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Basta un raggio improvviso di Sole per far rinascere nel cuore la speranza

di Francesco Lamendola - 27/12/2009

 

Indubbiamente colui che ha raggiunto un certo grado di evoluzione spirituale non si lascia condizionare da fattori meteorologici, perché l'equilibrio da lui consolidato e l'atteggiamento complessivo di apertura e fiducia verso la realtà lo inducono a vedere la bellezza in qualunque stagione e in qualunque aspetto della natura.
Per le persone meno evolute, tuttavia, l'influsso che le condizioni del tempo ed il paesaggio circostante esercitano sull'anima costituisce un fattore tutt'altro che secondario. Vi sono persone che, al sopraggiungere della brutta stagione, entrano in una specie di crepuscolo dell'anima; persone che un lungo periodo di pioggia e di maltempo getta nello sconforto, se non addirittura nella depressione; persone che soffrono un paesaggio chiuso e malinconico, come può esserlo un lago di montagna, come se fosse una vera e propria malattia, che si traduce in un senso di oppressione, quasi di claustrofobia, e in stati d'animo di pessimismo e di negatività.
Non vi è nulla di strano in questo: troppo facilmente tendiamo a dimenticare il nostro legame organico con la natura, di cui siamo parte. A dispetto di tutto il nostro esasperato razionalismo e di tutta la nostra avveniristica tecnologia, noi siamo pur sempre immersi nella dimensione fisica dello spazio e del tempo: soggetti alla fame, alla sete, al sonno, alla paura ed alle malattie, come qualsiasi altro animale.
Basta un banalissimo black-out dell'elettricità nelle ore notturne, per precipitare una grande città moderna, con tutti i suoi grattacieli, i suoi autoveicoli ed i suoi computer, in una apocalittica foresta pietrificata, ove si aggirano persone terrorizzate e vulnerabili, più o meno come lo erano i loro progenitori antichissimi, cacciatori e raccoglitori. È una cosa che dovrebbe farci riflettere ed insegnare un po' di salutare umiltà di fronte alla grandiosità della natura.
I bambini, un po' come gli animali, hanno conservato più stretto il legame con la natura, di quel che non accada all'uomo adulto; e gli uomini "primitivi" più di quelli che si definiscono da se stessi "civilizzati". Un esempio è offerto dalla circostanza che il terremoto è presentito da molti animali, così come da popolazioni "primitive": è noto che lo "tsunami" che nel 2004 devastò le coste dell'Oceano Indiano , facendo centinaia di migliaia di vittime nelle zone urbanizzate, non causò neppure un morto nelle Isole Andamane, che pure vi erano totalmente esposte, abitate da una popolazione considerata alquanto primitiva.
Un aspro e selvaggio paesaggio montuoso, con le pareti di roccia strapiombanti, può generare nell'animo un vago sentimento di disagio e di timore reverenziale, come una oscura minaccia incombente.
Si prenda ad esempio questo racconto di un ufficiale di marina che, nell'ottobre del 1914, si trovò ad incrociare con la sua squadra navale davanti all'isola di Mas a Fuera, nell'arcipelago Juan Fernandez, molto al largo delle coste del Cile (da: Hans Pochhammer, "L'ultima crociera dell'Ammiraglio Spee", Marangoni ed., 1932, p.160):


"Sulla costa occidentale dell'isola una parete a picco rocciosa si eleva rapidamente a più di 1.000 metri sul livello del mare. Ciò dà una grande impressione appare talmente inospitale da indurre ben difficilmente le navi a soggiornarvi a lungo. […]
Ancorati al riparo di questo gigantesco blocco di rocce, che sembravano guardare dall'alto in basso le microscopiche sagome delle nostre navi, noi vi trascorremmo alcuni giorni penosi, di lavoro febbrile. Oggi ancora è viva in me la prima impressione datami da quell'incombente colosso, che ci dominava."

Viceversa, il paesaggio della Pampa sudamericana, alle estrema latitudini australi, con gli orizzonti infiniti, i cieli smisurati e il mare d'erba che si piega sotto il soffio del vento, può produrre una sensazione molto simile a quella evocata magistralmente da Giacomo Leopardi nella poesia "L'infinito".
Tale sensazione è stata molto ben descritta, in un brano di prosa, da un viaggiatore italiano, studioso e missionario, che era anche un eccellente scrittore (da: Alberto Maria De Agostini, "I miei viaggi alla Terra del Fuoco", Paravia, Torino, 1934):

"Nei solitari recessi della Cordigliera, in mezzo a questo intricato labirinto di canali, appariscono i contrasti più sorprendenti, le più straordinarie manifestazioni del bello.
Foreste sempre vergini di faggi, mirti, cipressi e magnolie di un verde intenso e perenne, fanno stupenda cornice a ghiacciai eterni, che discendono dall'alta montagna in immani pareti di seracchi bianco-azzurri fino a lambire e precipitare nelle acque del mare; una vegetazione che evoca le regioni tropicali, circoscritta da bracci di mare percorsi in piena estate da ghiacci galleggianti, rallegrata dal chiassoso strido del pappagallo equatoriale e dal cupo e monotono boato del pinguino antartico. […]
Sopra tutto quest'incanto del paesaggio domina però uno spirito di morte, un silenzio che opprime; anche quando il sole brilla nella magnificenza dei suoi colori e spande all'intorno calore e vita, anche quando la luna accarezza soavemente di bianca luce le acque tranquille del mare o le aspre pendici dei monti, sempre traspare un bello, grandioso sì, ma velato di tristezza."

Le persone altamente spirituali hanno in parte superato questo condizionamento psicologico da parte dei fattori ambientali, non perché non abbiano più occhi e orecchi per godere sino in fondo l'infinità ricchezza e varietà delle stagioni, delle ore, del paesaggio - al contrario, ne sanno godere anche più dell'uomo comune; ma perché sono state capaci di trasportare tale legame, che indubbiamente esiste, fra l'anima e la realtà esterna, su di un piano più alto e luminoso, ove tutto appare nella sua luce di bene: anche ciò che, alle persone ordinarie, non si presenta se non come negatività.
Tutto è grazia, per il sapiente: tutto è occasione di intima gioia, il Sole come la pioggia, l'estate come l'inverno, il cielo sereno come la fitta nebbia, un paesaggio aperto ed ameno così come un paesaggio severo e malinconico.
In altre parole, non si tratta di conquistare l'impassibilità, così come, ad esempio, la concepivano gli antichi filosofi stoici: impassibilità e imperturbabilità non possono essere un approccio al reale a misura d'uomo, dal momento che, adottandole come una severa veste dell'anima, l'uomo si impoverisce e non si arricchisce, cauterizzando, in certo qual senso, la sua capacità di vedere e apprezzare la bellezza.
Si dirà che un animo sensibile alla bellezza è, però, anche sensibile alla bruttezza; e, qualora si risponda che l'animo di una persona spiritualmente evoluta riesce a scorgere la bellezza ovunque, si potrà ancora obiettare che un animo sensibile alla bellezza è comunque vulnerabile al dolore. A ciò rispondiamo che, se per crearsi uno scudo contro il dolore bisogna chiudere gli occhi alla bellezza del mondo e diminuire la propria sensibilità, questa è una strategia che ricorda il metodo di curare il mal di testa mediante le decapitazioni.
La persona spiritualmente evoluta, il sapiente, il maestro, non è colui che, per rendersi invulnerabile al dolore, cede una quota della propria umanità; ma, al contrario, colui che sa approfondire e sviluppare quest'ultima fino ai limiti estremi, abbracciando, per così dire, tutto il mondo nella propria anima, con sentimento equanime, benevolente e non giudicante.
Non è forse questa la ragione per cui si racconta che perfino le belve feroci divengono mansuete e si accucciano come cagnolini ai piedi dei grandi maestri?
Non è perché esse colgono infallibilmente le vibrazioni positive emanate da quegli individui eccezionali, la loro assoluta amorevolezza e mitezza, la loro assoluta mancanza di aggressività, di paura, di repulsione?
Il maestro, dunque, è colui che non si turba davanti al paesaggio, ai mutamenti delle ore e delle stagioni, non perché egli abbia raggiunto l'indifferenza verso il mondo esterno, ma perché, avendo percorso sino in fondo, con tutta la sua umanità, il sentiero dell'amore, scopre che tutto è bellezza, gioia e splendore, che tutto è un inno alla verità e alla vita.
Intendiamoci: un maremoto, uno sconvolgimento tellurico, una eruzione vulcanica, sono eventi che fanno paura; un mare in tempesta, una tromba d'aria, un gelo intensissimo, allarmano e intimoriscono: la natura non è sempre a misura del benessere umano, questo è certo. Ma il maestro sa che tutti i suoi fenomeni sono necessari; che, senza di essi, non vi sarebbe vita: e perciò li accoglie con animo sereno e anche grato, poiché vede in essi i fili misteriosi di un grande disegno cosmico che è, nella sua essenza, intelligente e benevolo.
Questo tipo di atteggiamento davanti al mistero della natura è - o, piuttosto, bisognerebbe dire: era - assai diffuso nelle società "primitive" ed anche fra quelle più evolute dell'area asiatica; mentre, in Occidente, è sempre stato più raro: se non, appunto, nella versione dell'imperturbabilità stoica, come attesta, ad esempio, il "De rerum natura" di Lucrezio; e ciò a causa dell'insopprimibile tendenza antropocentrica e manipolatrice dell'uomo greco e, più tardi, dell'uomo occidentale moderno.
Il canto più alto che la cultura occidentale abbia saputo innalzare alla magnificenza della creazione, in ogni sua forma e manifestazione, è stato sciolto, guarda caso, nel cuore del "buio" Medioevo (così, almeno, amano raffigurarcelo i depositari della cultura neopositivista oggi dominante): quel "Cantico delle creature" di San Francesco d'Assisi che magnifica il Creatore attraverso il Sole, le stelle, l'aria, l'acqua, il vento, il fuoco, le nubi ed ogni tempo; nonché attraverso la morte stessa, chiamata anch'essa "sorella" e dipinta non certo come una ladra, così come noi moderni, invece, di solito la pensiamo.
Ciò non toglie che per tutti, uomini comuni e uomini sapienti, l'irrompere improvviso di un raggio di Sole dalle nubi squarciate, dopo lunghi giorni di neve o di pioggia, di cielo chiuso e plumbeo e di precoce oscurità, costituisce una gradita sorpresa ed introduce una nota di gaiezza e di ottimismo, di cui l'arcobaleno è l'emozionante suggello: quassi un patto di pacificazione fra noi e le forze della natura.
Così lo descrive il libro della "Genesi", al termine del racconto del Diluvio universale (9, 12-17; traduzione della "Bibbia di Gerusalemme"):

"Dio disse:
Questo è il segno dell'alleanza,
che io pongo
tra me e voi
e tra ogni essere vivente
che è con voi
per le generazioni eterne.
Il mio arco pongo sulle nubi
ed esso sarà il segno dell'alleanza
tra me e la terra.
Quando radunerò le nubi sulla terra
e apparirà l'arco sulle nubi
ricorderò la mia alleanza
che è tra me e voi
e tra ogni essere che vive in ogni carne
e non ci saranno più le acque
per il diluvio, per distruggere ogni carne.
L'arco sarà sulle nubi
e io lo guarderò per ricordare l'alleanza eterna
tra Dio e ogni essere che vive in ogni carne
che è sulla terra.
Disse Dio a Noè: "Questo è il segno dell'alleanza che io ho stabilito tra me e ogni carne che è sulla terra"."

Un poeta latino della tarda romanità, Claudio Claudiano, a sua volta, aveva cantato in questi magnifici versi lo splendore dell'arcobaleno ("De Raptu Proserpinae", II, 99-100):"… cum tramite flexo / semita discretis interviret umida nimbis": "con linea ricurva / un umido sentiero verdeggia fra le nubi squarciate".
Sì: l'arcobaleno è davvero come un simbolo ed un pegno di pace fra la terra ed il cielo, fra gli uomini e la pienezza dell'Essere, di cui le manifestazioni del mondo naturale, per quanto meravigliose in se stesse, non sono che una pallidissima ombra.
Ma anche un umile raggio di Sole, quando si apre un varco fra le nubi dopo giorni di neve o di pioggia incessante e penetra nelle case per posarsi sulla fronte di un bambino, di un malato, di un uomo o di una donna oberati dalle preoccupazioni e dai dispiaceri, è un messaggero di pace e di speranza altrettanto prezioso e gradito, benché meno spettacolare.
Basta, talvolta, un raggio improvviso di Sole per riaprire il cuore degli esseri umani alla fiducia nel domani e all'amore per la vita.