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L'emigrazione, e la relativa cultura, sono cio' che ha tenuto a bada il popolo italiano per decenni

di Uriel - 28/12/2009

Fonte: wolfstep

Sun Tzu , che personalmente non considero cosi’ tanto evoluto dopo aver letto l’arte della guerra di Machiavelli, ha detto una cosa molto saggia: non bisogna mai ridurre il proprio avversario nelle condizioni in cui pensa di non avere scampo. Il momento in cui capisce di non avere scampo, infatti, puo’ essere caratterizzato da una scelta precisa, che e’ la Grande Morte.

Si tratta di una caratteristica del sistema nervoso umano: di fronte ad una minaccia, esso sceglie se scappare o combattere. Il problema e’ che se scappare e’ impossibile, c’e’ il rischio che si decida di combattere. Il guaio e’ che il principio di razionalita’ esige un obiettivo, e se non c’e’ scampo alcuno l’inevitabile esito della battaglia puo’ diventare un obiettivo.

Quando il comandante e’ abbastanza carismatico ed il livello di testosterone e adrenalina e’ abbastanza alto, il risultato e’ la scelta della Grande Morte. Un piccolo squadrone che combatta per la Grande Morte puo’ causare danni immensi , fino ad invertire l’esito di una battaglia, se non di una guerra. Quando si smette di combattere per vincere e si inizia a combattere per morire, si combatte portando con se’ il volto della morte, e questa furore omicida , questa gioia del sangue, faceva paura a Sun Tzu, che venendo da una cultura priva di una vera mistica della gloria la considerava come una forza demoniaca.

Anche Machiavelli e Clausewitz considerano questa forza come una forza pericolosa, essendo Machiavelli un umanista la attribuisce principalmente alla paura di morire , essendo Clausewitz un illuminista la considera come “la forza della disperazione”. Ma tant’e', il concetto e’ che un’umanita’ con le spalle al muro e’ capace di slanci straordinari.Non e’ certo che chiudendo della gente in un angolo si verifichi la trasformazione , puo’ mancare un capo carismatico o qualsiasi altro ingrediente; se per disgrazia c’e’ la mistica della gloria e un comandante decente, uccidere quello squadrone chiuso in un angolo puo’ rivelarsi piu’ impegnativo che vincere la guerra.

Che cosa consigliano, con uguale buonsenso, Sun Tzu, Machiavelli e Clausewitz? Consigliano di lasciare sempre aperto uno spiraglio, meglio se illusorio (unendo cosi’ l’efficacia dell’accerchiamento materiale allo sfinimento psicologico), in modo che si eviti il pericolo insito nella trasformazione del nemico in una manica di guerrieri alla ricerca della Grande Morte.

Se c’e’ uno spiraglio, il capo che chieda ai soldati di morire dopo aver visto un grande giorno si vedra’ rispondere che si dovrebbe tentare l’ultima disperata via di fuga; sara’ difficile trasformare la paura in forza , e la mistica della morte si sgretola quando la morte non appare piu’ inesorabile. E’ solo quando la morte e’ inevitabile che l’uomo si guarda e si chiede “che morte voglio”? E in quel momento, un comandante che sappia usare la mistica della gloria puo’ ottenere una muta di belve con estrema facilita’.Ma finche’ non c’e’ solo la morte come alternativa, questo trucco non funziona ; non per nulla Sparta puniva con la morte chiunque si arrendesse o chiunque indietreggiasse di fronte al nemico.

Ovviamente sorge spontaneo chiedersi se questo valga anche sul piano sociale, e la risposta e’ che secondo me funziona. Prendiamo per esempio gli americani. Gli stati uniti hanno due stravaganti percentuali che non quadrano del tutto.

Da un lato hanno quantita’ numericamente alte di poveri, e non mi riferisco solo ai ghetti delle grandi citta’, ma a zone specifiche degli USA. Una simile quantita’ di poveri, che a volte supera quella di alcune aree povere dell’ Italia, non produce pero’ le stesse quantita’ di emigrazione verso l’esterno degli USA.

Essa pero’ produce dei “picchi” di sforzi straordinari , cioe’ da parte di persone povere che compiono imprese straordinarie. La mia personale opinione e’ che si tratti proprio dello stesso effetto. Finche’ una massa di persone crede che “male che va emigro”, non si sentira’ mai chiusa in un angolo.

Voglio dire: un 30% di disoccupazione in qualsiasi societa’ e’ un rischio insurrezionale enorme, mentre in alcune regioni d’italia questo rischio non esiste. Il problema e’ che l’insurrezione richiede la situazione di “no future”, per la quale l’aggressivita’ si incanala in una durissima determinazione a dare battaglia, anche a costo di perderci la pelle, o persino sapendo di perderla.

Nel momento in cui arriva il Celli e ti dice: giovane, vattene, di fatto ha svolto il compito che Sun Tzu definiva “lasciagli sognare la ritirata”: il soldato nemico non e’ disposto a seguire il suo comandante in una battaglia per la gloria, in quanto pensa ancora di puter sfuggire. Cosi’, il giovane italiano sa che non ha senso seguire un eventuale capopopolo, ne’ dar vita a grosse manifestazioni di piazza, perche’ non pensa di essere circondato, non pensa di essere senza scampo, non pensa di essere comunque condannato.

L’emigrazione , e la relativa cultura, sono cio’ che ha tenuto a bada il popolo italiano per decenni, proprio perche’ si rappresentava nella mente delle persone un’illusoria via di uscita. Un governo di un popolo poco avvezzo ad emigrare , per esempio, difficilmente ha tutte queste chances di placare l’aggressivita’ della disperazione: poiche’ la gente non emigra, non ha nella propria cultura una indelebile via di uscita , il “male che va emigro”, e quindi quando l’uomo e’ chiuso in un angolo diventa belva.

Condizioni anche migliori di quelle italiane produrrebbero rivolte in molte parti del mondo; tutte quelle aree che non hanno nella propria cultura “male che va emigro”, ad agire come calmiere.

A questo si aggiunge una palese mistificazione, ovvero che emigrare sia facile e che sia una scelta completamente positiva, cioe’ una scelta senza alcun prezzo da pagare. Il fatto che ci sia un prezzo da pagare, di per se’ non rende infruttuosa una scelta: altrimenti non esisterebbe commercio.

Ma l’emigrazione viene presentata come l’ascesa verso il paradiso, cui soltanto un GAP di vigliaccheria puo’ rimediare. Ma le cose non stanno esattamente cosi’: le nazioni che non hanno subito choc culturali o sociali per via dell’emigrazione non esistono, ma specialmente non esistono comunita’ di immigrati che non abbiano subito choc culturali emigrando.

Cio’ che sta dietro a questa convinzione e’ che nel caso delle usanze straniere si tende a giustificare tutto. Vieni in Germania e vedi la polizia che prende una motocicletta BMW e la scaraventa su un ultra’ a terra , dopo averlo pestato come una bestia, e dici “eh, pero’ che figata, vivo al primo piano senza sbarre alle finestre e senza porta blindata”. Ma la verita’ e’ che nel tuo paese non lo avresti accettato.

Questo ovviamente e’ dovuto anche all’effetto Sun-Tzu al contrario: quando emigrate in un posto, nella vostra mente e’ pur sempre presente il concetto che , male che va, ma proprio male, ma proprio nella peggiore delle ipotesi, potrete sempre tornare in patria..

La prima generazione di nati, invece, questa seconda via di uscita non ce l’ha: deve vivere nel mondo che trova, e sa di non essere abbastanza italiana da poter tornare indietro. Si trovano quindi accerchiati e senza via di uscita, ed e’ questo che a volte amplifica la rabbia, come avviene nelle banlieues francesi.

In ultima analisi, il lavoro della prima generazione di immigrati e’ sempre il piu’ facile. Sai cosa stavi lasciando, trovi qualcosa che e’ comunque migliore, e dentro di te c’e’ sempre l’idea che male che vada, nella peggiore delle ipotesi, insomma, in extrema ratio puoi sempre tornare indietro.

I tuoi figli nasceranno e cresceranno nella fossa dei leoni. La realta’ che potrebbero trovarsi di fronte e’ questa, come ho cercato di spiegare sulla Germania e qualcuno c’e’ riuscito meglio di me nei commenti:

Parlo della realta’ bavarese perche’ e’ quella che conosco, al nord sono un po’ piu’ morbidi, ma non di molto.
Il dato reale e’ che il sistema scolastico bavarese ha dei presupposti che hanno drammatiche conseguenze: a) che lo scolaro sappia alla perfezione il tedesco e b) che lo scolaro abbia il supporto della famiglia.
Questo non e’ sempre vero, anzi non e’ quasi mai vero nel caso degli emigranti, specialmente se gli emigranti hanno lavori poco qualificati e un livello culturale basso.
Se si vedono le percentuali di accesso all’universita’ di turchi e italiani si rimane basiti, sono percentuali infime.
Il risultato di questo sistema scolastico e’ una societa’ fortemente classista dove il titolo di studio, fra le altre cose, conta.
La soluzione per chi vuole emigrare in germania e vuole che i propri figli siano tedeschi e contino qualcosa e’ mandarli alla scuola europea o spendere un sacco di soldi in insegnanti di sostegno (e di tedesco).

Ma per permettervi certe scuole dovete avere gia’ un lavoro molto , molto, molto borghese, sul quale neanche i laureati italiani, i “cervelli” , possono davvero contare.(non e’ che al Nord siano molto piu “morbidi”, eh), a giudicare dalla mancata integrazione che vedo.

Ora, ovviamente io parlo della Germania, ma non ho alcun dubbio sul fatto che succeda ovunque: dovremo semmai stabilire COME succeda, ovvero identificare i meccanismi, ma dubito che i figli degli italiani emigrati possano entrare ad ‘iton , se non in percentuali infime rispetto alla popolazione di immigrati.

In tutte le nazioni oggetto di emigrazione, si misura sempre il tasso di inserimento degli immigrati, e tale tasso e’ sempre significantemente basso; anche laddove gli immigrati si inseriscono bene, siamo sempre a dei livello di disagio enormi. Il problema e’ che la prima generazione percepisce sempre positivamente il confronto con quanto ha lasciato; e ha sempre la componente mitigante del “nella peggiore delle ipotesi ritorno”, ma la prima generazione di nati invece si trova nel cul de sac, e spesso per questa ragione diviene estremamente aggressiva e violenta.

Cosi’, penso che maggiormente si voglia tenere a bada la fascia giovanile colpita in Italia dalle leggi sul precariato selettivo (precariato per i nuovi arrivati e tutele per i vecchi) , maggiormente si lasciera’ loro intravvedere una via di uscita semplice. Vai all’estero, la’ tutto e’ perfetto e ti daranno tutto cio’ che vuoi.

Vero, ma in realta’ ti sei collocato economicamente meglio che in Italia, ma nella societa’ straniera sei piu’ in basso di quanto la tua famiglia non fosse in Italia; non lo noti perche’ lo strato corrispondente e’ pagato meglio. La donna delle pulizie che ripulisce cucine a 1900 euro/mese non crede di essere peggiore di quando era una piccola commerciante nel suo paese e faceva la fame; il guaio e’ che nella societa’ tedesca e’ scesa fino alla base, e i suoi figli non potranno avere le stesse chances degli altri.

Cosi’, ritengo che innestare l’idea di emigrare sia un buon “espediente di Sun-Tzu” per evitare che la sensazione di essere circondati senza speranza produca estreme aggressivita’, o richieste di cambiamento molto forti; prospettare la migrazione come soluzione perfetta serve addirittura a colpevolizzare chi non lo fa (”se avessi iniziativa emigrerei”), ed in sostanza a tener lontana l’idea di dover lottare, se non altro per disperazione, cosa che produrrebbe uno scontro durissimo.

Insomma, diamo al nemico l’illusione di avere una via di fuga, per impedire che faccia quadrato e si batta con l’ardore della disperazione.

Uriel

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Visto che ho parlato di emigrazione, vorrei dire due parole su quello che penso. Anche perche’ visto che sempre piu’ gente dice di voler fare il passo, penso di dire qualcosa di utile. Nella misura in cui ho avuto a che fare con la Germania e nella maniera in cui parlo sia con stranieri emigrati da altri paesi che con emigrati italiani.

Dunque, c’e’ un primo equivoco che definirei “generazionale” nell’emigrato. Quello che voglio dire (dopotutto anche mia madre e’ emigrata, quindi posso vedere la cosa da entrambi i punti di vista) e’ che esiste un egocentrismo del migrante, che non e’ una colpa in se’ ma e’ una trappola che poi ricade sui figli.

Che cosa voglio dire?

Voglio dire che gran parte degli emigrati sono spinti da un gradiente, gradiente che e’ dato dalla differenza di condizioni tra il luogo che lasciano e quello che trovano. Voglio dire, mettiamoci per esempio nelle condizioni della donna che viene a pulire la Teekuche nell’azienda ove sono ora.

Ha lasciato un paese del maghreb, e si trova a ripulire 23 piani di cucinotti per dipendenti, e a dare acqua a 23 piani di piante da ufficio, per 1900 euro al mese. Visto che il costo della vita qui e’ basso, probabilmente con un altro stipendio simile si trova a vivere meglio di come abbia mai sognato.

Il che e’ vero, se consideriamo lei.

Adesso prendiamo i suoi figli. Essi non conoscono la differenza tra la germania e il paese che hanno lasciato, e si troveranno a frequentare le tipiche scuole pubbliche dei sobborghi, che sulla carta sono uguali ma nella realta’ offrono un “tasso di successo sociale” diverso. Ma anche se tali scuole fossero identiche a quelle dei tedeschi-bene (1), ai genitori manca uno strato di “social networking” che e’ indispensabile (o perlomento vantaggioso)  per muoversi.

Quello che voglio dire e’: prendiamo un sogno. Un bambino che sogni di diventare, che so io, primo ballerino dell’Opera. Diciamo che normalmente un primo ballerino di un’opera sia ad un livello sociale X. Ora, prendiamo il punto “sociale” ove si trova il bambino, ipotizziamo una qualche “metrica” e immaginiamo di misurare la distanza tra X e il punto ove si trovano due bambini, quello nativo e quello figlio di immigrati.

Il risultato e’ abbastanza semplice: anche se i figli di questa signora vivono sicuramente meglio di come vivrebbero nel paese della madre, essi non conoscono il paese della madre. Il confronto che la madre ha ben chiaro in mente, cioe’ la differenza tra il paese lasciato e quello trovato, i figli non lo fanno. Potranno farlo sul piano razionale, certo, ma a differenza dei genitori questo confronto non si basa mai su una quotidianita’ passata, sull’esperienza diretta e fisica di tale differenza.

Cosi’, mentre i genitori si sentono soddisfatti perche’ hanno fatto un gigantesco balzo in avanti, i loro figli notano che la distanza tra loro e qualsiasi obiettivo sociale e’ piu’ alta rispetto ai nativi. Poiche’ non sanno che cosa i genitori abbiano lasciato (ma suppongono che nel posto natio sarebbero stati uguali agli altri, pur senza sapere cosa significhi vivere li’), si limitano a constatare che la distanza tra un figlio di locali e i suoi obiettivi socioeconomici sia piu’ breve.

Questo produce , a mio avviso, quello che e’ il disagio dei figli della prima generazione di immigrati. Non sapendo di preciso da dove siano venuti (e supponendo che comunque li’ sarebbero stati uguali agli altri giovani) e trovandosi ad essere diversi , accusano i genitori , chiedono loro “ma dove mi hai portato?”.

Questo e’ dovuto ad una differenza di visione. Continuando nell’esempio, per la madre del ragazzo che viene a pulire le cucine qui, 1900 euro al mese con la possibilita’ di vivere tranquilla sono un privilegio enorme. Ella non ha dubbi che poter pianificare la spesa mensile, essere certa di vivere, eccetera, sia una conquista enorme.

Il figlio pero’ notera’ che (sebbene viva meglio dei suoi coetanei nel luogo nativo della madre, cosa che non sa apprezzare) la distanza tra lui ed i suoi progetti e’ piu’ alta. Se pensiamo che “ballerino della scala” sia “borghesia”, il figlio di tedeschi che e’ gia’ borghese ha poca strada da percorrere per arrivare li’, mentre lui ha molta piu’ strada perche’ nonostante lo stipendio che la madre trova buono, lui e’ pur sempre working class, e ha uno scalino in piu’ da percorrere.

Sebbene non manchino i casi di immigrati che sgobbano e ce la fanno, questo non cambia il fatto che partono da una posizione peggiore. Il fatto che partano da una posizione peggiore produce un conflitto con le generazioni precedenti: “perche’ ci avete portato qui?”. Dal momento che la distanza tra i progetti del giovane e il suo strato sociale di partenza e’ piu’ alto, sul piano statistico i figli degli immigrati, almeno la prima generazione, sono sempre svntaggiati, e faranno piu’ fatica a risalire la china.

Nel caso di una persona che viene da un paese ove si muore di fame, e’ molto facile spiegare ai giovani tutto questo: basta un viaggetto nel paese natio.  In ogni caso, l’evidenza e’ enorme, e subentrano fattori culturali a sottolineare la differenza e a dare problemi ancora piu’ grandi a questi giovani.

Ma adesso pensate di essere italiani. Qui in Italia avevate le opportunita’ del precario, cosi’ venite qui. Trovate un lavoro che paragonato a quello italiano e’ una figata, e siccome e’ una figata non vi rendete conto che a parita’ di stato culturale siete piu’ in basso di un locale. Voi siete laureati con buoni voti, quanto un tedesco. I tedeschi come voi sono un gradino sopra e guadagnano ancora piu’ di voi perche’ partono avvantaggiati, ma voi non ci badate perche’ quello che fate e’ il confronto tra quello che guadagnavate in Italia e quello che guadagnate adesso.

I vostri figli non faranno quel confronto. Essi si troveranno a partire dal VOSTRO entrypoint, che e’ piu’ basso di quello del padre del coetaneo di uguale status scolastico e professionale. Inoltre, voi non avete quel networking che ha il padre del ragazzo locale.

Contemporaneamente, pero’, l’Italia non e’ cosi’ evidentemente catastrofica da proporre ai giovani italotedeschi la prova provata che fosse necessario emigrare. Il risultato e’ che il conflitto generazionale sara’ durissimo: i giovani noteranno subito di avere meno possibilita’ rispetto ai giovani tedeschi, e diranno “ma dove mi hai portato?”. Contemporaneamente, vi sara’ difficilissimo giustificarvi, perche’ magari e’ appena arrivato un consulente italiano che e’ passato davanti a vostro figlio.

Quando io incontro italotedeschi, come mi e’ successo tempo fa dentro la portineria di Vodafone D2, si crea sempre un momento di imbarazzo. Perche’ l’italotedesco di prima generazione che fa il portinaio vede me che arrivo dall’italia e vado a parlare “alla pari” coi i suoi manager. Contemporaneamente pensa che essendo lui un italiano in germania non ha avuto possibilita’ di crescere cosi’.

Quando andra’ dal padre a rimproverarlo (direttamente o meno) di averlo portato in un cul de sac, il padre dira’ che in Italia si stava peggio e che avrebbe avuto ancora meno possibilita’. Ma il ragazzo che lavora alla reception ha visto ME , italiano, che in Italia ha studiato ed e’ arrivato a parlare coi suoi capi , pari a pari.

A quel punto, per il genitore sara’ difficile spiegare “perche’ lo ha portato li”.

Questo e’ lo stridore incredibile che vedo tra me (e gli altri consulenti italiani ) in Germania. Vedo gente che entra dentro i palazzi borghesi locali , lavora, e “sorpassa” i figli degli immigrati italiani. Arrivati alla sera usciamo per andare a cena. Quando andiamo a cena ci troviamo con un cameriere italotedesco, che e’ figlio di un immigrato, e si chiede se per caso non sarebbe diventato come noi SE SUO PADRE FOSSE RIMASTO IN ITALIA.

Alla fine, quindi potete sempre pensare di emigrare. E quando lo farete inevitabilmente valuterete i pro ed i contro. Confronterete la vostra situazione confrontandola con quella che lasciate, ma non la confronterete MAI con quella dei locali: dopotutto, trovate normale che le persone nate li’ godano di quel sistema e si trovino ad ogni livello sociale.

I vostri figli pero’ faranno solo il confronto tra la propria posizione e quella dei loro coetanei, e vedranno lo svantaggio. E di questo svantaggio accuseranno voi.

Se per disgrazia altri italiani si mostreranno in giro, una seconda ondata di “migranti” che migrano a condizioni migliori con un entrypoint migliore, i figli vi accuseranno di aver tolto loro l’opportunita’ di crescere in patria, TRA UGUALI, anziche’ nel cul de sac straniero ove si trovano.

E i figli sono giudici durissimi.

 

(1) La divisione tra quartieri  per ceto e’ fortissima, cosi’ le scuole  di un quartiere ospiteranno principalmente bambini/e di uno specifico ceto.