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Cocaina: Da Freud alla Coca cola Tutte le piste di una storia occidentale

di Cristina Petrucci - 28/12/2009




«Nel 2011 i consumatori di cocaina saranno circa 700mila, il 5% in più rispetto al numero di consumatori del 2008». Scriveva il Corriere della Sera quest'estate. E questo è solo uno dei continui articoli, inchieste, scoperte che i mezzi di informazione pubblicano quasi quotidianamente sulla cocaina. Come se il grande consumo della sostanza fosse stato scoperto soltanto adesso. Invece, quella della cocaina è una storia che non inizia neanche in questo millennio bensì si perde nella notte dai tempi. Recentemente le nuove tecnologie hanno potuto trovare traccia nei capelli di mummie cilene del 2000 a.c. della presenza di benzoilecgonina, un metabolita della cocaina. Al nostro secolo si deve tuttavia l'uso degli effetti per la ricreazione, il proibizionismo, ma soprattutto il grande volume d'affari.

Nel 1884 il dottor Sigmund Freud pubblica un volumetto a lui tanto caro Uber Coca . Il padre della psicanalisi racconta con molto entusiasmo, la scoperta di questa sostanza sperimentata su sé stesso per curare la depressione. In una lettera  del 21 aprile del 1884 così racconterà alla fidanzata: «Ho letto della cocaina (….) Me ne sto procurando un po' per me e poi vorrei provarla per curare le malattie cardiache e gli esaurimenti nervosi…». Purtroppo però la natura è crudelmente avara nel dispensare il piacere. Più l'esperienza è eccitante, più il cervello soffre quando si rende conto che è già finita. Con il passare del tempo, Freud si accorge che ci volevano dosi sempre più forti o più frequenti per ottenere lo stesso risultato tanto che molti dei suoi pazienti finirono per assuefarsi. Così come il patologo e suo amico Ernst Fleischl, che diventerà  tristemente noto alla storia come il primo caso di psicosi cocainica. Tuttavia Freud una cosa l'aveva capita molto bene: la possibilità di sfruttare questa sostanza per trarne un profitto, il suo sogno era quello di comprarsi finalmente una casa. E molti dopo di lui seguirono questa strada.

Così il giovane chimico corso Angelo Mariani che a Parigi produsse quell'ottimo vino con estratti di coca che tanto Papa Leone XIII raccomandò per le messe cantate apparendo addirittura in un manifesto per farne pubblicità; mentre l'intraprendente farmacista americano John Pemberton che produsse una delle bevande ancora più bevute al mondo: la Coca cola. Ogni bottiglietta, prima del proibizionismo, conteneva l'equivalente di una piccola dose di cocaina. «Oggi la cocaina vale più del suo peso in oro. Il suo prezzo è all'origine circa il quattro per cento del prezzo di vendita al dettaglio» scrive il docente di Farmacologia di Cagliari, Gian Luigi Gessa nel suo libro Cocaina (Rubbettino, 2008), che aggiunge come «La rivista Fortune colloca l'industria della cocaina illegale al settimo posto nella lista delle cinquecento maggiori imprese economiche, tra Gulf Oil e Ford Motor Company».

Nel 2003 le vendite della sostanza nelle strade americane hanno raggiunto i 35 miliardi di dollari. E non appena il mercato statunitense si è saturato, quelli in Europa si sono mostruosamente aperti. Tanto che oggi la cocaina non è più esclusiva degli strati abbienti della società, non è appannaggio di fotomodelle o imprenditori, oggi si trova  raccolta in "pezzi", appallottolata nelle tasche della gente comune, nelle borsette delle signore, nei portafogli del lavoratori, negli zaini degli studenti, nella cassaforte dei politici, ovunque. Ne hanno trovato percentuali imbarazzanti perfino nelle acque dell'Arno e residui in quasi tutte le banconote che maneggiamo. Pippata, scaldata, tagliata, fumata oggi la cocaina viene usata indistintamente con o senza permesso di soggiorno, con o senza contratto a tempo indeterminato, ricco o povero, uomo o donna che sia. A fronte di una politica del guadagno folle che sta giustificando militarizzazioni e politiche proibizioniste che riempiono le galere.
Potremmo dire che è tutta colpa degli inca? Gli abitanti dell'area compresa tra Colombia, Perù e Bolivia, dove si producono i tre quarti della cocaina del mondo, masticano foglie di coca da migliaia di anni. Non solo per le sue proprietà stimolanti - che cancellano la fatica e danno l'energia necessaria per affrontare le ripide salite nell'aria rarefatta di quella regione montuosa - ma anche per le sue qualità alimentari, poiché le foglie contengono vitamine e proteine. Poi arrivarono i conquistadores con il loro divieto definendola "uno strumento del diavolo", per poi scoprire che senza quel "dono degli dei" gli indigeni non riuscivano a lavorare nei campi o a estrarre l'oro. Improvvisamente la coca fu legalizzata e anche tassata e gli invasori cominciarono a tenere per sé un decimo dei raccolti. Le foglie erano distribuite ai contadini tre o quattro volte al giorno, durante le pause dal lavoro. Addirittura la chiesa cattolica cominciò a coltivarla. Poiché le foglie sopportavano male il viaggio venivano esportate in Europa solo sporadicamente, così negli Stati Uniti, come nel Vecchio Continente ben presto arrivò la sostanza lavorata e in polvere. Una storia che però si ripete ancora oggi.

Nel 2006 il regista Andrea Zambelli si reca in Colombia per un progetto di alfabetizzazione comunicativa, qui realizza Mercancia , un documentario che segue tutto il processo di "fabbricazione" di questa sostanza nella regione del Magdalena-Medio, nei vari passaggi di produzione fino alla pasta. Ma soprattutto raccoglie il racconto degli stessi contadini e si sofferma sui gruppi paramilitari che gestiscono gli scambi della cocaina fra campesinos e narcotrafficanti. Dalla raccolta della pianta fino alla raffinazione ogni passo viene tassato dai gruppi paramilitari come una qualsiasi transazione economica. In venti velocissimi minuti, il regista mostra l'esistenza di una piccola comunità di coltivatori dalle tradizioni salde e dalla vita rurale. Nulla di più distante, dunque, da ciò che nel nostro immaginario può rappresentare un narcotrafficante. Nessun campesinos, infatti, è consumatore o fruitore della cocaina, né partecipe, se non in minima parte, degli incredibili guadagni legati al commercio di questa sostanza. In questi paesi, costretti spesso a lavorare nei campi di coca per poter sostentare le proprie famiglie, i contadini tramandano di padre in figlio la tradizione per la raccolta e la preparazione della pasta. L'opprimente condizione imposta dai narcotrafficati e i metodi brutali di repressione dei paramilitari impediscono la formazioni di oppositori e i pochi sindacalisti che coraggiosamente si mettono contro di loro vengono spesso messi a tacere. Ed è proprio questo il problema principale: il guadagno. Nelle nazioni di produzione un grammo di cocaina (come reso noto dalle Direzioni internazionali per la lotta alla droga) viene pagato un euro per una purezza pari al 95%. Sul mercato occidentale bene che va viene rivenduta con soltanto il 25-30% di principio attivo, con un guadagno del 1.200%. Del resto Roberto Saviano in Gomorra ci parla di un «fatturato 60 volte superiore a quello della Fiat». E questo solo in Italia. Sarà per questo che la cocaina viene chiamata "il petrolio bianco", il vero miracolo del capitalismo contemporaneo, in grado di superare qualsiasi crisi economica. Così i mercati crollano e il prezzo della cocaina in Occidente scende ma non quello del fatturato. Un vero affare.