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L'eccezionalità diventata norma e la percezione (folle) della natura ad uso e consumo dell'uomo

di Umberto Mazzantini - 28/12/2009

 

 

Leggendo le cronache di queste alluvioni annunciate che sconvolgono i bacini idrici, mangiano montagne, allagano le pianure di un Paese fragile ed immobile che consuma cemento a ritmi frenetici cinesi, vengono subito in mente due o tre cose.

La prima è il richiamo ossessivo all'eccezionalità dell'evento. Un mantra salvifico e in qualche modo consolatorio che recitano soprattutto politici ed amministratori, come se ormai "l'eccezionalità" non fosse diventata la norma, come se gli "eventi estremi" non fossero ormai la quotidianità climatica che segna il nostro tempo, come se gli annunci fatti da scienziati, ambientalisti, Ipcc ed Unfcc che questo (esattamente questo) sarebbe accaduto, fossero una clamorosa scoperta che rinnoviamo stupiti ad ogni violento e prolungato nubifragio.

Le esondazioni di Natale dimostrano che occorre al più presto pensare all'eccezionalità come normalità, come quello che ci aspetta, attrezzarci a questo, a far fronte a quel che accadrà in una delle regioni del pianeta, quella mediterranea, ritenuta più a rischio nei vari scenari dell'Ipcc.

Ma quell'acqua e fango che avanzano, invadono strade e sfondano porte ci dicono anche che i nostri calcoli sono sbagliati, proprio perché fatti con i dati della normalità, con i corsi e ricorsi decennali, centennali e duecentennali che non esistono più, spazzati via da un clima che non ubbidisce più a regole che credevamo immutabili. E se sono sbagliati i calcoli sono sbagliati anche i rimedi, le previsioni, le misure.

Dai commenti e dalle proteste di questi giorni (anche di chi giustamente piange i suoi beni e trema per il pericolo scampato) emerge un'altra cosa con cui bisognerà fare i conti. Una cosa che ha a che fare con la politica, la cultura popolare e la percezione della natura.

In molti, probabilmente la maggioranza, sono convinti che, grazie alla tecnologia ed all'intervento umano, tutte le catastrofi potrebbero essere evitate e se non lo sono è colpa della mancanza di infrastrutture, investimenti, uomini dedicati. Non è così (o meglio non è sempre e solo così).

Al di là dell'argine che cede, delle nutrie (importate dall'uomo) che lo scavano, dell'alveo non pulito dal Consorzio... non esiste miracolo tecnologico che possa mettere per sempre al riparo l'uomo dalla natura, dalla sua forza benefica e devastante.

Il pensarlo fa parte di quell'artificializzazione della realtà che stiamo vivendo, rispecchia, dalle nostre imbandite tavole natalizie, l'opposto fatalismo di chi nei Paesi poveri e poverissimi vive le catastrofi naturali come inevitabile, come volere di un Dio imperscrutabile.

Pensare che basti alzare argini, spalmare cemento, imbrigliare e confinare altrove la forza della natura ci salverà da ogni pericolo è una vana speranza, l'uomo deve comprendere, o ritornare a comprendere, che ci sono posti non fatti per le sue case, le sue strade e le sua fabbriche, posti che la natura prima o poi si riprenderà.

Occorre pensare alla terra non più come a qualcosa di immutabile, ma a qualcosa che si assesta, crolla, si muove, esonda, distrugge, modifica e crea. Allora occorre fargli spazio, perché nessuna barriera resiste. Ce lo dicono le molte tragedie "naturali" vissute dall'Italia in questo luttuoso 2009 di terremoti e frane, alluvioni e slavine.

Anche le critiche alla Protezione civile sono abbastanza ingenerose, probabilmente la vigilia ha sorpreso molti volontari ed operatori con il panettone in bocca, la reazione è stata quella di un giorno di festa dove non ci si attende che pace e tranquillità, ma è proprio quanto si diceva prima: la natura e le sue forze sono sempre al lavoro, non conoscono soste e feste, si mettono in moto come, quanto e dove più le aggrada e l'uomo in quel momento (ri)diventa una parte del tutto e le sue ambiziose opere poco più di nulla.

Fateci caso, almeno in Toscana, in molte delle aree colpite dall'alluvione sono in progetto grandi infrastrutture, mega-supermercati, villaggi e porti turistici affacciati su spiagge erose, con il mare che ormai scava le strade... nessuno, salvo i soliti pochi, parla di rivedere queste scelte, in molti accusano i "verdi" di non aver lasciato fare (ma dove?) infrastrutture pesanti che probabilmente non sarebbero servite a nient'altro che ad amplificare i danni.

Asciugata l'acqua e la rabbia, le autostrade e gli svincoli avanzeranno nel fango e i mobili svedesi arriveranno finalmente a Migliarino, si costruiranno i villaggi turistici alle foci dei fiumi che oggi fanno paura e le dighe foranee per ospitare un turismo nautico che si mangerà definitivamente quello balneare.

L'uomo fa presto a dimenticare, la natura no.

L'alluvione di Natale potrebbe essere un monito, un richiamo a far meglio, a comprendere le nuove dinamiche ambientali con le quali dovremo fare i conti, ma ne dubitiamo.

Fino ad oggi l'esperienze che abbiamo vissuto (salvo rare eccezioni) sono state quelle della messa in sicurezza del territorio per continuare a fare quel che si faceva prima e più di prima. Il risultato è spesso stato quello di un'ulteriore cementificazione, "indurimento" e infrastrutturizzazione che ha cambiato nuovamente i parametri della messa in sicurezza ed esposto nuovamente il territorio ai pericoli che si sarebbero dovuti evitare.

Se si mette in sicurezza per continuare a costruire dove non si dovrebbe, se si ricostruisce dove l'acqua si era ripresa i suoi antichi cammini, probabilmente c'è qualcosa che non va.

La grande ed indifferibile opera pubblica del recupero del nostro territorio nazionale ha probabilmente bisogno di essere costruita con una materia prima essenziale: il rispetto degli equilibri esistenti, che sono fatti sempre più anche di repentini e violenti squilibri, dell'adattamento delle opere dell'uomo ai mutamenti naturali e non della natura all'uomo, non rincorrendo un impossibile sogno prometeico di addomesticamento della forza della natura con la tecnologia, ma mettendo la tecnologia al servizio della sicurezza dell'uomo e dell'equilibrio che abbiamo contribuito a rompere.