciclopedico. L’umanità, il genere umano, è un’astratta finzione. La natura umana è profondamente differenziata e le razze, i sangui, sono l’espressione più tangibile e immediata di questa differenziazione”.
    Gli fa eco Rimbotti che, dalle pagine del quotidiano nazional-popolare ‘Linea’, così afferma: “Per dirne una, l’uguaglianza non esiste, non è mai esistita, non esisterà mai né in natura né in alcuna società umana: perché imporla dogmaticamente, come una valore irreale? Non è forse questo il più ingannevole e sbagliato dei miti?”.
    Ma il principio monoteistico dominante non è solamente causa di un egualitarismo forzato e di un tempo escatologico – paradossalmente – indifferenziato che trova il suo senso nel suo compimento e che si caratterizza, dunque, sempre come qualcosa di transeunte (ossia irreale): esso si caratterizza anche come scrittura, cioè come letteratura.
    Afferma R. di Giuseppe che: “Di fronte al problema dell’eredità del mondo antico, il cristianesimo fu costretto a operare un taglio, distinguendovi, per la prima volta, la ‘lettera’ e lo ‘spirito’. Rigettando questo, ma ammantandosi di quella, non soltanto fondò le belle litterae, il culto ambiguo delle ‘forme’ neo-classiche, che sarebbe radicalmente finito solo con Nietzsche, ma sancì una scissione formidabile all’interno della sostanza stessa del mondo occidentale. Per potersi appropriare delle maniere classicheggianti – senza le quali non avrebbe avuto accesso al riconoscimento delle classi dominanti – fu costretto a separare, in se stesso e nel modello, la forma dal contenuto, lo stile dai valori, le parole dalle opere” sancendo così la nascita della cultura come orpello, decretando la fine della paideia e del verum ipsum factum di Vico e scindendo, soprattutto, la vita dalla letteratura.
    Scindendo, cioè, il corpo una volta integro della ‘cosa ellenica’ in paganesimo (vita vissuta) e letteratura – fondando la letteratura come accademia tout court, avulsa dalla vita –, si instaura l’artificio estetico, il ‘bello stile’ classicheggiante che non imita più la realtà per esaltarla, ma in un certo senso per negarla, perché, con l’avvento del tempo escatologico-lineare, che ha un fine e una fine, il cristianesimo sa che la realtà, come la Storia, è vera solo a metà.
    Negando in questo modo, paradossalmente, lo stesso insegnamento di Cristo, quando affermava che le azioni Sue erano anche parole del Padre (e viceversa), e dello stesso uomo pagano il quale, non chiedendosi il perché delle cose, agiva direttamente e naturalmente sulle cose.
    Cioè, per essere chiari, l’attaccamento al proprio suolo e al proprio sangue ha in sé qualcosa di “pagano” nel senso invero originario del termine, che non deriva da pagus (villaggio o campagna), ma da hellen, ossia ‘greco’ o meglio ancora umano. Il cristianesimo secolarizzato di Paolo, che è già fraintendimento e travisamento dell’umano – oltre che divino – insegnamento di Gesù fedele alla propria terra, scatta nel momento in cui si arroga la pretesa (secondo una logica di dominio ipertrofica) di dover essere universalmente valido e vincolante per tutti (e cioè per tutte le nazioni). Affermava Nietzsche che Kant è “tutto sommato un cristiano scaltro” ed è già questo, nella sua palese verità, un pleonasmo, poiché una vena di scaltrezza attraversa, tutto intero, il cristianesimo (secolarizzato).
    Tuttavia, una simile furbizia è stata tale da potersi rivelare come un autentico salutare inganno (àpate) per quell’unica civiltà, già psicologicamente dimidiata, che non si considera il centro dell’Universo, bensì l’“Occidente” dell’Universo, ossia l’Europa.
    Come afferma Bazlen, infatti, “Gli Europei si sentono occidentali, non centrali. Unica civiltà che parla di sé come di una metà. Tutte le altre sono civiltà del centro”. Ed è per questo che, fin dall’inizio del proselitismo dei cristiani, gli europei pagani fanno propria e accettano di buon grado quella dilacerazione sacrificale della paideia – come perfetta sintesi di catabasi e anastasi, di andata e ritorno – fermandosi alla cristallizzazione della sola andata o del mancato ritorno presente già nel more socratico e nell’emanatismo neo-platonico, prima ancora che nel cristianesimo europeo, la cui tanto vantata logica della dicotomia verrà finalmente abolita solo con Hegel.
    Se de Benoist, dunque, nel suo lodevole paganesimo di destra, afferma giustamente che il cristianesimo “non è la nostra (cioè dell’Europa) religione”, per altro verso è altrettanto vero che questa religione è l’unica che è stata capace di manifestare la più piena e intima essenza europea, come logica dello scisma e della divisione.
    Logica della divisione che diventa logica giuridica nel momento in cui la Chiesa secolarizzata snatura, facendola propria, quella perfetta unione tra fas divinum e ius humanum vigente all’interno dell’Imperium romano, con la profonda differenza che, instaurando uno scarto tra le due leggi e allontanando il sacro dal mondo, il mirabile diritto romano diventa burocratizzazione della gerarchia ecclesiastica.
    Afferma Camille Paglia che: “L’idea occidentale della storia come di un movimento proiettato verso il futuro, di un piano provvidenziale o di progresso che culmina nella rivelazione di un Secondo Avvento, è una elaborazione tutta maschile. Nessuna donna, a parer mio, avrebbe potuto elaborare un’idea simile, che altro non è che una strategia di evasione dalla stessa natura ciclica (corsivo mio n.d.r.) della donna, in cui l’uomo ha il terrore di restare irretito. La storia, nella sua versione evolutiva o apocalittica, è una lista di desideri maschili a lieto fine: un’impennata fallica. […] E’ contro la madre che gli uomini hanno eretto l’imponente edificio della politica e dei culti celesti. […] La ragione e la logica sono il dominio, generato dall’ansia, di Apollo, il dio per eccellenza del culto celeste. […] ostico e fobico, freddamente distaccato dalla natura nella sua purezza sovrumana (mentre) il suo antagonista, Dioniso, regna sullo ctonio, la cui legge è la femmineità procreatrice”.
    E ancora Paglia dice che: “Gran parte della cultura occidentale è una distorsione della realtà. Ma la realtà va distorta, ovverosia corretta con l’immaginazione”.

“Il presupposto estetico”

 La muta, anonima presenza delle cose della natura, nonostante siano – e rappresentino – la bellezza pre-logica e sensuale del paganesimo, necessitano per avere una testimonianza ontologica (e non semplicemente ontica) più piena, di una manifestazione estetico-immaginativa che possa inverarne la rappresentabilità latente, di-s-velandole così all’Essere, appunto come scrittura, cioè come quell’elemento logico e funereo che fonda la cultura dell’Occidente.
    Talchè, paradossalmente, tutte le cose di questo mondo acquistano veridicità – ma anche un’ovvia e infinita opinabilità interpretativa – nel momento in cui passano, per volontà divina, per iscritto.
    Il presupposto estetico-poietico o esteto-cratico (termine da noi coniato in questa sede, per cercare di rendere l’idea della Weltanschauung di cui qui si tratta) include in se stesso la realtà fattuale, oggettuale, come una delle sue possibilità, anzi come la sua possibilità primaria, categoria archi-fattuale, possibilità delle possibilità, che rende congruo il tematizzabile di ogni oggettività e soggettività; ma in primo luogo è ciò che ci fa prendere coscienza del reale, che ce lo fa nominare, che fa sì che l’Essere, come ineliminabile presenza-assenza, perché muta, neutrale indifferenza dell’essenza, acquisti un senso. Un senso non ancora detto, non ancora pensato, ma già comunque espresso nell’intelaiatura dell’upoceimenon, o ancor meglio dell’apeiron, cioè del quadro immacolato su cui non si è ancora dipinto nulla.  L’‘epochè’ non sospende – o precede – il giudizio, ma è preceduto da esso.
    Così l’Essere, come silenziosa ed onnipresente pantomima, né vera né falsa, acquista uno statuto di autenticità e verosimiglianza solo nella sua riproducibilità artistica, nella ‘technè’ umanistica che traduce questo flusso in opere significanti, in un senso che, sebbene infinito o facente a meno della stessa logica, lo costituisce come vivo e vivente. L’opera d’arte si presenta, dunque, come il racconto mitologico, che è mitologico in quanto vero e vero in quanto mitologico, perché dice quel silenzio ineffabile che è Dio.


“Il coltello e lo stilo”

 Prima ancora di ‘incidere’ la realtà con le lettere dell’alfabeto – preferibilmente – ebraico, la divinità si è servita del coltello, della festa e del sacrificio.
    Si era detto all’inizio di questo breve saggio che Socrate “sancì, tra le due morali di Apollo e Dioniso, la prima legalista, la seconda sovvertitrice, la definitiva vittoria della razionalità e dell’ordine apollineo, che vale a dire anche femmineo e pederasta”, ma bisogna chiarire adesso a quale specifico Apollo fa riferimento detta morale.
     Marcel Detienne, nella sua pregevole opera “Apollo con il coltello in mano”, ritiene di aver trovato prove antropologiche decisive riguardo al fatto che, lungi dalla considerazione di Apollo, da parte di Dumèzil, come “dio della superiorità morale” e come autentico dio “indo-germanico” secondo Dirlmeier, Apollo sarebbe invece un dio notturno, dal volto del colore della morte; dio dell’arco che “scende simile alla notte” e le cui frecce “uccidono gli animali così come gli umani”.
     Da questo punto di vista, la contrapposizione Apollo-Dioniso, di matrice nietzschiana e già confutata da Evola, perde il suo carattere normante e il luminoso figlio di Zeus, l’unico che minacciava di detronizzare il padre e che si era spinto fino a farsi pagare, per amore, da Admeto – dietro cui si celava il dio della morte – come un volgare pòrnos, un qualsiasi prostituto disprezzato innanzitutto dai suoi amanti, non sarebbe altro che una delle facce di Dioniso, e viceversa.
     Certo: “Il fallo di Dioniso è allucinogeno prima che impositivo. Ha natura vicino al fungo, al parassita, all’erba tossica raccolta nel cavo del tirso”, e ancora Clemente Alessandrino lo ricorda, con pudibonda malizia, come choiropsàles, “colui che tocca la vulva”, anzi, “che sa farla vibrare con le dita come le corde di una lira”.
     Ma è Apollo che, alla fine del banchetto di Antinoo descritto nell’Odissea di Omero, appare – incarnato in Ulisse – “sporco di sangue e fango, come leone che torna dall’aver divorato un bove selvatico”. “Piedi e mani insozzati di sangue, in prossimità delle tavole rovesciate e degli altari abbandonati, il dio dell’arco celebra la ‘festa pura’ di un grande dio che gioisce a vedere ‘il suolo che fumava del sangue’ di una così perfetta ecatombe”.
     Questo massacro da parte di un dio luminoso, con il suo logico riferimento al sangue, ci sembra molto simile, se non altro formalmente, all’analogo massacro degli egiziani da parte dell’angelo sterminatore inviato da Yahvè che, nella sua furia devastatrice, non avrebbe riconosciuto e risparmiato neppure gli ebrei, se non avessero asperso il sangue dell’agnello sugli stipiti delle loro porte e sul limitare delle loro tende, quale simbolo – e liquido organico – apotropaico.
     L’elemento del sangue, già presente in funzione apotropaica, volto a scacciare il demone del deserto Hamanashit (lo Sterminatore) nel rito pastorale e nomade – che si svolgeva nel plenilunio di primavera del mese di Abib e che, nel periodo post-esilico, si sarebbe celebrato tra il 14 e il 15 di Nisan – e del pane non lievitato in memoria della fuga notturna di Israele dall’Egitto, come tipico rito agrario e quindi stanziale, che gli ebrei mutuarono dai cananei, mostrano che il conflitto natura/cultura è già presente – e già superato nell’evento centrale dell’Esodo come Pasqua di liberazione – nell’Antico Testamento. E ancora una volta, come si vede, natura e scrittura vengono fuse assieme in vista di un loro superamento nella fondazione della città come luogo di residenza stanziale, che sancisce l’atto di nascita della cultura.
     Ma cos’hanno a che vedere la scrittura e l’urbanizzazione, inglobanti i due riti, pastorale e agrario, con l’Apollo dionisiaco di cui si sta qui trattando?
     E’ lo stesso Detienne a fornirci una risposta quando afferma: “L’Apollo dei Greci, l’Arciere della notte, […] dio degli altari e dei sacrifici perfetti (si distingue) dall’Apollo dei Troiani: il difensore delle mura, il dio ‘poliade’, il nemico irriducibile dei Greci. […] Apollo Troiano, e non è forse in lui che i Moderni riconoscono vuoi il dio della ‘superiorità morale’, vuoi il dio del sapere recondito e della ‘conoscenza’?”.
     Il dio della collera e della peste, che si compiace di avere altari a cielo aperto e in mezzo ai boschi, trapassa nel dio della città, della razionalità e dell’ordine, poliade ed archegeta, fondatore della filosofia e della Lukàbas (luna nuova), che non si sa se rimandi a lùkeios, “luminoso”, o a lùkos, “lupo”. Anche qui troviamo un’escatologia naturale.

Avvertenza:

 Vorremmo precisare, qualora non fosse già evidente, che il presente articolo fa riferimento a taluni aspetti del cristianesimo (segnatamente alla sua secolarizzazione in opposizione al paganesimo) indagati da un punto di vista esclusivamente filosofico e non teologico, senza che per questo possano – o debbano – venir intaccate quelle che sono le fondamentali verità di fede come la Rivelazione, l’Incarnazione, Passione e Resurrezione del Signore e conseguentemente la legittimità della Chiesa come istituzione fondata sul primato del ministero petrino.
 La nostra idea di un’escatologia naturale – i cui precursori potrebbero, forse, essere rintracciati tra San Francesco, Dante, Giordano Bruno e Friedrich Schelling – se mai avrà uno sviluppo teoretico, potrà averlo solo ed esclusivamente dal punto di vista filosofico.
 Del resto, già il grande filosofo italiano, Sergio Quinzio, nonostante partisse da premesse nichilistiche ed anticlericali, giunse ad affermare che: “Nessuna confessione cristiana può confrontarsi, dal punto di vista di un globale giudizio storico, all’importanza, alla continuità, all’influenza e allo sviluppo della Chiesa romana. […] Io riconosco, e credo che non abbia senso non riconoscere, nella Chiesa di Roma la strada maestra della tradizione religiosa” (Religione e futuro, Adelphi, Milano 2001, pp.67-68).