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Esistono avventure sbagliate dell’ideale? Il caso di Pëtr Nicolaević Krasnov

di Francesco Lamendola - 28/12/2009

I libri letti nell’adolescenza, vale a dire i primi libri letti per puro piacere e non per dovere scolastico, sono, senza alcun dubbio, quelli più formativi nella vita di una persona: lasciano un segno che durerà per sempre.
Alcuni dei primi libri letti avidamente, anzi, divorati, sono stati, per me, quelli del generale Pëtr Nicolaevic Krasnov, nei quali mi ero imbattuto, una bella mattina di settembre, in un luogo fantastico: una bancarella di libri usati allestita sotto la loggia di un magnifico edificio medievale, nel pieno centro di una città storica del Nord.
Non ho mai amato i romanzi, né li amavo allora, a parte alcune eccezioni: e i libri di Krasnov furono una di esse. Quei bei volumi della Casa editrice Salani di Firenze, pubblicati negli anni Trenta, ben rilegati, con le copertine di tela a colori e le splendide tavole illustrate a fianco della prima pagina, possedevano un fascino straordinario di cose lontane nello spazio e nel tempo, al confine tra realtà e fantasia.
Mi immersi nella lettura. In pochissimi giorni ero alla fine del primo e facevo un nuovo viaggio in treno per acquistarne un altro. Era una lettura entusiasmante: storie di Cosacchi, di avventure, di dolorose vicende ed eroiche imprese, di sublimi atti di coraggio: erano tutte pervase da un senso di dirittura morale, di schiettezza di sentimenti, che parevano fatti apposta per incantare un adolescente idealista e un po’ sognatore.
Inoltre erano scritti bene, senza inutili intellettualismi, in uno stile fresco e avvincente; insomma, possedevano tutte le qualità per farsi amare da un lettore portato all’immaginazione, ma, al tempo stesso, esigente in fatto di rigore morale, e deciso a vedere con chiarezza il confine tra il bene e il male, fra il giusto e l’ingiusto.
Quante ore serene, sognanti, ho trascorso su quei libri: «Tutto passa», «Comprendere è perdonare» «L’odio», «Il “Largo” di Haendel», e, soprattutto, «Dall’Aquila imperiale alla bandiera rossa», vasto affresco degli ultimi anni della società russa prima del diluvio, ambizioso quanto «Guerra e pace» di Tolstoj, cui gli emigrati russi fra le due guerre sovente lo preferivano.
Certo, erano anche libri reazionari, nel senso che vi traspariva l’avversione dell’autore per il regime sovietico e, in genere, per il mondo massificato e arido della società di massa, mentre vi si esaltavano i tipici valori individualisti della cavalleria: la nobiltà d’animo, la lealtà, l’onore, la fedeltà agli uomini e alla parola data, la magnanimità, lo sprezzo del pericolo.
Strane letture, per un ragazzino inesperto della vita, all’inizio degli anni Settanta, quando il clima politico che si respirava nel mondo giovanile era di tutt’altro tipo: vi dominavano ancora il mito della Rivoluzione d‘ottobre, il mito di Ho Chi Min e quello di Ernesto “Che” Guevara. Lenin, Mao e perfino Stalin passavano ancora per dei liberatori di popoli e di classi, eroi senza macchia e senza paura  della giustizia e della verità: l’onda lunga Sessantotto non si era ancora esaurita. Miti di cartapesta, che sono poi miseramente crollati: il tempo è galantuomo; ma, a volte, maledettamente lento. In breve, quelle letture non fecero che approfondire il solco fra me e il comune sentire della maggioranza dei miei coetanei, aggravando l’isolamento che si era venuto a creare in seguito al trasferimento in un’altra città e in un’altra regione.
Dopo averli letti tutti, mi venne, naturalmente, il desiderio di saperne di più sull’autore. Scrissi alla Casa editrice Salani, che gentilmente mi rispose, inviandomi alcuni fotocopie di giornali; ma non era molto.
Allora mi internai nella ricca biblioteca pubblica di una città universitaria e scovai l’«Enciclopedia Sovietica» (il nome è  tutto un programma). Non conoscevo il russo, ovviamente; però mi arrabattai con una vecchia grammatica quanto bastava per decifrare i caratteri cirillici, indi trovai la voce desiderata e la ricopiai, con infinta pazienza, su un quaderno.
Infine, mobilitai le mie scarse conoscenze finché un professore di russo, per fare un favore a mio padre, mi tradusse quella pagina: e fu così che appresi la tragica morte di Krasnov, al termine della seconda guerra mondiale, sotto il piombo di un plotone d’esecuzione, come traditore della sua patria (patria di un cosacco: l’Unione Sovietica di Stalin); ignoravo, allora, l’altra versione, secondo la quale il generale sarebbe stato ucciso in combattimento in un paesino della Carnia, ove giacerebbero ancora i suoi resti mortali.
Chissà, forse ero passato accanto alla sua tomba, allorché, bambino, passavo alcuni periodi delle vacanze estive proprio fra le montagne della Carnia, uno dei luoghi più poetici che vi siano al mondo, e, per fortuna, sconosciuto al turismo di massa. Incredibile vicenda, quella di Krasnov, finito a guidare il trasferimento dei suoi Cosacchi in cerca di una nuova patria, quando, dopo l’8 settembre del 1943, i Tedeschi avevano praticamente annesso la provincia di Udine e la Venezia Giulia al Reich germanico, con la scusa di farne una zona di operazioni militari.
Di quella strana, semisconosciuta vicenda ha parlato uno scrittore friulano, Carlo Sgorlon, nel suo romanzo «L’armata dei fiumi perduti»; alcuni preziosi particolari si trovano anche nell’eccellente libro dello storico Pier Arrigo Carnier «Lo sterminio mancato», notevole per l’imparzialità e lo scrupolo della documentazione. Ma, all’epoca, non ne sapevo niente: tutto quel che sapevo erano alcuni racconti dal sapore quasi fantastico, in parte vissuti in prima persona, dei miei genitori, circa la presenza dei Cosacchi in Friuli nell’ultima fase della seconda guerra mondiale..
Ricordo ancora il dolore - non potrei usare altra espressione - allorché lessi la notizia di quella morte ignominiosa, che aveva chiuso la vita di un così nobile personaggio, quale me l’ero raffigurato leggendo i suoi romanzi. Certo, il fatto che si fosse messo al servizio dei Tedeschi era piuttosto increscioso; ma, insomma, era evidente che egli aveva agito in perfetta buona fede: il senso dell’amor patrio, così traboccante da quei libri, non consentiva assolutamente di fare altre ipotesi, anzi, permetteva di escluderle nel modo più certo.
Più tardi ancora, approfondendo quell’argomento, venni a sapere che già nell’ultima fase della prima guerra mondiale, con i Tedeschi e gli Austriaci che avevano invaso l’Ucraina ed il Caucaso, Krasnov si era alleato con essi per combattere i bolscevichi. Del resto, egli non era un nazionalista panrusso, come il generale Denikin, uomo dell’Intesa; nel contesto delle Armate bianche, la sua spiccava per il disegno autonomista cosacco, che lo avvicinava, semmai, per certi aspetti, al governo ucraino di Petljura, anch’esso proclamato con l’appoggio degli Imperi Centrali e in odio ai bolscevichi di Mosca.
Da quegli anni lontani, il «caso» Krasnov non ha mai cessato di costituire, per me, un intenso oggetto di riflessione storica, ma anche morale: che senso può aver avuto una avventura come la sua? Fino a che punto è eroismo opporsi alle forze trionfanti della storia, e dove inizia il confine con lo sterile partendo dalle più nobili intenzioni?
E poi, chi decide quali sono le forze vincenti della storia? Hegel, forse, con la sua oscena apologia della marcia trionfale dello Spirito assoluto, che poi s’incarna - magari fosse uno scherzo di cattivo gusto, purtroppo è la pura verità - nello Stato prussiano? Quante volte non abbiamo visto che la storia ha sbagliato strada, che si è cacciata lungo strade senza uscita, e hanno avuto ragione quei pochi, quei pochissimi che hanno osato contrastarla, subendo l’oltraggio di passare per nemici delle «magnifiche sorti e progressive»?
«Bisogna essere assolutamente moderni», diceva Rimbaud: bella frase, fa colpo. Ma che cosa vuol dire, dopo tutto? Che il presente ha sempre ragione, e il passato ha sempre torto? Com’è banale, com’è povera questa visione della storia; e in quale rozza adorazione dell’esistente essa cade. E poi, è stato per essere «assolutamente moderno» che Rimbaud, dopo essersi volontariamente degradato fino al’estremo limite della dignità umana, è andato in Africa a fare il mercante d’armi e, forse, di schiavi?
E ancora: è proprio vero che solo chi combatte per una idea vincente - e sia pure vincente sul breve periodo; il resto è tutto da vedere - vive bene la propria avventura esistenziale; e che chi combatte per un’idea perdente, la vive male, come un transfuga che evade dal dovere della modernità assoluta, se non addirittura come una caricatura di sé stesso, come un pagliaccio?
Un grande scrittore italiano vivente, Claudio Magris, si era occupato, trentacinque anni fa, della tragica avventura politica e umana di P. N. Krasnov e aveva cercato di trarne una conclusione di carattere generale, in un articolo intitolato «L’avventura sbagliata», apparso sulle colonne del «Corriere della Sera» del 1° febbraio 1974:

«Nella “Guardia bianca” d Bulgakov, il romanzo della rivoluzione russa vista attraverso i gesti dei vinti, l’ataman Skoropadski riceve la sua investitura – che lo pone a capo di tutta lì’Ucraina – sotto il tendone di un circo affollato e chiassoso. È la Pasqua del 1918 e la Russia è ancor incerta fra le rovine del vecchio regime, la furibonda gestazione della società sovietica, la decrescente presenza dell’occupatore tedesco e la caotica proliferazioni di prepotenze locali e rivolte centrifughe. Pur con la sua poetica nostalgia di una prospettiva sentimentale dalla parte dei bianchi, Bulgakov ritrae l’avventura controrivoluzionaria ed anche gli smarriti separatismi alla deriva in veste di farsa e di parodia: la resistenza ala storia, struggente perché votata alla sconfitta ed eroica nella sua fedeltà ad una tradizione vissuta ed amata, si distorce facilmente nell’enfasi di un anacronismo ostentato  e compiaciuto. Il pathos magniloquente  e disperato della reazione risiede anche in quest’ultima vocazione al cerone e al posticcio, maschere clownesche di un tragico e sofferto disagio.
Il reazionario è grande perché dice di no al mutamento, ma questa sua alta statura si rattrappisce in una malformazione sbilenca e in una mimica stridula; sentendo minacciata la propria autonomia personale, egli reagisce esasperando con mosse egocentriche la propria smaniosa soggettività, la quale si riduce, tramite questa gigione ria,  a caricatura d un’individualità libera e cosciente,
Il reazionario s’illude di difendere le ragioni dell’avventura: come l’ataman Skoropadski, vuole opporre le tende e i cavalli cosacchi a quella che gli appare l’aggressione livellatrice della rivoluzione, ossia della modernità e del collettivo. La sua tragedia è quella d’incarnare inconsapevolmente la pantomima dell’avventura e di sancirne la fine: le sue scelte politiche lo collocano paradossalmente , come Céline o Pound, a fianco delle forze intente a distruggere ferocemente quel mondo della tradizione ch’egli crede di custodire. È la strada percorsa, con una esemplarità da apologo, da un altro ataman cosacco, che le guerre mondiali portarono due volte ala ribalta di una Storia troppo complessa per la sua intelligenza esaltata e le cui vicende sembrano uscite da un ossessivo racconto circolare di Borges.
Pjötr Nicolaevich Krassnoff, il cui corpo mai definitivamente identificato si trova forse in un piccolo cimitero della Carnia,  era stato un generale dell’armata bianca durante la guerra civile russa. Dopo aver combattuto e perduto seriamente una reale battaglia storica contro la rivoluzione, si era trasferito a Parigi dove aveva condotto l’esistenza irreale del sopravvissuto, tra la fastosa cartapesta del principe spodestato, i malinconici allori del generale in pensione e la tenace  verità della nostalgia.
Negli anni Trenta raggiunse una certa fama con alcuni romanzi di facile ed avvincente piglio avventuroso, fra i quali spiccano “Dall’Aquila imperiale alla bandiera rossa”, affresco melodrammatico e non troppo partigiano della rivoluzione russa, e “Tutto passa”, elegia cosacca dei secoli andati. Col successo di questi libri, favoriti dalla propaganda antisovietica, Krassnoff compiva senz’accorgersene un ulteriore passo verso il mito, anzi verso il “techincolor” di se stesso e del suo dramma; la sua figura di romanziere zarista in uniforme veniva abbassata al livello dei coloriti personaggi della sua scorrevole penna ed egli medesimo entrava quasi a far parte del suo “feuilleton”, composto a tavolino con la disinvoltura dell’arroganza e col pungente morso del ricordo. “Tutto passa”, canto di gloria e d’addio del principato cosacco, celebra la rapida e fugace conquista dei cavalieri, le effimere e violente costruzioni dei nomadi senza radici; celebra un impeto che si dilegua come quello del “gaucho” di Borges, esalta il separatismo cosacco ribelle al’ordine moscovita, anche a quello zarista.
“Tutto passa” contiene il successivo destino di Krassnoff, tragico e grottesco. Durante l’invasione della Russia l’esercito nazista, che cerca di aizzare i particolarismi locali contro il centralismo sovietico, ripesca dall’ombra dell’oblio e della vecchiezza l’ottuagenario generale e lo pone alla testa di una raffazzonata armata di cosacchi che aderiscono  a collaborare con il Terzo Reich. Krassnoff ritorna a fare il generale per comandare un’accozzaglia valorosa e sbandata di soldati traditori e traditi, razziatori e fuggiaschi; ritorna per comandare un’illusione e una ritirata. L’esercito tedesco che ripiega si trascina dietro migliaia di esuli cui promette una nuova patria: ha così inizio un’anabasi epica e assurda attraverso la Polonia, l’Ungheria, l’Austria. Ai cosacchi di Krasnoff viene promessa la Carnia, la falda montagnosa e povera del Friuli dov’essi si insediano  ribattezzando i villaggi con i noi de paesi del Don.  È una migrazione di popoli che ripete la marcia delle antiche invasioni barbariche, e che la ricalca con la sterile schiavitù di ogni ripetizione, copia deforme e coatta di una vita già vissuta e passata.  I testimoni dell’occupazione cosacca ne ricordano ilo lacero e rutilante disordine, le divise difformi e spaiate, le scimitarre pesanti e i sudici berretti, i carri con le famiglie e le masserizie, i cavalli e i cammelli, qualche sgangherato landeau, le strabocchevoli decorazioni, il prolungato soffiare dei corni.
Krassnoff s’installa in un alberghetto di Villa di Verzegnis, dove restaura uno sfarzoso cerimoniale “ancien régime”, assecondato dal’anziana consorte principessa Lidia, e sogna la grande campagna militare. Divide le sue schiere in ipotetici distaccamenti diversi e con comandi variamente dislocati: il generale Michele Salamakis a Verzegnis, , il colonnello principe Zulikize a capo dei georgiani che poi passeranno ai partigiani, i circassi a Paluzza. Non s’accorge che alcuni di questi corpi ammontano a poche decine, né che i marescialli sono quasi più numerosi dei soldati; romantico condottiero della libertà cosacca, accetta con orgoglio dai tedeschi il permesso di fregiare con l’aquila hitleriana i reparti scelti. Non può capire l’ironia della storia, perché egli stesso è un aspetto di quell’ironia.  Sulla carta geografica d quel paese straniero che dovrebbe trasformarsi nelle terre del Don, egli traccia linee di fulminei movimenti strategici, mentre i suoi uomini vengono adibiti dai nazisti a piccole operazioni ausiliarie ed a odiose violenze: scaramucce, rappresaglie, razzie, incendi, stupri, sequestri. È vecchio, vede talora qualche suo soldato musulmano srotolare il tappeto di preghiera e lascia che i suoi uomini si macchino di crudeltà e devastino i pascoli con i loro cavalli. È vecchio, ed è ben diverso dal suo rivale Wlasov, il comandante  della Ruskaja Osvobodetelnaja Armja che fiancheggia i nazisti:  Wlasov ha difeso Moscfa contro i tedeschi, è un patriota russo che si è deciso al collaborazionismo perché antistaliniano e ha deciso di non portare le stellette finché il suo paese non sarà tornato libero e indipendente; sarà impiccato a Mosca dopo la guerra. Krassnoff, che lo odia, è invece un cosacco che sogna un’autonomia feudale e tribale; fra i drappi della sua residenza principesca nella pensioncina carnica ha forse qualche mappa settecentesca della nazione cosacca e forse pensa a Mazepa, l’ataman che parlava latino e tradì Pietro il Grande con l’invasore svedese. Lungi dall’immaginare quale sarebbe stata la fine della sua gente se il nazismo sarebbe risultato vittorioso, non capisce di aver guidato una migrazione di popolo alla rovescia, di essere il duce di una schiavitù. Combatte per la seconda volta una battaglia che ha già perduto un quarto di secolo prima, e questa ripetizione lo condanna ad essere l’istrione della propria sconfitta e l’ingannatore dei suoi uomini coraggiosi e disperati che egli, cercando l’avventura dalla parte sbagliata, ha consegnato ad un potere straniero il quale non lascia loro alcun margine di scelta, di libertà e d’avventura.
La reazione sclerotizza la storia dell’eterno ritorno dei fantasmi; la tragica odissea cosacca viene degradata a folclore. È possibile, ma non certo, che sia Krassnoff l’alto vecchio ucciso il 2 maggio 1945 a Villa mentre tentava di fuggire in divisa di soldato semplice e la cui salma fu riesumata nel 1957 da una commissione militare; secondo altri (p. es. Carnier) fu invece impiccato a Mosca nel 1947. Dei suoi cosacchi molti caddero in combattimento, alcuni arresisi agli Inglesi si annegarono nel’Inn per non essere consegnati ai sovietici, altri trovarono qualche scampo. Se è Krassnoff lo sconosciuto morto senza spalline d’ufficiale, soltanto la nudità e l’assoluto della morte lo hanno liberato dalla sua impossibilità di vivere l’avventura.»

Una pagina avvincente; ma nella quale si trova molta letteratura, un po’ di psicanalisi, e pochissima storia.
Krasnov (nome che Magris preferisce scrivere alla francese, Krassnoff, come i suoi traduttori italiani degli anni Trenta) si direbbe che gl’interessi più come caso emblematico di tutto ciò che è patetico e grottesco, tragico e paradossale, insomma come punto d’incontro fra eroe negativo della letteratura decadente e paziente sul divano dello psicanalista, che non come concreto personaggio storico, di cui è doveroso studiare le motivazioni senza indulgere ai troppo facili «clichés» di una storiografia di matrice letteraria, come lo era quella romana classica.
Un po’ come il re Bocco di Mauretania per il Sallustio della «Guerra contro Giugurta», il Krasnov di Magris ha poco o niente del personaggio storico reale e molto, forse un po’ troppo, del personaggio letterario da romanzo novecentesco a forti tinte, con generose concessioni al patetico, al grottesco e al patologico. Insomma, somiglia più a un personaggio di Proust, di Pirandello o magari di Kafka, che a un reale protagonista di una pagina oscura, ma non per questo assurda, della recente storia di Russia e d’Europa.
In realtà, anche il quadro tracciato da Magris è figlio del suo tempo. Nel 1974, si poteva ancora parlare di quei Russi che avevano scelto di combattere contro Stalin come dei protagonisti di una avventura sbagliata, perché vi era il sottinteso che l’avventura giusta sarebbe stata quella di accettare la sfida dei tempio e mettersi tutti in bell’ordine al fianco dei bolscevichi e contro le divisioni di Hitler. Ancora recentemente, un attardato storico di matrice marxista non si è vergognato, in un programma televisivo, di paragonare la battaglia di Stalingrado niente meno che a quella delle Termopili: dove le divisioni corazzate di Stalin sarebbero state, evidentemente, le apportatrici della libertà all’Europa e al mondo. Peccato che i popoli asserviti dall’Unione Sovietica nel 1945, e gli stessi cittadini russi, dopo aver sperimentato alcuni decenni di quella «libertà», la pensino un po’ diversamente.
Ma oggi che il muro di Berlino è caduto da vent’anni e che l’avventura sovietica non ci appare meno rovinosa e profondamente «sbagliata» di quella hitleriana, siamo proprio sicuri che solo dei personaggi da pera buffa avrebbero potuto fare la scelta di accettare di collaborare con il Tedesco invasore, pur di tentare un estremo sforzo per recuperare la propria autonomia e il ripristino dei propri valori tradizionali? Oggi che noi Italiani, per esempio, sappiamo quali e quante atrocità furono perpetrate dai partigiani slavi ai danni degli Italiani della Venezia Giulia, infoibandoli a centinaia e forse a migliaia, siamo proprio sicuri che, nell’Europa della seconda guerra mondiale, ogni cosa fosse chiara e tutto il bene stesse da una sola parte della barricata, e tutto il male dall’altra?
E, in termini ancora più generali, non si potrebbe forse osservare che (per citare una celebre frase proprio di Ernesto “Che” Guevara) «le battaglie non si perdono, si vincono sempre»? Oggi che l’Ucraina è uno Stato indipendente, e così le Repubbliche Baltiche, la Bielorussia, la Georgia; oggi che si riconosce il sacrosanto diritto all’autonomia dei piccoli popoli entro le grandi nazioni, non sembra poi così folle la causa per la quale Krasnov si è battuto.
Nel 1941, per i piccoli popoli dell’Europa orientale, sopravvivere voleva dire barcamenarsi fra i due colossi, la Germania e la Russia: si può forse biasimarli per aver giocato quella carta? E si può accusare di collusione col nazismo quelli che, come ad esempio gli Slovacchi, accettarono la protezione di Hitler, quando tutto ciò che essi volevano era la propria sopravvivenza in un mondo spietato, massificante, fatto su misura per i grandi numeri della finanza, dell’economia, della politica e della guerra?
Claudio Magris indulge un po’ troppo in una rappresentazione di Krasnov che ricorda quella, grottesca, del Re Ubu di Alfred Jarry; ma il suo sottinteso punto di partenza è quanto meno discutibile: che, cioè, una avventura esistenziale possa essere in se stessa sbagliata nonché autoironica, se non ha l’hegeliana (e marxista) benedizione della Storia.
Di nuovo: non essendo la Storia, in quanto tale, un tribunale, chi vorrà arrogarsi il diritto di salire sul banco del giudice, per emettere una simile sentenza? Crediamo che un tale diritto non competa ad alcuno, per quanto sia comprensibile l’esigenza dell’artista di rielaborare la materia storica.